ORTEGA Y GASSET E LE MASSE: UN’INTOLLERANZA LUNGIMIRANTE
MATTIA ZANCANARO
Sono trascorsi ormai novant’anni da quando José Ortega y Gasset, saggista, filosofo e giornalista spagnolo di rara finezza, pubblicava La ribellione delle masse, la sua opera più celebre e apprezzata. Con gli occhi rivolti a un’Europa tormentata da conflitti identitari e crisi economiche, Ortega scrive un testo crudo e disincantato, destinato a rimanere nei classici della storia della filosofia, e questo perché, come ogni vero classico, oltre a non invecchiare mai veramente, sa guardare così lontano da garantirsi l’immortalità. Non è certo compito mio fornire qui un riassunto o un elogio di quest’opera (di cui del resto non avrebbe alcun bisogno). Mi pare, però, che ripercorrerne alcuni passi possa renderci consapevoli di come, al contrario di quanto spesso pensiamo, da uno screzio personale possa nascere anche qualcosa buono. Sì, l’idiosincrasia può essere motore di idee e riflessioni profondamente vere proprio perché mosse da un fastidio che non intende concedere sconti o appiattirsi su analisi di convenienza. Vediamo allora, brevemente, quale sorprendente risultato produce l’idiosincrasia di Ortega y Gasset, che, da buon giornalista, è uno che non ama mandarle a dire. Può scegliere tra una marea di problemi di cui occuparsi, dato che il periodo storico non è per nulla avaro di stimoli per la penna di uno come lui, grande critico della contemporaneità. La crescita repentina dei partiti nazi-fascisti, la crisi delle democrazie occidentali, la fine dei grandi imperi tradizionali: tutti temi di straordinario interesse, ma, a detta di Ortega, subordinati per importanza a qualcosa di più rilevante. Ciò che più di tutto lo disturba – e non solo perché ha a cuore il destino dell’Europa e del mondo, ma anche e soprattutto per una vera e propria repulsione personale – è «l’avvento delle masse al pieno potere sociale». Converrà, per meglio capire come Ortega la vede sull’argomento, continuare a citare le sue stesse parole: «E poiché le masse, per definizione, non devono né possono dirigere la propria esistenza, né tantomeno governare la società, questo significa che l’Europa soffre attualmente la più grave crisi che popoli, nazioni, culture possano patire». La massa è lo strato della popolazione – generalmente opposto alla minoranza – i cui membri, proprio in quanto uomini-massa, non distinguono se stessi dagli altri del loro gruppo, costituendo un tipo umano incapace di definirsi: «massa è tutto ciò che non valuta se stesso». Quel che è peggio, e con questo forse ci avviciniamo più evidentemente all’attualità, è che la massa non può essere informata, nel duplice senso della parola: non può ricevere informazioni rielaborandole criticamente e, in quanto massa informe, non può ricevere una forma. Ortega, studioso della Madrid colta e pensatore d’élite, mette in guardia i suoi contemporanei dagli uomini-massa, che, fa presente, sono sempre esistiti, ma che solo dalla fine del XIX secolo hanno potuto alzare la voce, ribellandosi a quelle minoranze colte – di cui lui stesso fa parte – che li hanno sempre governati e guardati dall’alto. Sfruttando la magnanimità delle democrazie liberali e il repentino sviluppo della tecnica, le masse reclamano ora – nel 1920 come nel 2020 – pieni poteri. Non c’è bisogno di essere docenti, professionisti della politica o capitalisti; per ambire al potere basta, per usare un termine non proprio privo di implicazioni, esserci: «Il fatto caratteristico del momento è che l’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia di affermare il diritto della volgarità e lo impone ovunque». Al lettore parrà di trovarsi davanti agli stralci dell’articolo di punta di un qualche giornale uscito negli ultimi mesi, e invece legge le acri parole di un pensatore del secolo scorso. Sembra un cliché fra gli altri, quello dell’intellettuale di città che osserva con spocchia e fastidio il crescere del potenziale di vita delle classi meno agiate. Il presunto cliché, però, è presto sfatato: in prima istanza, sono molti i pensatori che nello scorso secolo guardano con soddisfazione all’aumento della vita (celebre espressione orteghiana) delle masse (basti pensare all’eterogeneo quanto vasto filone degli autori di impostazione marxista); in secondo luogo, quello di massa è un concetto più psicologico che collettivo, e ne fanno parte non soltanto gli umiliati e offesi, ma anche molti scienziati della nuova tecnica. Quella patita da Ortega y Gasset è insomma un’idiosincrasia tutt’altro che scontata, e ancor meno scontata è la sua sorprendente lungimiranza. Se è vero che l’avvento dei movimenti di massa al governo e la vera e propria presa da parte delle masse dei social network e dei mezzi di comunicazione è accolta da alcune parti – di cui non è qui lecito fare il nome – con una certa simpatia, è altrettanto vero che questo avvento e questa presa rappresentano oggi un fatto incontestabile e decisivo per le dinamiche del nostro corpo sociale. La libera e sconsiderata espressione dei propri impulsi e l’ingratitudine verso chi ha reso possibile la sua condizione di totale agiatezza – dopo lunghi secoli di lotte per portare il pane a tavola – sono i tratti distintivi dell’uomo-massa degli anni ’20. Degli anni ’20 del secolo scorso, sì, ma anche di questo. La psicologia del bimbo viziato che vive di illimitatezze di cui non conosce i connotati, anziché suonarci come una lontana rimembranza del passato, bussa alla nostra porta come la più inquietante delle questioni.
La caustica analisi di Ortega si fa ancora più interessante là dove, ricordando una volta di più che tutti rischiamo di farci risucchiare dalla massa, passa a parlare degli uomini-massa scienziati. Gli scienziati che lo circondano, figli dell’avanzatissima tecnica occidentale, vengono spietatamente definiti nuovi barbari. Specializzati fino all’esasperazione, sono come api chiuse nel proprio favo: conoscono alla perfezione un ristrettissimo campo, ma perdono di vista la scienza come movimento, e, come se non bastasse, in virtù del loro ben limitato sapere, pensano di potersi esprimere con competenza su qualsiasi argomento. È interessante ricordare, en passant, che simile a quella di Ortega è la critica mossa, nell’Apologia, dal Socrate platonico agli artigiani, colpevoli proprio di una errata presunzione di conoscenza dell’universale indotta dal loro padroneggiamento di un ristretto campo del sapere. Anche – e forse soprattutto – quest’ultima sferzata coglie nel segno anche ai nostri giorni, tratteggiando perfettamente la figura dell’ingegnere medio, che come tale è uomo-massa, tecnico ultra-specializzato del tutto incapace di riflettere sullo statuto e la natura delle scienze. Lo scienziato-medio, vero e proprio primitivo ben vestito, non tanto si accontenta del suo limitatissimo àmbito di competenza dimenticandosi tutto il resto, ma ritiene quest’ultimo, invece che una piccola parte, tutto ciò che in realtà serve sapere. La palese antipatia di Ortega per lo scienziato del suo tempo, a sua detta vittima senza speranza della barbarie dello specialismo, ci spinge inevitabilmente a guardarci attorno e a interrogarci sulla formazione e sulle capacità dei tecnici dei nostri giorni, fin troppo spesso avvolti da un’aura di santità che non aiuta a coglierne i limiti radicali. L’inquietudine di Ortega, che sfocia in vera e propria avversione categorica, è l’inquietudine di un pensatore che, nel difendere il suo diritto di appartenere a una minoranza lesa, indica consapevolmente un problema destinato ad angustiare per decenni l’intera società occidentale. Le accuse alle ingerenze della scienza trovano terreno particolarmente fertile nella situazione di emergenza da virus dell’ultimo periodo, un periodo in cui la tecnica – nella nobile veste della medicina – sta visibilmente rosicchiando spazio alle decisioni della politica, minacciando di non arretrare nemmeno a emergenza finita. Masse e scienza, in apparenza agli antipodi, stringono un sodalizio potenzialmente deleterio, in grado di abbinare a competenze tecniche sorprendenti una sempre rinnovata volontà di potenza.
Quello della filosofia di Ortega, in grado di sviluppare temi e problemi oggi sempre più inquietanti con diversi decenni di anticipo, è un esempio mirabile di come da un risentimento certamente almeno in parte personale, da un’idiosincrasia, da uno sfogo incontenibile, possa nascere la più lucida delle analisi, in barba a ogni facile cerchiobottismo di convenienza. L’irritazione del pensatore spagnolo, grazie al cielo, è vasta abbastanza da rivolgersi a buona parte dei temi che angustiano il nostro presente di occidentali, e il minimo che possiamo fare, a novant’anni dalla pubblicazione de La ribellione delle masse, è riproporre questi temi nella loro urgente richiesta di essere affrontati con occhio lungimirante almeno la metà di quello di Ortega.
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