CHE PAURA?
ALBERTO TUROLLA
La paura viene definita un’emozione. Su questo c’è accordo anche da parte dei neuroscienziati che indicano l’amigdala come sede di diverse emozioni, in particolare della paura, anche se studi più recenti inclinano a reperire in questa parte del cervello solamente il rilascio di paure apprese. E-mozione fa riferimento al muoversi, al movimento, lo stato di eventuale quiete viene mutato. Questo comporta che vi sia qualcosa che genera uno stato di moto, questa trasformazione, insita nell’emozione che è sempre più presente nella nostra quotidianità.
Questa relazione ci appare in tutta la sua semplicità; facciamo un esempio banale: un rumore improvviso ed inaspettato ci fa sussultare o tremare, diciamo: “che spavento!”. E’ un semplice esempio della comparsa dell’emozione “paura”. Potremo continuare con decine e decine di esempi, dai più semplici alle situazioni più complesse. Incontreremmo sempre una costante: la paura compare in una situazione che potremmo chiamare “esterna”. Fosse anche, come succede spesso nei bambini, la famosa e ricorrente paura del buio. E’ comunque qualcosa di esterno, di “estraneo a me” che spaventa, che fa paura, dove va sottolineato il fa.
Bisogna subito aggiungere che la paura ha anche una funzione positiva, non è solo un minus, come saremmo indotti a pensare. Essa è una delle emozioni che ci orientano nel mondo, ha una sua funzione, ci mette in uno stato di allarme che può essere utile, ad esempio, per riconoscere una situazione che ci nuocerebbe, una “ situazione di pericolo”. Molto spesso, però, non sappiamo bene che cosa sia un pericolo, ne abbiamo un’idea vaga e certa al tempo stesso, perché è molto soggettivo definire che cosa è pericoloso e cosa non lo è. Varie sono le ricerche volte ad indagare situazioni e contesti in cui si manifesta a livello sociale cercando di fissarne l’oggetto e le cause. Il contributo della psicoanalisi è imprescindibile perché illumina la distinzione fondamentale tra angoscia e paura, tra emozione ed affetto e mira, al di là della catalogazione ed enumerazione, ad approfondire le svariate manifestazioni consentendone così un trattamento sia a livello individuale che sociale.
Potremmo definire la paura come una patologia della quotidianità nei due sensi: è quotidianamente evocata, ed enuncia la patologia, il disagio della attuale quotidianità.
E’ da un po’ di tempo che si vive in uno stato di ricorrenti paure ed è da qualche tempo che questa emozione ha fatto capolino nelle domande di analisi e di aiuto in genere: “paura di non farcela” “paura di crescere” “ paura della solitudine” “paura di guidare” “paura di avere paura”, e così via. E’ dunque una “sindrome cinese” la paura, e come trattarla? E’ un sintomo analizzabile? Che se ne può dire oltre a registrane la diffusione?
Mi appoggerò a Freud per introdurre delle distinzioni. ”I termini spavento, paura e angoscia sono usati a torto come sinonimi; in realtà corrispondono a tre diversi atteggiamenti di fronte al pericolo. L’ angoscia indica una certa situazione che può essere definita di attesa del pericolo e di preparazione allo stesso, che può anche essere sconosciuto. La paura richiede un determinato oggetto di cui si ha timore; lo spavento designa invece lo stato di chi si trova di fronte ad un pericolo senza esservi preparato, e sottolinea l’elemento della sorpresa”.
Non sempre Freud distinguerà così perentoriamente paura e angoscia, mantenendo però che la paura si prova di fronte ad un oggetto, mentre l’angoscia è un segnale di pericolo.
La paura è un’emozione, mentre l’angoscia è un affetto, un affetto che non inganna. Cosa vuol dire? Significa che riguarda un reale, una verità del soggetto, mentre la paura inganna, spesso siamo ingannati dalla paura che è in parte indotta. Si pensi alla miriade di paure insegnate ai bambini che altrimenti soccomberebbero, dato che sono sprovvisti di un senso del pericolo, solo fino ad un certo punto sono utili alla sopravvivenza.
Anche se può sembrare paradossale, più in generale si può dire che la paura non è un sintomo, è una cura di un insopportabile che l’angoscia invece evoca anche a livello sociale. Su questo punto incontriamo Hobbes, ridivenuto attuale, con il suo Leviatano, che induce il contratto sociale, basandosi proprio sulla paura. Freud ha costruito il mito Totem e tabù spostando al limite della storia “il contratto sociale”: ci si libera dalla paura rinunciando ad uccidere il padre. Ma non ci si libera dall’angoscia. L’angoscia infatti non è un sintomo proprio perché non è un inganno per il soggetto e, in termini freudiani non lo è in quanto non è uno spostamento sul quale è basato ogni sintomo. Mentre quello che comunemente si definisce fobia lo è. La fobia è una costruzione fatta per spostamento a partire dall’angoscia, e viene a mascherare l’angoscia, è una difesa dall’angoscia. Freud ci insegna che il sintomo fobico è una costruzione a partire dall’angoscia in quanto:
1) la trasforma in paura di un oggetto.
2) la circoscrive a quell’oggetto o ad una determinata situazione, impedendo così che dilaghi, che invada tutto il nostro essere.
Con i dovuti distinguo si può generalizzare: la paura è un trattamento dell’angoscia, sia individuale che collettiva. Non solo, è anche un trattamento del desiderio – che in Hobbes rimane in ombra – dato che l’angoscia è anche il palesarsi dell’inquietante desiderio dell’Altro.
Hobbes è molto attuale per il fatto che la sua è una visione “liberista” e individualista dell’uomo quale prevale oggigiorno, ancor di più di un tempo, dato che ora l’idea di Pater, di autorità, che va dall’autoritario al ‘autore-protettore’, è decaduta. Dunque si ha paura giacché ci si sente abbandonati, si constata che lo si è rispetto ad un tempo in cui funzionava un legame sociale fondato sul padre, si potrebbe dire, in termini più psicoanalitici, sull’Edipo. Ora la legge, che un tempo era o giusnaturalista o positiva, sempre comunque emanata da qualcuno, sia pur facente le veci, o rappresentante, ora è legge di mercato.
Non a caso Lacan indica Marx come l’inventore del sintomo, quello stesso trattato dalla psicoanalisi, in quanto il sintomo individuale è in derivazione da un “sintomo” sociale, i due sono strettamente correlati, come anche Freud sostiene parlando di “disagio” della e nella civiltà.
Ora la nostra attenzione non è più catturata dallo spread come qualche anno fa, ma comunque si continua a riferirsi al differenziale tra BTP e Bund. Permane o forse si è rafforzatala paura di default. Proprio questo termine che ha lo stesso significato anche in francese – stessa pronuncia – stesso significato: mancanza – defaut potrebbe illuminarci sulla paura e suoi rapporti con l’angoscia.
Solitamente l’angoscia è definita come “paura senza oggetto”, ma si dice anche che si manifesta quando si è di fronte ad un vuoto, una mancanza di…Dunque l’angoscia è mancanza…di riferimento, di appigli, quel senso di vertigini che coglie quando si è sull’orlo di un precipizio e si ha paura di precipitare. La psicoanalisi ci insegna che l’angoscia non è “senza oggetto”, che anzi è il presentificarsi di un oggetto particolare, di un oggetto non oggettivabile e in un certo senso il prototipo di tutti gli oggetti che oggi ci riempiono la vita, i cosiddetti gadgets. Vi è un fondo di verità in questa paura di default o defaut in quanto lo possiamo tradurre nel senza appoggio, nella mancanza nell’Altro. Il fatto che oggi è sempre più palese è che l’Altro, con tutto ciò che lo rappresenta, è mancante, mancante fino al punto di non esistere, mentre si fa sempre più minaccioso l’altro, il simile che sia di altra cultura e religione oppure no. Ed è per questo che la paura è aumentata rispetto ad una decina di anni fa, ad esempio. E’ vero, peraltro che la tassonomia della paura ci viene predicata e ricordata in ogni momento e riguardo ad ogni evento. E’ sicuramente un fatto, fatto di comunicazione.
Oggi assistiamo ad un rinnovato senso di precarietà, di insicurezza, di paura, appunto, che pensavamo si fosse molto ridotto, fino quasi a sparire al tempo del boom, almeno da noi e più in generale con l’avvento proprio della democrazia, con la fine, nel nostro mondo occidentale, ma non solo, dei totalitarismi.
Pensavamo, ci facevano pensare, con il famoso diritto alla felicità, che saremmo stati tutti felici, poi si è aggiunta anche la bellezza e la giovinezza. Giovani, belli e felici. Così ci si rappresentava fino a qualche tempo fa, forse fino alla fine del secolo scorso. Poi hanno cominciato ad accadere, ad evidenziarsi, una serie di problemi riguardo a questa visione che ci hanno instillato dei dubbi, che in un primo momento sono stati combattuti, ma poi si sono consolidati ed è iniziata così la nuova epoca delle paure.
Ma di che paura stiamo parlando?
C’è paura e paura, ve n’è un’infinità di paure, alcune inevitabili, altre indotte, altre presenti in certe situazioni ed in certi luoghi, altre addirittura procurate.
Non si può, come spesso invece si fa, parlare della “paura” generalizzando, così come viene presentata per esempio dai mass media, che hanno proprio questa capacità: la generalizzazione, anche quando apparentemente si dedicano a delle analisi più particolari, a dei distinguo.
Dopo ogni talk show nel quale la si evoca, che tratti di argomenti politici, economici o di vita quotidiana si ha sempre l’impressione che vi sia una paura e che la paura sia un monolito che si ritrova in varie situazioni. Non è così, c’è paura e paura, in alcuni casi è salutare in altri è controproducente provare paura.
Cosa possiamo dire della paura del terremoto se si sta verificando o se ne è fatta l’esperienza? Sì, ci sarà qualche psicologo che si periterà di tentare di alleviare queste paure secondo un’ottica di gradi, di misurazione della paura: “normale, eccessiva, patologica, panico, ecc” e cercherà di farla rientrare in quella “giusta”, quella che serve, quella che potremmo definire adatta alla vita sociale, integrata. Ma poco o niente dirà della paura di ognuno, perché si manifesta così e in quel momento, non solo a che cosa serve , ma che posto occupa in quell’essere, nella sua storia di uomo o donna.
C’è un’espressione che possiamo valorizzare: è’ illuminante ed è insita nella domanda “di cosa ci spaventiamo?”, o “prendiamo paura”. Da ciò consegue che la paura è un’emozione a disposizione, che prendiamo in certe occasioni, e poi che siamo noi stessi a spaventarci. A spaventarci siamo noi, sia pur tramite quella determinata situazione.
Nel corso della nostra vita, della nostra educazione siamo portati ad avere alcune paure ed altre eventualmente no. Ad esempio avere paura del fuoco è considerato normale ed utile, avere paura dell’acqua per cui non riuscire a nuotare non è utile, ed è anche un po’ disdicevole, non a caso si mandano i bambini ai corsi di nuoto durante tutto l’anno, aggiungendoli semmai a calcio, danza, pallavolo e così via. Avere paura di volare, di prendere l’aereo non conviene, soprattutto alle compagnie aeree, che per questo organizzano corsi ad hoc, per far superare questa paura. Sono esempi molto semplici, banali, ma che già indicano un modo di trattare, di affrontare la paura, ovvero le paure.
È pur vero che c’è un minimo comune denominatore nelle paure, e tale minimo denominatore è illuminato da una patologia oggi molto presente: gli attacchi di panico. Si prova paura di aver paura e per scongiurare tale paura o ci si chiude in casa o si evitano determinate situazioni che si pensa siano foriere di paura, il tutto magari coadiuvati da qualche farmaco studiato ad hoc.
Attacchi di panico, ansia diffusa, fanno aumentare notevolmente gli introiti delle case farmaceutiche. Sembra che la maggior parte dei farmaci prodotti e venduti in tutto il mondo siano proprio gli ansiolitici, fra i quali possiamo far rientrare anche gli antipanico. Ma vale la pena di soffermarsi sul termine farmaco, che in greco, phàrmakon, significa “veleno”. Ma phàrmakon, rimanda ad altro termine che fa parte della catena linguistica: pharmakòs . Indicava il capro espiatorio, chi veniva ad un certo momento, con un rituale preciso, espulso dalla città, dalla comunità per purificarla dal male. Così oggi, nella nostra società il farmaco spesso vuole espellere quella paura che è anche parte di noi. Al contrario la cura psicoanalitica, se ne prende cura, fa sì che chi la prova se ne occupi senza ostracizzare la paura. Oggi però sembra quasi una prescrizione avere paura, in quanto accanto alle solite immagini bellezza, giovinezza si affiancano immagini di disastri in tutto il mondo e notizie di violenze di ogni genere di crack finanziari ed ecologici, di suicidi di disoccupati, imprenditori, adolescenti. Ma tutto questo nella comunicazione ha anche il valore di gestione della paura.
Ancora una volta Hobbes è molto attuale, in quanto si gestisce la paura anche usandola per fini politico-sociali, cioè di politica sociale.
E ciò sembra più agevole e conveniente piuttosto che metterla in discussione. La si sostiene o al contrario la si nega, come qualche politico nostrano ha fatto, all’insegna del “basta con la paura” con il medesimo risultato di diffusione e di riduzione ad una, unica e insuperabile, rinforzati nelle proprie paure che portano ad un isolamento ancora maggiore: nuovi don Abbondio, impossibilitati a darci coraggio, a fronte dell’Innominabile.
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