ANDAR PER NECROLOGI: DIVAGAZIONI SULL’IMMORTALITÀ
DOMENICO SCARAMUZZI
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‘Ma di che parliamo?’
Nel linguaggio corrente, questa domanda può esprimere un diniego oppure una possibilità. C’è, infatti, un uso di essa funzionale a chiudere ogni discussione o, più radicalmente, a decretare l’inutilità del discorrere stesso. È come dire: ‘vogliamo proprio continuare a parlare di ‘ciò’ che, per la sua comprovata indecidibilità, è un’assodata assurdità?’. Anzi, espressa in modalità imperativa – e, quindi, priva del punto interrogativo – la domanda può addirittura esibire il diniego sprezzante del ‘lasciamo perdere’.
Della stessa domanda, però, vi è anche un uso che apre ed insinua interessamento ed avanza richieste di chiarificazione. In questo caso, il ‘ma di che parliamo?’ unisce la voglia di discutere ad esigenze di univocità, reclama una sorta di previa suppositio terminorum che consenta di cogliere, nella maniera meno ambigua possibile, l’effettiva posta in gioco – la referenza reale – della discussione.
Ebbene, nel discutere e riflettere sul nostro tema, chiedersi ‘di che parliamo?’ significa porsi una domanda assolutamente fondamentale, dal momento che di immortalità dell’anima si può parlare non solo in molti modi, ma in diversi sensi e svariate accezioni. Il nostro oggetto di indagine, infatti, oltre alla complessità insita nella lunga storia delle interpretazioni e degli approcci, scivola, spesso inavvertitamente, su differenti piani semantici con il rischio di farci brancolare nel vago. Giusto per esemplificare, si può parlare dell’immortalità come di un ‘desiderio’ oppure considerarla una ‘qualità’ dell’anima; la si può ritenere un mitologumeno d’ordine teologico e religioso oppure un ‘trucco’ della cultura che, con la sua promessa di premio e di castigo, farebbe da pendant e da supporto alle paure correlate alla ‘mortalità’. Oggetto ambiguo a tal punto da fomentare il sospetto – per riesumare vecchie pagine di Feuerbach – su un Dio ridotto a ‘periferia della religione’ da parte di soggetti che, in realtà, altro non cercano che uno ‘spazio infinito’ per impiantare la ‘botteguccia’ della loro miserabile individualità liberi da ogni altro affanno: una ‘sostituzione di costumi’, insomma, per replicare la pièce già recitata nel teatro del mondo o un ‘cambio di cavalli freschi’ per continuare anche nel futuro la corsa di un curriculum vitae diretto a poppare per l’intera eternità in se stessi! Ma si può anche pensare ad un’immortalità light conseguita in sedute di lunch-lifting, assunta ‘tot compresse die’ in terapie per il benessere o, in altra direzione, assimilata alla sopravvivenza emerita degli eroi, di un premio Nobel o di quanti hanno inventato qualcosa di eccellente per il bene dell’umanità. E così via.
- Premesse necessarie
Trattandosi di una problematica notoriamente complessa, tormentata e sospesa – una vera e propria vexata quaestio – qualunque riflessione intorno all’immortalità dell’anima necessita di un nutrito corredo di premesse, tra cui, in primo luogo e in termini assolutamente rigorosi, le sue ipotetiche condizioni di pensabilità. Infatti, non dispongo – almeno nel mio repertorio – di strumenti affinati e di categorie appropriate per affrontare adeguatamente la questione. Ragione per cui, ogni tentativo di riflessione sarà sempre un insidioso attraversamento di sabbie mobili senz’altro appiglio che qualche chance ipotetica.
Questa previa e doverosa ammissione di inadeguatezza s’innesta immediatamente in un’altrettanto necessaria considerazione d’ordine fondamentale: la questione dell’immortalità dell’anima comporta ed intreccia in sé due ambiti di problematicità distinti e complementari.
Il primo, riferito all’anima, ha a che fare con la questione concernente l’identificazione di quel quid che ‘sopravvive’. Ad essere rigorosi, direi che, a tal proposito, il problema non si risolve e soprattutto non ha senso affermando [meglio: postulando] una possibilità di vita oltre la morte, se prima – o, per lo meno, contestualmente – non ci si interroga sufficientemente in ordine all’identità personale e non si salvaguarda l’unicità altrettanto personale di quel soggetto dell’immortalità che – solo per comodità – continuiamo a chiamare ‘anima’.
Il secondo ambito di problematicità riguarda i non meno spigolosi rapporti tra temporalità e immortalità. La questione dell’immortalità – lo si sa – apre in direzione del futuro, se non altro perché implica l’eventualità di una ulteriorità dal tempo. In merito a quest’aspetto, oltre all’affermazione filosofica, secondo cui l’uomo si sente interiormente chiamato a divenir degno cittadino di quel mondo migliore che gli è presente nell’idea (Kant), non si può non ascoltare il coro delle religioni, sostanzialmente concordi nell’attestare che non tutto finisce con la morte. Anche a questo proposito, il nodo cruciale del problema non va ridotto all’eventualità di una possibilità di vita oltre la morte [o oltre la vita], ma consiste nel capire se, come e in che senso quella vita ‘al di là’ della morte sia da pensarsi come prolungamento di questa vita ‘al di qua’ della morte o se non sia il caso di rendere ragione di un’innegabile discontinuità.
A mio parere, la segnalata salvaguardia dell’identità e dell’unicità personale impone di porre attenzione al fatto e al senso dell’evidente ‘discontinuità’ tra questa e quella vita, evitando l’ipotesi estrema di una dissoluzione dell’anima individuale in una sorta di impersonale orizzonte cosmico. A questo proposito, mi sembra sostanzialmente debole e frettolosa, oltre che incauta e confusa, la ‘continuità’ – di recente affermata dal libro di V. Mancuso – tra la nostra origine e il destino che ci attende: una continuità che, in definitiva, fa coincidere l’immortalità dell’anima con la sopravvivenza di un «puro pensiero» (L’anima e il suo destino, pag. 123). Da parte mia, ritengo che la questione dell’immortalità imponga – e non solo in sede teologica – di evidenziare e, quindi, di rendere ragione di non trascurabili discontinuità, se non addirittura di vere e proprie fratture, tra la dimensione fisico-biologica della cosiddetta vita terrena e la dimensione ‘altra’ della vita che non finisce.
Un’ultima avvertenza preliminare riguarda il facile ed ovvio – ma, evidentemente, azzardato – ricorso immediato all’ipotesi-Dio per risolvere ogni problema. Si badi bene: il corsivo non esclude il ricorso a Dio, ma l’immediato appellarsi al piano teologico che, in realtà, produce più complicazioni che risposte risolutive. Basta richiamare qualche assunto della nostra tradizione di fede in merito all’immortalità dell’anima per constatare le difficoltà enormi che si moltiplicano come le teste dell’Idra soprattutto là dove si impone il compito di districarsi tra i non chiari rapporti tra Cristianesimo e cultura greco-romana. Si pensi allo ‘scandalo’ sollevato nella metà del Novecento dal libretto di O. Cullmann: Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti?, in cui l’autore pone in forse il legame tra la ‘risurrezione dei morti’ e la credenza nella ‘immortalità dell’anima’ conseguito sacrificando Paolo a Platone, cioè dando più credito al Fedone che alla Prima Lettera ai Corinti.
Al di là degli esiti del dibattito, forse consumatosi solo all’interno di un confronto teologico poi trapassato nella versione Ratzinger-Greshake-Lohfink, l’immortalità dell’anima resta una questione estranea al Nuovo Testamento, là dove l’interesse è diretto alla ‘risurrezione’ e alla partecipazione di ‘tutto l’uomo’ (corpo e anima) alla vita di Dio. In 1Cor 15,54-56 si parla addirittura di un corpo che verrà ‘rivestito’ di immortalità! Anche a prescindere dalla problematica relativa al retroterra culturale, per la Scrittura l’immortalità dell’anima è un concetto sostanzialmente marginale rispetto al centro occupato dall’affermazione della fede che punta alla pienezza della ‘vita’ presso Dio, che rimane sempre una conseguenza (effetto e dono) della ‘vittoria’ pasquale, non una proprietà dell’anima.
- Tra l’implicito e l’equivoco
Dopo queste rapide e grossolane avvertenze, mi propongo di fare un giro in strada per distrarmi, osservare e poi ritornare più rinfrancato al nostro tema. «È venuto a mancare all’affetto dei suoi cari…», «ha lasciato questo mondo…», « È deceduto all’età di… », «È tornato alla casa del Padre», «T. annonce the passing of …», «Est décédé Mgr…»: sono alcune delle più ricorrenti espressioni che si leggono sui manifesti da lutto e nei necrologi. Nonostante la loro fissa schematicità, questi annunci dicono diverse cose. E, soprattutto, danno a pensare.
3.1. Anzitutto, mostrano un comune denominatore nell’alludere ad un ‘passaggio’: un ‘venire a mancare’, un ‘partire’, un ‘tornare’, un ‘trasferirsi’. Non sono affermazioni di immortalità – questo è vero – ma punti di tangenza di un senso, manifestazioni di un cambiamento di stato, poco o niente supportato da riflessioni approfondite e da pindariche argomentazioni speculative. A modo loro, sono espressioni che sporgono su un’altra modalità di esistenza preconizzata come dis-continua rispetto alla cosiddetta esistenza ‘terrena’. Dicono che il tempo di qualcuno si è interrotto o che la vita di qualcuno si è interrotta in un determinato momento del tempo, l’ultimo di cui, non a caso, si riporta la data. In ogni caso, si riferiscono ad un soggetto che, per le cause più diverse, ha subìto l’evento della morte e ne è stato modificato. Non di rado, forse sotto suggerimento di una cultura ancora religiosamente contaminata, questo genere di interruzione è implicitamente data come l’inaugurazione di una sorta di liberazione dal tempo o, per lo meno, da ‘questo’ tempo, l’unico che ci è dato conoscere. Vi ritornerò.
3.2. Non del tutto irrilevante, poi, è la stretta correlazione di questa interruzione con una nuova destinazione, spesso espressa come un passare ad ‘altra [miglior] vita’, anche qui esibita per il tramite di innumerevoli e più rifinite immagini religiose: riposo, pace, quiete, cielo, banchetto, beatitudine, gloria, regno, paradiso, eternità. Logicamente, non dobbiamo lasciarci sviare dalla pletora plurale delle figure: di fatto, esse gravitano attorno ad un’unica rappresentazione o – forse, meglio – alla rappresentazione di un ‘altro’ rapporto con la realtà. L’impressione è che la morte sia un evento che chiude ed apre, un limite che separa e unisce o, meglio, che separa mentre unisce. D’altra parte, un decesso non può non essere un accesso, dal momento che una vita vissuta non potrebbe, in verità e sensatamente, dirsi ‘finita’ ‘conclusa’ qualora l’interruzione la lasciasse indeterminata, dissolta o aperta. In altre parole, l’evento riportato dal necrologio dice ‘definitività’, attesta che, comunque la si pensi o ipotizzi, la destinazione di questo passaggio implica come necessaria la dimensione del definitivo. Si badi bene: anche in questo caso, non si ha a che fare con dirette ed esplicite affermazioni circa l’immortalità, ma, in qualche modo, si è posti di fronte ad abbozzi di una dimensione del definitivo postulata come l’unica che possa eventualmente supportarla.
3.3. Intricata ed intrigante, ma anch’essa fondamentale è, infine, la modalità e/o identità del soggetto di cui si annuncia il passaggio alla situazione di definitività: chi o che cosa ‘passa a miglior vita’? Chi è il soggetto di questo ‘trapasso’?
È, senza dubbio, il punto più delicato: filosofia, tradizione credente e teologia presentano una varietà di approcci e di tentativi di soluzione che non è pensabile recensire in queste pagine. Qui non posso che tornare ad insistere sul carattere affatto improprio dell’espressione ‘immortalità dell’anima’ e ribadire che essa non ha da essere limitata all’anima, ma riferita all’integralità del soggetto umano, anche perché i termini in evidenza sui manifesti – e, a volte, la foto – sono inequivocabilmente quelli del nome e del cognome di una persona con volto e storia.
Con l’avvertita consapevolezza che, tirando in ballo la questione del soggetto ‘personale’, si dà incremento alla complessità del problema, non ho altro di meglio che citare a memoria K. Rahner – con la trepidazione di non deragliare grossolanamente – e sostenere che, per ragioni segnatamente metafisiche, il corpo è l’‘alterità’ necessaria e con-costitutiva dell’anima creata. Di conseguenza, il corpo – o più in generale la corporeità – non può essere pensato come una sorta di condizione ‘terrena’ dell’anima e della sua attività, vale a dire un’infrastruttura di supporto che, poi, nella dimensione del definitivo sarebbe da dismettere come un rivestimento transitorio e, quindi, da negare come qualcosa di superfluo una volta conseguita la meta. D’altronde, dopo tutto ciò che la filosofia odierna ha detto e scritto sul ‘corpo’, non è più tempo di correre dietro ad una corporeità pensata come luogo di esilio per un’anima precipitata dall’alto. E ciò anche a prescindere da quel che è chiaramente espresso da Socrate nel Fedone a proposito della morte in quanto evento che scinde radicalmente l’anima dal corpo di modo che l’una possa stare per conto suo rispetto all’altro (cf Platone, Fedone 64c). La corporeità non è il carro da cui scendere alle porte della morte o, meglio, da abbandonare sulla soglia dell’altra vita, ma momento intrinseco della richiamata definitività.
3.4. Ma vi è dell’altro. Non si può stare dietro a siffatta immortalità ‘ad una sola dimensione’ soprattutto perché i sistemi che affermano la separazione dell’anima dal corpo sono necessariamente costretti, prima o poi, a sostenere anche la loro opposizione radicale e, quindi, a legittimare inevitabilmente il contrasto inconciliabile tra ciò che non può nascere né morire (l’anima) e ciò che, invece, nasce e muore in quanto appartiene al mondo della sensibilità [e della corruzione]. D’altra parte, è vincere facile attribuire l’esclusiva alla (sola) anima imparentandola col divino di modo che: a) la sua immortalità sia la diretta conseguenza della sua origine divina; b) essa si accaparri il tutto e si lasci definire – così nella Scolastica e nella tradizione mistica – come ‘quodammodo omnia’.
In merito a quest’ultima affermazione, però, staremmo attenti a non essere troppo precipitoso, soprattutto in relazione al pensiero globale di Tommaso d’Aquino che in numerosissimi testi ritiene che sia tutto l’uomo – e non la sola anima – l’ente in cui si danno appuntamento le cose: «In homine inveniuntur quodammodo aggregata» (Tommaso d’Aquino, In III Sententiarum. Proemium)]. E, nello stesso senso, faremmo bene a ricordare l’intuizione di Aristotele che, cogliendo nel segno, insiste nel sostenere l’appartenenza dell’anima al corpo: «l’anima è qualche cosa del corpo» (Aristotele, De anima, II, 2, 414a,21). Ma ciò significa – e la cosa non è senza implicanze sul nostro tema – che il cadavere di un uomo non è propriamente un corpo. Perché sia corpo, la materia adagiata nella bara dovrebbe essere ‘animata’. In senso proprio e rigoroso, il cadavere, che noi continuiamo a chiamare ‘corpo’ per rispetto della persona del defunto, è solo e semplicemente materia.
È chiara, in ogni caso, l’urgenza del doppio compito che qui s’impone: da un lato, superare il pregiudizio platonico, che induce ad immaginare con più facilità una dimensione finale e perfetta congeniale solo all’anima, e, dall’altro, evitare, quanto più possibile, l’espressione di immortalità dell’anima.
- Provo a fare il punto
La passeggiata volge al termine. Seguendo e assecondando le suggestioni provate nel leggere i manifesti, forse mi sono allontanato troppo. È tempo di tornare a casa lucidamente consapevole che, nel fare il punto, avrei bisogno di un supplemento di rigorosità.
il soggetto del ‘definitivo’
4.1. L’andar per necrologi mi ha messo di fronte ad una situazione di fatto da cui affiora l’invito a prendere congedo da concezioni che ri(con)ducono l’identità dell’uomo alla sua sola anima o che, addirittura, identificano del tutto un soggetto personale con la sua anima.
Ora, tenuto conto che non si tratta di una questione meramente lessicale e che la ricerca di alternative effettivamente praticabili ci porterebbe nei labirinti delle odierne antropologie entro cui non posso avventurarmi, direi – per una ragione di immediata disponibilità – che quello di ‘persona’ resta, in mancanza d’altro, il termine più appropriato per connotare il soggetto ‘capace’ di assumere e reggere le istanze del ‘definitivo’, ma a patto che tale entità sia, in qualche modo, dotata di:
a) una condizione [di definitività] entro cui sia compresa e di cui prenda parte, analogamente a quell’orizzonte che, nell’ambito dell’esperienza terrena, è dato dalla spazio-temporalità del mondo;
b) una consapevolezza di sé o capacità di autoriflessione che consenta ad essa di essere ‘presso di sé’, e, nello stesso tempo, di ‘distinguersi’ da altri;
c) una trama di rapporti di cui essa costituisca il centro, dal momento che l’entro cui della condizione di definitività e la consapevolezza di sé non possono prescindere da un soggetto ‘com-preso’ nella tessitura di una qualche forma di relazionalità.
Ovviamente, questa entità personale capace di definitività, che avremmo da ‘rappresentarci’, va anch’essa colta in una chiara dinamica di attività/passività, vale a dire pensata come soggetto di [definitività] e come soggetto a[lla] definitività. Ma su questa ulteriore complicazione, che merita un discorso a parte, non posso qui dire altro.
4.2. La rappresentazione ipotetica di un tale soggetto personale non può prescindere dalla sua unicità, vale a dire dalla singolarità di vissuti non omologabili a quelli di altri. Si potrebbe pensare, nella fattispecie e in via del tutto ipotetica, ad una sorta di unicità segnata da una discontinuità da non ritagliare però pari pari sul modello di quella unicità nella discontinuità che siamo soliti registrare, dalla nascita alla morte, tra momenti successivi dell’esistenza temporale, quella cioè che – per intenderci – è l’oggetto della psicologia evolutiva (fanciullezza, adolescenza, giovinezza…).
Alludo qui ad una forma di unicità definitiva di un soggetto [reso (passivo) o divenuto (attivo)] capace di immortalità e che non posso ‘rappresentarmi’ senza un supplemento di ipotesi. Ed è questo il punto! L’immagine paolina della semina del corpo ‘corruttibile’ che, nella dimensione del definitivo, si realizza come incorruttibile potrebbe risultare molto illuminante in proposito. Una cosa però è certa e merita di essere posta in chiara evidenza: contrariamente a diffusi luoghi comuni, il tempo non è il solo ed esclusivo fattore di continuità: basta sfogliare, ad una certa età, un album di fotografie di vecchia data per constatare quanto sia faticoso il riconoscimento. A tal proposito, rimandei ad un’attenta lettura del gioco lockiano del principe e del calzolaio o alla necessità di uno ‘scarto’ implicato anche là dove si dà la permanenza del medesimo soggetto, come mi pare di poter leggere in Kant (Critica della ragion pura, 182A).
condizione ‘definitiva’
4.3. Ritorno o passaggio? L’interrogativo sposta la riflessione dal ‘soggetto del definitivo’ alla ‘condizione definitiva’. Ma anche a questo proposito è necessario scegliere tra [almeno] due opposti percorsi ipotetici, se non altro perché una condizione di definitività conseguita grazie ad un ‘ritorno’ è, senza dubbio, radicalmente altra da una condizione di definitività che, invece, si realizzerebbe come esito di un ‘passaggio’.
Nel primo caso, l’immortalità è un ritorno dalla distanza, una risoluzione della nostalgia, un ricongiungimento all’origine in grado di attuare la piena coincidenza dell’anima a se stessa e di restituirla alla propria perfezione originaria. È lo schema tanto naif quanto diffuso che riflette, a contrario, la celeberrima sentenza di Alcmeone di Crotone secondo cui gli uomini muoiono perché non sono capaci di congiungere l’inizio con la fine. Ma – ed è questa, a mio avviso, la questione decisiva – non si può non rilevare la fragilità estrema di questa concezione dell’immortalità: essa, infatti, nel tentativo di annettere l’eschaton all’arché, rende di fatto ‘inutile’ tutto ciò che è ‘accaduto’ ad interim. C’è, pertanto, da chiedersi: se quel che si è dispiegato nel ‘frattempo’ – tra l’inizio e la fine di un’esistenza – è irrilevante, che senso potrebbe mai avere [o potremmo attribuire] la ‘definitività’? Come ‘concludere’ [cioè rendere de-finitivo e de-finito] ciò che non è stato mai aperto o che, se pure lo fosse, non avrebbe, tutto sommato, nessuna effettiva consistenza?
Al contrario – e la cosa mi pare piuttosto evidente – ritengo che la morte è la possibilità più ‘propria’ (Heidegger) di un soggetto solo se viene ad essere esclusa ogni ‘altra’ possibilità e ogni possibilità di essere ‘altro’, cioè solo se chiude [rendere definitiva] ogni indeterminatezza nel momento stesso in cui accade. Per dirla in immagine, l’altro pilone dell’«ultimo vecchio ponte» sta, insomma, alla fine e non all’inizio, cade – per così dire – nel futuro e non nel passato. D’altra parte, solo uno stato di non ritorno può essere, senza contraddizione, un destino definitivo. Anzi, guardando le cose da un complementare punto di vista, direi che solo un accesso al definitivo rende legittima nonché sensata l’ipotesi di una libertà finalmente libera dalla necessità di dover scegliere.
Richiamando la fin troppo abusata metafora lévinassiana, la vicenda di un soggetto personale approdato al definitivo è il compimento di una storia «senza biglietto di ritorno». Detto altrimenti, il soggetto ‘destinato’ al definitivo ha il suo paradigma più proprio in Abramo più che in Ulisse: ex-siste non nella forma del ‘sapere dove tornare’, ma nell’ascoltare [obbedire = ob-audire] le indicazioni disseminate lungo il viaggio, nel seguire – per dirla ancora con Lèvinas – l’Infinito che nel finito «si produce come desiderio» sino al passaggio dell’ultimo guado, oltre il quale la finitudine si produce come «definitività».
Raccogliendo i cocci di questa attorcigliata digressione, direi allora che là dove non si affermasse un ‘passaggio’ e si concepissero solo ‘ritorni’, non solo non sarebbe possibile ipotizzare alcun definitivo, ma si incorrerebbe in conclusioni insostenibili già sul piano ipotetico. Ad esempio, non si potrebbe sostenere in alcun modo la tesi dell’immortalità concepita come esito di un ‘ritorno’ senza prima attribuire l’eternità all’anima o al soggetto. Ma ciò collide vistosamente con un evidente dato di fatto: il soggetto passato al definitivo ha alle spalle il limite remoto della nascita e quello prossimo della morte, non una qualche eternità momentaneamente sospesa: esso è nato nel tempo e perciò resta – per usare il lessico della vecchia teologia – un’anima creata.
Non meno disastrosa – soprattutto sul piano del senso – è anche un’altra conclusione: pensare l’immortalità come ‘ritorno’ comporta la dismissione totale dei vissuti, delle esperienze, dei momenti che hanno plasmato l’identità di un soggetto personale [e, in primis, la estromissione della ‘corporeità’]. Ma ciò rende di fatto accidentale e del tutto ‘esteriore’ la ‘storia’ o, comunque, fa tabula rasa di tutto ciò che, secondo contingenza, concorre a definire l’unicità di esso.
4.4. La segnalazione di queste due macroscopiche contraddizioni potrebbe concludere il mio intervento. Tuttavia, oso aggiungere, a mo’ di stringatissimo corollario, un’ultima osservazione circa la serietà di non trascurabili risvolti etici e teologici connessi all’ipotesi del ‘passaggio’ al definitivo più che a quella del ‘ritorno’. Lo faccio dando la parola alla fede.
«Credo la risurrezione della carne»; «Credo […] «la vita del mondo che verrà»: confessiamo noi cristiani, spesso senza renderci conto dell’audacia di questi articoli di fede che non vogliono accarezzare un desiderio né protestare elegantemente contro l’insopportabilità di ‘questa’ vita, ma attestare quella condizione di definitività che non è un privilegio ‘riservato’ agli uomini, ma un dono allargato a tutta la realtà (mondo e storia) in attesa del passaggio [Pasqua] alla «nuova creazione».
Anche per la fede, dunque, l’immortalità non è questione di anime tornate in possesso di una loro presunta originaria eternità, ma di soggetti segnati ‘per sempre’ dalle tracce indelebili della loro storia che ‘passano’ grazie ad un Altro che li ha redenti. Ebbene, questa definitività che, in qualche modo, riceve senso dalla Risurrezione dice qualcosa di straordinario nella misura in cui offre ad ogni singolo soggetto personale la possibilità di riconoscersi in maniera ‘definitiva’ e ‘irreversibile’ non nell’indistinzione di un’energia cosmica, bensì nel compimento della sua storia più propria e per il tramite di vissuti che, in questo passaggio, diventano propri per sempre. Passaggio [pasquale – redentivo] che è l’accesso al mio, al tuo, al nostro senso. Sì, perché il senso è sempre senso che (av)viene dalla fine. Senso che, sebbene ad interim sia continuamente anticipato, può essere validato e misurato nel suo giusto peso solo dalla fine. È la fine, infatti, che de-finisce il senso ‘totale’ della storia di un soggetto che la grazia ha messo in grado di realizzare la ‘pretesa’ più legittima e profonda della sua finitezza: poter vivere per sempre. Essere stato una sola volta e, sebbene sia stato una sola volta, il suo essere stato non è più revocabile: così ricordo dica Rilke da qualche parte. Una sola volta, cioè l’unica volta, se consideriamo anche la possibilità di un tempo che non si svolge orizzontalmente, ma che ‘viene’ come in picchiata, verticalmente, un tempo che ac-cade definitivamente persino sulle vittorie che noi uomini – ironia della sorte e paradosso dei paradossi – cerchiamo di eternare sulle lapidi!
Non quindi una sopravvivenza qualsiasi, ma ‘vita’, ‘beatitudine’, ‘comunione’ di storie personali riscattate dal dono irrevocabile di Colui che, avendo esperito il mondo e la morte, «con i segni della passione vive immortale» (Prefatio III di Pasqua).
TEOLOGIA Aristotele Domenico Scaramuzzi Greshake Kant Lohfink Nuovo Testamento Platone Ratzinger settembre 2016
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