LA PAURA E L’ORIGINE DELLA RELIGIONE

ALDO MAGRIS

paura_dell'ignoto

Religion is based primarily upon fear, proclama solennemente in Why I am not a Chri­stian Bertrand Russell, un uomo che quando metteva il naso fuori dalla matematica sapeva dire solo delle banalità. È da più di duemila anni, infatti, che ricorre questo motivo. Ma la superficialità non sta tanto in un’asserzione per­sonale che scopre l’acqua calda quanto piuttosto nel fatto di trascurare i differenti contesti nei quali il tema della paura nella religione è comparso e le assai diverse valutazioni e funzioni che gli sono state assegnate.

Molti ricorderanno che la filosofia epicurea fu la prima ad occuparsi teoricamente del problema. Epi­curo presumeva di portare all’umanità un buon messaggio su come vivere felici e senza affanni, cosa alla quale si oppone la paura dei mali falsamente ritenuti tali: la paura della malattia e della morte, la paura che la felicità sia irrealizzabile, e soprattutto la paura degli Dei che scrutano gli atti dell’uomo per punirlo. Contro questo egli metteva a disposizione il tetraphármakon – diremmo noi il “vaccino quadrivalente” – cioè la convinzione
(1) che la malattia o è di breve durata, quindi sopportabile, o porta l’individuo alla morte e lo rende così incapace di soffrire;
(2) che la morte comporta l’annullamento della soggettività e quindi anche l’incapacità di perce­pirla come male;
(3) che la felicità, il benessere, è facilmente ottenibile purché non si abbiano troppe pretese e si evitino i rischi; infine
(4) che gli Dei sono da venerare come modelli perfetti di vita felice ma da loro non abbiamo nulla da temere giacché non si occupano delle cose di questo mondo né in particolare di noi.

Epicuro stesso non sembra se la prendesse con la religione in sé (la paura degli Dei è per lui solo una distorsione) a differenza invece di Lucrezio, secondo il quale la religione popolare è un perico­loso, assurdo sentimento di soggezione nei confronti di presunte potenze oscure che inducono l’uomo impau­rito a commettere gli atti più infami: e qui citava il famoso episodio di Agamennone che sacrifica la figlia Ifigenia. In realtà l’esempio non è del tutto calzante. Agamennone, da generalissimo della spedizione contro Troia, compie il sacrificio non proprio perché abbia “paura” della divinità (nessuna minaccia gravava su di lui personalmente) ma perché intendeva propiziarsela onde ottenere venti favorevoli alla partenza della flotta. Un gesto che si potrebbe chiamare di “dovere civico” o di “sensibilità istituzionale”. Del resto anche Temistocle fece un sacrificio umano prima della battaglia di Salamina, atto religioso allora ormai rarissimo ma anche qui allo scopo di spingere le divinità a sostenere la causa dei greci, non perché ne avesse paura.

In generale il greco di epoca arcaica ha tanto poco “paura” degli Dei che ci sono guerrieri dell’Iliade pronti ad affrontare in duello una divinità e farla andarsene malconcia. Gli Dei d’altronde non sono di per sé maligni, però sono ambigui, imprevedibili. “Il divino è inquietante e fa paura”, afferma Erodoto, ma questo non dipende dai contenuti della religione istituzionalmente praticata: è solo una conclusione tratta dalla co­mune esperienza che l’uomo non è tutto e che si trova sempre esposto a qualcosa di insondabile (chiamato “il divino”) capace di far fallire i suoi progetti e di condurlo alla rovina. Un Dio può essere favorevole ad un uomo oppure irretirlo nell’inganno, in entrambi i casi senza tener conto dei suoi meriti o delle sue colpe.

A partire dal V secolo a.C. si diffonde in Grecia una mentalità razionalistica che per tanti aspetti pre­figura quello che in età moderna sarà l’illuminismo. Al centro del discorso è qui l’uomo, e in particolare l’intelligenza umana quale “misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono” (Protagora). Ciò vale anche per la religione, la quale merita di esserci nella misura in cui corrisponde ai canoni dell’intelligenza e quindi rappresenta gli esseri divini connotati in termini razio­nali e morali, mentre non può esistere tutto quello che, nella religione, si presenta aberrante da tale criterio e va considerato come volgare “superstizione”. Questo vocabolo greco è deisidaimonía (curiosamente il nome di “Desdemona” nell’Otello) e all’inizio aveva l’accezione positiva di “timore reverenziale degli Dei” inteso come estremo scrupolo sia nell’esercizio delle pratiche di culto sia nei rapporti sociali; all’epoca dell’“illuminismo”, invece, assume il senso deteriore di ritualità esagerata, grottesca, mistificante e indeco­rosa alla base della quale sta la paura (phobos), suscitata dall’incapacità del soggetto di affrontare la vita come si deve. La deisidaimonía non è pertanto un’istituzione sociale ma solo un tipo di comportamento ab­norme di singoli individui e appunto e sotto questo profilo di caso patologico viene descritta da Teofrasto nel xvi per­sonaggio dei Caratteri e da Plutarco nel suo trattato Sulla superstizione. Il “superstizioso” è in fondo un vi­gliacco che non sa muovere un passo senza consultare indovini e santoni poiché vede dappertutto infau­sti presagi, un nevrotico ossessionato dal rischio della contaminazione da cui deve continuamente purificarsi con gesti puerili. In apparenza crede negli Dei e non perde occasione di celebrare atti di culto, ma nel con­tempo è terrorizzato dal pericolo che essi stessi rappresentano, perché in qualsiasi momento potrebbero fargli cadere addosso una disgrazia, al punto che in cuor suo egli quasi desidererebbe che non esistessero. Sia Teo­frasto sia Plutarco vedono perciò nella deisidaimonía un estremo per eccesso rispetto all’eusébeia (la vera religione) di cui l’altro eccesso per difetto è l’atheótēs (ateismo); ma gli estremi si toccano giacché la reli­gione con il suo retto culto promuove il miglioramento dei costumi, laddove sia la superstizione sia l’ateismo non solo man­cano per opposti motivi d’un giusto concetto della divinità, ma anche comportano una degene­razione morale.

Tutti i filosofi criticavano senza riserve la superstizione, intesa come una serie di tecniche più o meno maniacali adottate da certuni per tutelarsi dalle oscure potenze divine o demoniache che imperversano nel mondo, ma c’era un altro aspetto controverso che toccava più da vicino la stessa religione istituzionale del tempo, cioè la mitologia. Essa rappresentava gli Dei in forme fantastiche, innaturali e di conseguenza paurose, oltre ad attribuire loro comportamenti deplorevoli e immorali. Il contatto con le civiltà dell’oriente metteva in evidenza l’assurdità della mitologia ancora più che in Grecia. Anche questo, si capisce, poteva sembrare aberrante solo da un punto di vista razionalistico. Le raffigurazioni tradizionali degli Dei dell’Egitto sono spesso mostruose, con teste di coccodrillo, di leone o di scarabeo, ma ciò non provocava nessuna paura nell’egiziano perché in tali figure erano concentrate simbolicamente le loro funzioni, quasi sempre positive. Per esempio Anubi aveva sì un corpo di sciacallo ma proprio per questo proteggeva dagli sciacalli “normali” che come tutti i canidi scavano le sepolture per rosicchiare le ossa del defunto. Pure la Sfinge non era altri che il faraone stesso in forma di leone a guardia della propria tomba, e stando lì non mi­nacciava nessuno se non i malintenzionati.

Com’è noto, Platone più di ogni altro condusse una contestazione devastante della mitologia nel quadro d’una sua radicale riforma del “parlare degli Dei” (theologίa) che applicava i criteri di razionalità e moralità, princìpi cardine dell’illuminismo greco. Va detto che Platone aveva un sovrano disprezzo per la re­ligione tradizionale (anche a prescindere dalle derive “superstiziose”) e con ogni probabilità non praticava nessun tipo di culto; tuttavia la sua valutazione non era teoretica, ma pratica. La religione fondata su riti e miti, secondo lui, aveva una nefasta efficacia diseducativa perché, se dagli Dei vengono in ultima analisi i beni e i mali, e se essi stessi sono descritti come pessimi modelli di comportamento, allora anche i cittadini sarebbero stati indotti a non sentirsi responsabili quando trascurassero i compiti e i divieti imposti dalla vi­gente legisla­zione. Ma la religione adeguatamente “riformata” in senso morale e razionale, al contrario, era non solo utile ma necessaria allo Stato, giacché presentava le divinità come custodi dell’ordine costituito e giustizieri delle eventuali trasgressioni umane che mai avrebbero potuto sfuggire al loro acuto sguardo. Sen­tendosi di continuo addosso questi terribili occhi indagatori, il cittadino (non potendo reagire come fa “l’uomo più brutto” di cui parlerà Nietzsche) avrebbe sicuramente rigato dritto. Dunque bisognava fare un bel falò di tutta la letteratura da Omero in poi per evitare che rovinasse la mente dei giovani, e nel contempo istituire una vera e propria inquisizione incaricata anzitutto di obbligare i cittadini alla giusta pratica di culto divino (come il re Carlo Alberto che prima del 1848 faceva scortare in chiesa dalla polizia gli studenti di To­rino costretti a periodica confessione), e poi di sottoporli a interrogatori sulle loro opinioni, condannando alla pena capitale quanti in­sistessero a ritenere gli esseri divini volubili, distratti o disponibili a farsi “corrompere” con preghiere e sacrifici.

L’infame religione di Stato teorizzata nella Repubblica e nelle Leggi ha certamente come elemento fondamentale la paura, e non solo di ciò che gli Dei potrebbero farmi in questa vita ma anche e soprattutto di quello che mi aspetta dopo la morte; difatti Platone sottolinea con enfasi che proprio nell’oltretomba si sal­dano i conti per le ingiustizie commesse, pure quelle che le istituzioni statali non fossero riuscite ad accertare e a sanzionare. Questo introduce un elemento nuovo, comparso nella cultura greca fra VI e V secolo, cioè la dottrina (orfica) dell’immortalità dell’anima e del giudizio cui deve sottoporsi una volta uscita dal corpo. Non è un caso che esso abbia poi assunto una rilevanza centrale in tutte le religioni della nostra area cultu­rale. In fondo noi possiamo aver paura di tantissime cose o circostanze, ma tutte queste paure non sono se non manifestazioni, esempi, allusioni più o meno inconsce a una sola: la paura della morte. E perché abbiamo paura della morte? Non si tratta semplicemente del decesso fisico. Come dice Amleto, morire è un po’ come mettersi a dormire; però poi riflette: to sleep… perchance to dream: ay, that’s the rub! Il sonno della morte potrebbe essere popolato da sogni, da esperienze di tipo onirico forse angosciose, spaventevoli, e il fatto che il vivente non sappia nulla di sicuro al riguardo lo lascia in uno stato d’inquietudine cui cerca di porre rime­dio tramite l’equazione razionalistica fra religione e morale: bisogna farsi trovare dalla morte senza pendenze in sospeso, delle quali gli orrori dell’altra vita potrebbero essere la giusta retribuzione.

Il fatto che la religione sia associata alla paura non è secondo Platone un difetto né un motivo di dubbio, ma all’inverso una cosa altamente positiva che la rende credibile, salutare, edificante. È appunto fa­cendo paura che una religione degna di questo nome assolve alla sua funzione. Vediamo allora che non si può trat­tare in maniera troppo generica il problema del rapporto fra religione e paura. Qui ad esempio la reli­gione non sarebbe una conseguenza della paura, ma semmai è la religione stessa che produce come suo ef­fetto (proficuo) la paura. Un esempio ancora diverso è quello del buddhismo, nei limiti entro i quali pos­siamo chiamarlo una “religione”. Il cosiddetto Libro tibetano dei morti (XIV sec.) contiene le istruzioni per il defunto su come comportarsi nell’“esistenza intermedia”, cioè i 40 giorni che passano dal decesso alla suc­cessiva reincarnazione. In questo periodo appaiono alla sua coscienza visioni di divinità che possono essere (a seconda del suo karma) radiose o spaventose, motivo di beatitudine o di terrore: egli deve però in entrambi i casi mantenersi imperturbato, consapevole che tali figure sono vuote e solo “un prodotto della sua mente”, giacché così facendo confermerà la sua fede nel principio buddhista della vuotezza dell’essere ed eviterà quindi di reincarnarsi un’altra volta. Il monachesimo tibetano prevedeva per i suoi membri anche un apposito rituale chiamato gčöd (“tagliare” gli ostacoli) secondo cui il tirocinante doveva ritirarsi da solo, di notte, in un luogo deso­lato o un cimitero e qui concentrarsi nella meditazione di immagini orripilanti – oppure evocarle con mezzi parapsichici – senza provar nessuna paura, ispirandosi al modello del Buddha Siddharta tentato da Māra (il Dio della morte) nella notte dell’illuminazione. Un oggetto pauroso, infatti, è tale solo se il soggetto pre­suppone che sia reale di per sé, dotato di un’identità stabile, mentre per il buddhismo qualsiasi realtà – non importa se esistente o fittizia – è effimera, impermanente, priva di un centro identitario fisso e pertanto “vuota” di un proprio sé. Il punto di partenza per il messaggio buddhista di salvezza è l’universale esperienza del dolore, che perde di significato una volta che se ne sia compresa la ragione, cioè la vuotezza di sé e l’impermanenza di tutte le cose. Anche la paura è un sentimento effimero nato da cognizioni sbagliate che come tale non è alla base di nulla, se non del perpetuarsi dell’ignoranza. Chi aderisce al buddhismo non lo fa per paura, anche se può evocarla per fare esercizio di coerenza: la verità da cui è stato illuminato l’ha già dissolta.

Una religione in cui la paura svolge un ruolo importante è il giudaismo, cioè quella fase della storia religiosa di Israele cominciata nel V secolo a.C. e proseguita fino a oggi (in precedenza le cose dovevano es­sere piuttosto diverse). Non a caso, quando in età ellenistica veniva ancora condotta da parte ebraica una certa attività di proselitismo, i convertiti dal paganesimo si chiamavano in greco “timorati di Dio” (theòn phoboúmenoi), in ebraico “timorati del Cielo” (yer’ey šamāym), nel senso che è la paura di esserne giudicati (phobos, īr’āt) a far loro rispettare con scrupolo i precetti. Non che gli ebrei autentici ne abbiano di meno, ovviamente. Com’è scritto nei Proverbi, la conoscenza (l’osservanza consapevole della Legge divina) co­mincia con la paura del Signore. Ciò dipende non tanto dalla rappresentazione biblica di Jahveh come un es­sere tremendo al quale nessuno, neppure Mosè, può avvicinarsi o guardarlo senza morire sul colpo, semmai piut­tosto dalla natura giuridica del rapporto religioso, che è un “contratto” (donde il lat. testamentum) fra la di­vinità e i credenti, e come tale prevede reciproci obblighi di osservanza con relative sanzioni in caso di inadempienza. Siccome Dio per principio è fedele alla parola data, è chiaro che solo i credenti possono tra­sgredirla e in tal caso la disgrazia che li colpisce inevitabilmente sarà sempre giustificata (teodicea!) quale temibile castigo delle loro malefatte, non importa quanto motivate o inavvertite. Nell’antico Israele la pena o il premio per il comportamento tenuto davanti a Dio si realizzavano nella vita presente, ma nel giudaismo (soprattutto nella corrente farisaica) si diffonde l’idea, mutuata dalla religione iranica, della resurrezione e dell’avvento di un nuovo mondo a cui solo i giusti potranno partecipare in misura dei loro meriti, mentre i colpevoli saranno puniti nell’inferno.

Il cristianesimo fece propria questa concezione giudaica, quantunque le sue premesse fossero diverse (non valeva più la Legge mosaica) ed il suo scopo era un “nuovo” testamentum basato sull’amore e sul per­dono, non sulla paura. Tuttavia anche Gesù condanna i reprobi nel Giudizio dell’ultimo giorno e, soprattutto, la Chiesa assumendosi una funzione sociale non poteva non dare il massimo rilievo al principio etico della re­tribuzione. I pensatori cristiani dei primi secoli ravvisarono ben presto una consonanza di fondo fra il razio­nalismo giuridico del giudaismo e il razionalismo filosofico di Platone, appreso della loro formazione elleni­stica, poiché in entrambi i casi la religione aveva quale suo fondamento la pena delle colpe e il premio dei meriti in prospettiva escatologica. Ma si noti come la cosa presenti un doppio inscindibile aspetto. Il credente per un verso sa che il Giudizio lo attende e perciò vive nel terrore di incorrere nelle conseguenze di una tra­sgressione; per altro verso però pratica la sua fede con la massima devozione possibile e quasi ai limiti della superstizione aspettandosi con questo di rendersi più meritevole di godere le gioie del paradiso. Così il cri­stianesimo, analogamente al giudaismo è bensì basato sulla paura della pena eterna (che peraltro non ha molto effetto sui non credenti), però non manca mai il lato eudemonistico della speranza, anzi del desiderio della felicità eterna. Non occorrerà insistere a spiegare che questo binomio è il massimo punto di forza anche nell’islam, perché lo vediamo ormai tutti i giorni. Nessuna religione più di quella islamica è basata sulla paura (o del castigo divino o della sanzione comunitaria), però i terroristi che la applicano nella maniera più integrale dichiarano di farlo non per questo ma per accelerare la loro entrata nel paradiso, dove i “martiri” accedono da subito senza aspettare la resurrezione dell’ultimo giorno; sono le persone da loro uccise, invece, che avrebbero dovuto aver paura, trattandosi di miscredenti o “apostati” comunque destinati alle fiamme dell’inferno.

Nell’Europa moderna la cultura dell’illuminismo riprende il dibattito sulla superstizione originata dalla paura già presente nelle fonti classiche e anche qui torna il motivo del doppio “eccesso”, dove quello rappresentato dalla superstizione è anche peggiore dell’altro, l’ateismo: così ad esempio nell’articolo Super­stition dell’Encyclopédie. Tuttavia, siccome gli avversari da combattere sono l’assolutismo monarchico e il cristianesimo delle Chiese ‒ loro sostegno ideologico ‒ la religione istituzionale correttamente professata non è più l’alternativa buona rispetto a questi “eccessi”, com’era per gli antichi, ma finisce per identificarsi con la superstizione medesima. Questa è la posizione di Hume, per il quale la superstition fa tutt’uno anzitutto con il cattolicesimo (la “superstizione dei Papi”) e poi con le sette protestanti del suo tempo; essa è costituita da assurde credenze che nascono da “debolezza, paura, malinconia e ignoranza”, diffondono “ansia e terrore”, producono “perniciose conseguenze” nulla vita umana e nell’ordine sociale. Alla religione superstiziosa Hume contrappone una true religion che sarebbe il puro culto del supreme Being ma in sostanza coincide con la morale, cioè la pratica della virtù e l’operare in favore del benessere della società, tutte cose che del resto uno potrebbe fare (anche meglio) senza professare alcuna religione positiva. Ho il sospetto che proprio Hume sia l’unica fonte diretta, ancorché non citata, di Bertrand Russell. Più radicale la posizione di d’Holbach, che non distingueva affatto fra la superstizione e qualsiasi tipo di religione, fosse pure quella dell’Essere supremo, poiché tutte assillano la gente con la paura della morte e della retribuzione ultraterrena (del resto persino Robespierre la riteneva indispensabile); pertanto, secondo lui, le deleterie fantasie religiose avrebbero dovuto essere cancellate dalla pubblica opinione mediante un deciso, energico intervento dello Stato. Ciò nondimeno, dal suo punto di vista illuministico, rimane pur sempre la necessità di salvaguardare e valorizzare l’etica ma in una nuova forma, quella che d’Holbach definisce una “morale della natura”. Secondo Kant viceversa la morale non ha nulla a che vedere con la natura, perché è il “regno della libertà” contrapposto al “regno della necessità” della scienza fisica. Con ciò sembrerebbe che la sua visione sia più moderata e rispettosa della religione, la quale con il suo “puro” messaggio etico contribuisce al progresso dell’umanità nel vincere la “radicale” ten­denza al male dell’essere umano: però è anche molto ambigua. Infatti ciò che vale della religione pensata “entro i limiti della sola ragione” si risolve sostanzialmente in questo appello all’agire morale, che è poi la stessa cosa di un’etica laica, salvo il fatto di presentarlo non come imperativo del dovere ma come comando “divino” e quindi in una forma metaforica, simbolica, adatta alla comprensione del popolo incolto (abbastanza simile sarà la concezione di Gentile). Tutto il resto però che contraddistingue la religione istituzionale o come dice Kant “statutaria”, cioè i dogmi, i miracoli, i rituali, le arcaiche cosmologie, va abbandonato perché rap­presenta un inutile ingombro, anzi una distorsione e un impedimento. L’apparato “statutario”, pur costituendo la realtà storica di ogni religione, in ultima analisi per lui non è altro che superstizione. Ma il colmo dell’ambiguità sta nel fatto che lo stesso Kant rivendica al contenuto autentico della religione anche l’immortalità dell’anima e la retribuzione ultraterrena in quanto “postulati” della ragione pratica, giacché sa­rebbe irragionevole che un’esistenza virtuosa non ricevesse almeno in un’altra vita la felicità quale meritato compenso. Con la medesima logica, però, chi abbia condotto un’esistenza immorale dovrebbe temere il meritato castigo, e allora anche la religione “nei limiti della sola ragione” implica coerentemente la paura dell’aldilà, quantunque Kant preferisca non toccare l’argomento.

Il tema della paura come origine della religione tornò d’attualità nel Novecento fra i teorici dell’Antropologia che in Gran Bretagna viene chiamata “sociale” mentre negli Stati Uniti e in Europa si usa piuttosto l’appellativo di “culturale”. È chiaro che per le civiltà di interesse antropologico la religione è una componente essenziale per comprendere la loro visione del mondo, e questo ha indotto molti ricercatori a trarne delle conclusioni anche per quanto concerne il fenomeno religioso in generale. L’indirizzo funzionalista fondato da Malinowski e Radcliffe-Brown ritiene che la religione (di norma collegata alla magia) sorge al fine di conferire un’illusione di sicurezza, di attenuare le emozioni e di sollevare dall’ansia di fronte ad eventi negativi incontrollabili sempre incombenti. Sua funzione è di venire incontro ai bisogni e alle paure del gruppo sociale. In particolare Paul Radin, attivo alla metà del secolo scorso e grande studioso delle tribù native dell’America settentrionale, riporta nel suo libro Primitive Religion quanto gli indigeni vivano letteralmente terrorizzati dai pericoli ai quali si sentono esposti ogni momento da parte di un ambiente estremamente ino­spitale e come i culti da loro praticati servano appunto a cercare il sostegno, il conforto, di potenze sovrumane. Questo senza dubbio è vero, ma non bisogna dimenticare che la stessa Antropologia in altri suoi indirizzi (strutturalista, sociologico, culturalista) ha messo in evidenza numerosi altri motivi per il sorgere della reli­gione: per esempio l’esigenza di darsi ragione del mondo attribuendo agli esseri divini la fondazione di un sistema classificatorio dei fenomeni naturali e dei rapporti sociali, o anche il bisogno di esprimere in maniera simbolica, per quanto possa sembrare ingenua, il senso di eventi e situazioni importanti della vita umana. Non si può negare che la religione, oltre alla funzione di alleviare la paura di vivere, ha sempre assolto anche a una funzione cognitiva non meno essenziale, quella di far comprendere all’uomo chi è e che cosa può o deve fare in questo mondo. D’altronde la paura è sicuramente un sentimento universale ma non è un sentimento primario, e quindi neppure originario o tale da essere il punto di partenza di qualcosa. Il bambino piccolo non prova paura di quello che normalmente spaventa gli adulti. La paura è qualcosa che si deve apprendere col tempo, come Sigfrido, e la si apprende soltanto quando si sia vissuto un’esperienza che ci ha resi consapevoli della nostra fragilità. Così anche la religione, per quanto grande sia in essa il ruolo della paura, non su questa che si basa, ma piuttosto su un’esperienza più o meno inquietante, che di per sé non avrebbe propriamente nulla di religioso.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA MITO RELIGIONE Senza categoria STORIA DELLE IDEE

3 Comments Lascia un commento

  1. E’ strano dubitare dell’esattezza di quell’affermazione. Se la religione cristiana, come altre forme di credo fideistico, costruisce una cosmologia che è imperniata sull’antitesi premio/paradiso-inferno/punizione non si puo’ non pensare alla paura come cemento che lega la parrocchia ai parrocchiani.

    "Mi piace"

  2. Eccellente lavoro, Professore. È vero: non è la paura il fondamento della religione: è qualcosa di più terribile ed angosciante! Non credo si possa “capire” il significato (nel senso etimologico del termine) di questa parola che forse non esiste. Però se ne può fare esperienza e, se si riesce a superarla, si può evolvere vertiginosamente.

    "Mi piace"

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: