“IL FÜHRER CREA IL DIRITTO”. CARL SCHMITT E LA NOTTE DEI LUNGHI COLTELLI
TOMMASO GAZZOLO

1. Cosa vorrebbe dire creare diritto? Ed in che senso la “creazione” del diritto si differenzierebbe da ciò che sarebbe proprio del porre il diritto, dalla sua “posizione”? La domanda meriterebbe di essere interrogata secondo più strategie. Ciò che, nelle pagine che seguono, ci si propone, è di mostrare come essa sia in gioco anche nel pensiero di Carl Schmitt e consenta di avvicinarsi ad uno degli aspetti più controversi di esso, quello del suo impegno politico a favore del nazionalsocialismo. È in questo engagement, in particolare, che Schmitt tenta di separare la “produzione” del diritto (la quale, pur nell’economia metaforica del rimando alla creazione ex nihilo, resta dell’ordine della ποίησις) dalla sua “creazione”. A pochi giorni dalla “Notte dei lunghi coltelli” – nella quale, tra il 29 ed il 30 giugno 1934, le SS, per ordine di Hitler, assassinarono Röhm e buona parte dei vertici delle SA, nonché altri diversi esponenti politici come von Schleicher, uccidendo tra le 70 e le 200 persone – Schmitt si impegnerà nella “giustificazione” dell’eccidio. Una giustificazione che, tuttavia, non consisterà in un tentativo di “legalizzazione” a posteriori di quanto accaduto, quanto nell’interpretazione dell’assassinio politico come atto di “creazione” del diritto.
2. Come giustificare, dunque, un’”azione” come quella del 30 giugno 1934? E cosa vorrebbe dire “giustificare” – rendere-giusto, iustum facere, legittimare, darne ragione, o anche assolvere, discolpare? Dobbiamo ricominciare a passare attraverso queste domande se vogliamo, finalmente, capire come leggere – secondo quali protocolli di lettura – quello che è stato considerato come il principale intervento di Schmitt a sostegno del nazionalsocialismo, “Il Führer protegge il diritto” (Der Führer schützt das Recht. Zur Reichstagsrede Adolf Hitlers vom 13. Juli 1934). Lo protegge, aggiungerà Schmitt, in quanto lo “crea”.
Ernst Jünger ricorderà: “la celebre sentenza “Il Führer crea il diritto” non è una proposizione innocua: se uno la esprime, deve sapere a quali rischi si espone”. Aveva ragione: la sentenza impegna, condanna, ed anche per chi non intenda svolgere una requisitoria, essa ha dell’imperdonabile, dell’irreparabile. Ma resta, in ogni caso, la necessità di saperla leggere, di saperla interrogare, non in vista di un qualche tentativo “revisionista”, ma, diversamente, per poter porre la questione nei suoi specifici termini concettuali.
Certamente, nel testo schmittiano, ne va di una giustificazione, anzitutto rispetto alla liquidazione delle SA, ma, propriamente, rispetto alla stessa “giustificazione” che Hitler ne fornì di fronte al Reichstag con il discorso del 13 Luglio 1934. Ne va, dunque, del bisogno di fornire una giustificazione a ciò che è già una giustificazione, che si presenta come tale, con la conseguenza che il testo schmittiano non si legge se non in una logica del “raddoppiamento”, del supplemento, della supplenza e dunque anche di differimento di quella giustificazione che sarebbe immediatamente e direttamente fornita dal Führer in persona, dal suo discorso. Accade, dunque, come se, per Schmitt – in ultima istanza e contrariamente a quanto egli stesso sembrerebbe affermare nel testo – non ci fosse mai stata una “giustificazione” di ciò che è stato compiuto, come se essa dovesse sempre essere “supplita” da un intervento che, tuttavia, non si costituisce che presupponendola come già data (e questa supplenza, questo differimento, dicono certamente già molto dell’engagement di Schmitt, dei suoi rapporti con la politica nazionalsocialista, della considerazione che egli ha potuto avere dei suoi apparati dirigenti e di governo).
3. Giustificare, per Schmitt, sarà sempre qualcosa di irriducibile rispetto ad ogni tentativo di legalizzare, a posteriori, post factum, ciò che è stato. Non si capirà nulla finché si continuerà a pensare che l’azione vada “giustificata” nel senso che essa richieda di essere legalizzata, resa-legale, dopo essere accaduta. Certo si potrà sempre “rendere legale” quanto avvenuto – come del resto farà la legge del 3 luglio 1934 –, come se si trattasse, dunque, di riparare, sanare, assolvere attraverso una “finzione di legalità” una serie di atti di per sé stessi ed astrattamente criminali, illegali, illegittimi. Ma ciò che il discorso schmittiano tenta di realizzare è un movimento contrario, lungo una strategia diversa rispetto a quella della “giustificazione” come legalizzazione. Per questo l’azione di Hitler non si inscrive neppure nella logica dell’eccezione, dello stato di necessità, della sospensione del diritto al fine di conservarlo – ma dovremo tornare su questo punto. Per il momento, basti questo: “giustificare” non significa rendere-legale, ma risponde, diversamente, a ciò che attiene alla “giurisdizione” (Gerichtsbarkeit). Quale “giustificazione” si possa dare – quale giustificazione, aggiungeremo, provenga dallo stesso Führer, dai suoi atti legislativi, dal suo potere normativo –, essa resterà sempre insufficiente, non “giustificherà” mai propriamente nulla, finché essa riuscirà soltanto a legalizzare l’azione, ad assicurarne una certa legalità – ossia a far sì, après-coup, che l’azione si possa presentare come l’esecuzione di una legge, come ciò che è stato fatto conformemente ad una certa “misura”, ad un “criterio” prestabilito, ad una legge che, pur non intervenendo che successivamente, l’avrà da sempre preceduta.
4. Il principio che Schmitt introduce, e che organizza il suo discorso, è che il Führer custodisce, protegge (schütz) il diritto nel momento in cui (wenn) crea (schafft) immediatamente diritto. Pure, si precisa, non si tratta affatto, qui, di ri-attivare la logica dell’eccezione, dell’estremus necessitatis casus, della sospensione del diritto al fine della sua stessa conservazione. Ciò di cui si tratta è, invece, una creazione che protegge, che custodisce il “diritto del popolo”: non creazione del nuovo, dunque, introduzione di un nuovo diritto (ancora: non un legiferare), ma di ciò che è già. Il diritto del popolo (Volk) non è mai un diritto posto, “prodotto”, “positivo”, né un diritto “naturale” – è, piuttosto, un diritto creato, protetto in quanto creato, “giustiziato” con l’atto stesso che lo crea.
Qui dovremmo, allora, insistere sulla differenza rispetto alla logica teologico-politica della creazione come decisione sovrana, alla sua economia metaforica regolata dal riferimento, dall’analogia con la creatio ex nihilo cristiana. Sovrano è colui che crea qualcosa dal nulla (aus dem Nichts). Creare è, qui, e in continuità con la tradizione del cristianesimo storico, de nihilo aliquid facere: il diritto è creato nella misura in cui è posto a partire dal nulla. Nel testo del 1934, tuttavia, la formula del Führer come “giudice supremo” non risponde al senso di un’operazione diretta ad attribuire poteri decisionali di ultima istanza, né a fare di esso il detentore del potere “sovrano”, di colui che crea, con la sua decisione, la “concreta normalità della situazione” – secondo un significato di “giudice supremo” (oberster Richter) come Summus Imperans, che Schmitt aveva utilizzato nel 1930, richiamandosi a Locke e Kant.
Creazione, precisa ora Schmitt, non è un atto di volontà, ma di giurisdizione. Non si tratta però nemmeno di un giudizio, di un atto che resterebbe quello di una decisione (Ur-teil) sul diritto ed a partire dal diritto. Quella del Führer è un’ “azione giudiziaria” (richterliche Tat – ma diremmo: atto, fatto, più che “azione”), atto che agisce e che non giudica, pur essendo proprio dell’essere giudice. Se c’è creazione, essa non ha nulla a che vedere con ciò che chiameremmo la “creazione” del diritto propria della giurisprudenza. Nessun giudizio, dunque, ma un “atto di giurisdizione” (Gerischtsbarkeit). Nessun giudizio, perché l’atto ha agito, perché la sua giustizia è agita, non è detta, non ha nulla a che vedere con ciò che, nel testo, Schmitt chiama Justiz, con l’amministrazione della giustizia, con la giustizia in quanto “attività volta all’imputazione”, all’attribuzione della conseguenza giuridica alla sua condizione.
La funzione di giudice del Führer è tale in quanto non pone nuovo diritto, in quanto non crea, propriamente, nulla, perlomeno nel senso che non passa per la creazione di un nuovo diritto, per la posizione di nuove norme. È creazione, certamente, ma come “realizzazione” della giustizia. Non si tratta, infatti, semplicemente di “eseguire” ciò che la giustizia, diremmo, prevede: l’azione del Führer “non sottostà alla giustizia” (Justiz) non è cioè una mera “applicazione” di una misura, di un criterio – che definiremmo di “giustizia” – che la precede, che sta prima di essa e così la regola, la disciplina, la indirizza (per questo lo Stato nazionalsocialista non va confuso con ciò che altrove Schmitt chiama “Stato di giustizia” o “di giurisdizione”, Justizstaat).
5. Come va intesa, allora, questa “creazione” di diritto che non produce nuovo diritto? Il diritto del popolo, del Volk, non è un diritto positum, non è un diritto positivo. Ma non è neppure un diritto già presente di per sé (il diritto della “comunità” popolare). Per questo, se nessuna volontà, nessuna decisione può “crearlo” – poiché qui significherebbe nient’altro che porlo –, esso va comunque “creato”, perché non è qualcosa che si potrebbe già “trovare” presso il popolo. Non diritto posto (gesetz), dunque, né diritto dato, esistente. Non diritto che possa essere prodotto – il che, lo si ripete, vorrebbe dire reinscriverlo nella positività, nella forma-legge, nella “posizione di posizioni” (Setzung von Setzungen) – né diritto che possa essere semplicemente “scoperto”, “dichiarato”, detto. Il diritto del popolo è un diritto che, diversamente, va creato, attraverso la sua stessa “protezione”, creato nel “fare-giustizia” di esso. “Fare giustizia”: proteggere, difendere, ma anche eliminare ciò che ostacola, impedisce, intralcia, infastidisce, e dunque anche vendicare, uccidere, giustiziare. C’è tutto questo nel testo schmittiano – c’è questa violenza, ineliminabile: fare giustizia non è separabile dall’immediata violenza “giusta” e vendicativa (richterlich rächender) con cui si realizza il divenire-effettivo del diritto. Questa violenza è nello stesso tempo creatrice e conservatrice: crea quel diritto che intende conservare (e che dunque è prima di essa), conserva il diritto che crea (e che dunque sarà solo dopo di essa). Per questo il diritto del popolo non “è” mai, non è mai come un diritto dato (e quindi, diremmo, applicabile, amministrabile dalla Justiz, dagli apparati). È sempre già stato, in quanto creato attraverso l’azione che lo vendica. È sempre già-stato “presente” nell’atto con cui il Führer lo protegge. Per questo il popolo, il Volk, sta sempre per Schmitt dal “lato apolitico”, dal lato cioè di ciò che la politica, l’azione politica crea per proteggere (da qui le accuse, da parte di autori come Koellreutter, a Schmitt di sostenere una posizione a-völkische).
6. Ogni diritto – scriverà Schmitt nel 1933 – è sempre “il diritto di un determinato popolo”. Da questo punto di vista, il diritto del popolo tedesco è quel diritto che esiste solo in quanto vendicato. Questo è il tema centrale dell’adesione di Schmitt al nazismo: vendicare il diritto del Volk, e solo così “crearlo” e “proteggerlo”. Ciò sembra ancora leggersi in un’annotazione del Glossarium del 1949, in cui, a proposito di Hitler, in una ripresa dei versi di Schiller, viene detto: “Avrebbe dovuto essere il figlio della loro vendetta per la sconfitta nella Prima guerra mondiale. Questo Kaspar Hauser e soldat inconnu fu adottato come Falso Demetrio da madre Germania, che fra il 1933 e il 1941 continuava a ripetersi: Anche se non fosse il figlio del mio grembo, egli sarà il figlio della mia vendetta” (1.5.49).
Sono fin troppo evidenti le implicazioni politiche, l’impegno a favore del nazionalsocialismo, la fedeltà al Führer, nonché il recupero delle retoriche e delle ideologie proprie della rivoluzione conservatrice (denuncia dell’“ingiustizia” di Versailles, “pugnalata alla schiena”, etc.) (rimandiamo, sul punto, a F. Ruschi, Carl Schmitt e il nazismo: ascesa e caduta del Kronjurist, in “Jura Gentium”, IX, 2012, pp. 119-141; S. Pietropaoli, Schmitt, Roma, Carocci, 2012, pp. 106-107). Al contempo, però, esse restano irriducibili alle retoriche, ai protocolli ideologici tipici del discorso nazista. “Giustificare” l’epurazione delle SA, per Schmitt, non significa in alcun modo “assolverla” mediante il ricorso alle “finzioni di una legalità” – come ha fatto, invece, la legge del 3 luglio 1934 –. Questo è ciò che va evitato: “chiunque abbia la possibilità di legalizzare (legalisieren) il suo potere ponendolo come diritto (als Recht setzt), naturalmente farà uso di tale opportunità […]. Ciò si inserisce nel fenomeno complessivo del “positivismo” giuridico, nell’epoca della legalità” (Glossarium, 31.1.48).
L’engagement schmittiano non pretende di assolvere l’azione di Hitler, non muove da una strategia di “giustificazione”, per come tradizionalmente intesa. Nella sua stessa fedeltà (ed infedeltà, se essa passa sempre per una “supplenza” intellettuale), il testo schmittiano tenta ancora una volta un movimento che costituisce una costante del suo pensiero: porre fine all’identità tra diritto e legge. E qui – come non avverrà altrove – lo scarto, la differenza, passa proprio attraverso il concetto di creazione. Mentre la legge è “creata” in quanto posta, prodotta – secondo una creazione ex nihilo –, il diritto è creato in quanto protetto – secondo una creazione del nulla stesso, una creazione cioè che fa sì che, vendicandolo, “proteggendolo”, questo diritto non venga mai ad essere, ad esistere come dato, come qualcosa che è presente nell’ordinamento. Ciò che Schmitt “giustifica” è l’assassinio politico assunto in quanto tale – assunto, cioè, come qualcosa che non sarebbe, propriamente, mai “legalizzabile”, il cui autore non potrebbe, dunque, mai andare assolto. Questa giustificazione non sarà, pertanto, dell’ordine della ri-vendicazione del diritto, ma, diversamente, dell’ordine della vendetta, intesa da Schmitt come l’atto che “protegge” ciò che crea, che cioè ripara un diritto che essa stessa crea vendicandolo. Tutto ciò che mantiene la separazione tra diritto e legge, dunque, tutto ciò che sarà da Schmitt pensato come “ordinamento concreto”, implica sempre questo spostamento rispetto al concetto “normativistico” (ma anche “decisionistico”) di creazione del diritto. La violenza della “creazione” non è per Schmitt – secondo la distinzione di Benjamin – né violenza che pone (violenza creatrice come die rechtsetzende Gewalt, violenza che pone-il-diritto) né che semplicemente conserva. Piuttosto, è la violenza che, vendicando, crea ciò che conserva, ma senza mai “porlo”, senza mai risolversi nella posizione di un nuovo diritto.
7. Quanto vi è di ingiustificabile nell’impegno politico di Schmitt, non è qui in discussione. Sarebbe però interessante capire se – al di là del continuo richiamo ideologico al nome, al titolo, alla “missione” del Führer – questo testo non possa ancora dire qualcosa di diverso (potremmo mai, forse, leggerlo come se il nome di Hitler non vi comparisse? Come se si potesse cancellare tutto ciò che ne va del suo impegno politico? Cosa accadrebbe? Cosa ne sarebbe della sua leggibilità, come si leggerebbe?). Forse quel tentativo di separare, di differenziare la legge (lex, Gesetz) dal diritto (nomos) che costituirà uno dei temi costanti del pensiero schmittiano, passa anche da qui, dalla serie di opposizioni che organizzano questo testo: giustizia (Justiz) / giustiziabilità (Gerischtsbarkeit), produzione / creazione. Dall’idea che il diritto, inteso come nomos, sia possibile solo in quanto creazione-protezione: un diritto “vendicato”, “giustiziato”, che si protegge solo creandolo, e si crea solo proteggendolo. Saper rileggere Schmitt, essergli fedele nell’infedeltà, significa forse, allora, imparare ad utilizzare i suoi concetti meglio e diversamente da come egli fece.
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