QUESTA NON È UNA GUERRA

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PAOLO CASCAVILLA

L’uso di metafore di guerra è frequente. In modo particolare lo si trova per sintetizzare in modo efficace e comprensibile un percorso complesso: guerra al cancro, alla criminalità, alla droga… Ma mai si era parlato in modo così intenso ed esteso di guerra per descrivere una grave e globale emergenza sanitaria. Vi è chi ritiene utile tale riferimento in questa pandemia, con un nemico invisibile e un pericolo che non si percepisce immediatamente. Il richiamo alla guerra sembra necessario per far accettare al popolo scelte dolorose e sacrifici e per sviluppare uno spirito di collaborazione e di obbedienza.

I popoli hanno identità nazionali che si rafforzano contro un nemico comune. È possibile oggi far capire che è difficile e incerta una vittoria dei singoli stati sulla pandemia, mentre va dedicato ogni sforzo per costruire una collaborazione e una cooperazione internazionale? Metafore e parole di guerra possono aiutare in questa direzione?

Bush nel 2005 e Obama nel 2014 intervengono al National Institutes of Health sulle future pandemie. Esprimono preoccupazione per quelle nate da virus provenienti dagli uccelli (già sperimentate), che si affacceranno di nuovo nel giro di 5 o 10 anni. Di qui la necessità di elaborare strategie per prevenire e isolare i focolai, accelerare la produzione di vaccini, stabilire forme di cooperazione internazionale. Ma soprattutto, per fronteggiare una pandemia, ci vogliono cittadini informati: sono essi che devono proteggere se stessi e gli altri, essi possono interrompere la diffusione del virus.

Nessuno dei due ex presidenti parla di guerra. Entrambi esprimono in modo articolato le azioni di contrasto alla pandemia, le strategie future, la partecipazione dei cittadini. Non i tweet di Trump, che si è definito il presidente dei tempi di guerra, e paragona la pandemia a Pearl Harbor o all’11 settembre. I giornali statunitensi fanno i conti e dicono che alla fine i morti supereranno quelli di Corea, Vietnam, Afghanistan.

Macron (16 marzo 2020) ripete più volte “siamo in guerra” con un “nemico invisibile, inafferrabile, che avanza e richiede la mobilitazione generale”. Non così Angela Merkel (18 marzo 2020). Oltre a non pronunciare mai la parola guerra, parla di “una situazione dalla quale imparare continuamente”, di “consapevolezza condivisa”, di capacità di agire “con il cuore e la ragione”.

In Italia è un coro diffuso, su giornali e televisione, con metafore belliche e visioni collegate alla guerra (prima linea, trincea, eroi, armi, munizioni, economia di guerra, chiamata alle armi…). Il riferimento inconscio è alla prima guerra mondiale, lì troviamo le immagini ricorrenti: trincee, armi antiquate, logistica carente, vulnerabilità (“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”), conquiste e perdite, attesa e logoramento…

Tutto è cominciato con “Io resto a casa”. Solo stando a casa difendiamo gli eroi, che combattono in prima linea.

Della guerra vi sono inizialmente le file ai mercati, gli scaffali vuoti ed anche le prime rivolte per il pane. Guerra al nemico invisibile, eppure la sua immagine è ovunque. È inafferrabile. Imprevedibile. Non si conoscono le sue mosse. Qualcosa di analogo ci viene descritto nella guerra del Vietnam: i vietcong invisibili, nelle foreste, nelle paludi, e gli americani per stanarli sono costretti a usare il napalm. In Usa, dopo le prime comunicazioni presidenziali, molti corrono ad armarsi.

In Italia arriva il commissario Arcuri. Nella prima conferenza stampa delinea la sua strategia. Siamo in guerra e non abbiamo armi e munizioni, il nostro esercito rischia di non farcela. Stiamo perdendo anche la guerra diplomatica. Ci stanno rubando in casa mascherine e attrezzature. E allora? Acquistare tutto quello che è possibile, bloccare l’export della produzione italiana, riconvertire industrie per la produzione di materiale utile a questa guerra. A Milano il coronavirus è peggio che i bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale; in Lombardia i morti sono 5 volte più di allora. Interviene l’esercito, che monta ospedali e offre personale. Si deve vincere il virus. Il paese in guerra è sorretto da un rinnovato orgoglio patriottico: si ripete spesso che siamo i primi (a chiudere i voli dalla Cina, a creare le zone rosse), tutti ci imitano. C’è un modello Italia. I cittadini devono “stare dentro”. L’Italia lo richiede e dice “grazie”. Tutta la pubblicità si adegua. Conte con un tweet sintetizza: “60 milioni di cittadini lottano insieme per sconfiggere questo nemico invisibile. Sventoliamo orgogliosi il nostro tricolore. Intoniamo fieri il nostro inno nazionale. Uniti. Responsabili. Coraggiosi”.

Gli operatori sanitari in prima linea. Applausi dai balconi, davanti agli ospedali. Nonostante dicano: “Non siamo eroi, dateci solo gli strumenti necessari”, eroi sono definiti; e il termine deborda, non solo operatori sanitari, ma protezione civile, forze armate, altri settori. Pure i funzionari della Pubblica amministrazione sono sollecitati dalla Coldiretti a divenire essi stessi eroi per accelerare le pratiche burocratiche.

Ogni sera il bollettino di guerra. Ci obbliga a essere obbedienti, silenziosi, senza alternative. Abbiamo smarrito quel comportamento che ci porta a rispettare l’autorità, ma anche a parlare, a dire… All’inizio muoiono gli anziani, tutti con patologie pregresse, sottolineano i cronisti, poi con un gesto della mano fanno intendere che sarebbero morti comunque. La lunga cronaca di morte è accettata con fatalismo. Qualche lieve critica per le attrezzature mancanti.

Nessuno chiede come si “sta dentro”. I bambini, gli anziani, i sofferenti psichici, gli autistici… Artisti e vip insegnano come stare dentro: leggere, scrivere, suonare, mettere in ordine… “se proprio non sapete far niente prendete una pentola e suonatela”. C’è chi canta, intrattiene il popolo, sulla falsariga dei divi di Hollywood che vanno a rincuorare le truppe al fronte. Si coltivano, nei giardini e sui balconi, verdure e piante aromatiche. Il governo nei tanti interventi non parla mai dei corpi intermedi (associazioni, vicinato…) che occupano man mano un posto importante ed aiutano, informano, incoraggiano…

La guerra diventa geopolitica e si riconoscono nemici e alleati: “Ci ricorderemo di quelli che non ci aiutano”. Conte chiede i coronabond e apre un fronte contro L’Europa: “Noi stiamo scrivendo la storia… e la storia ci darà ragione”. Il linguaggio bellico deborda su un altro fronte: gli investimenti economici: “Per la cura Italia una poderosa potenza di fuoco. Un bazooka”. Quasi tutti i giornali raffigurano il bazooka.

Intanto gli scienziati e i ricercatori fin dall’inizio occupano la scena. Discutono, dicono di non sapere, se non sanno. E anche se la televisione chiede loro di fare gli indovini, si defilano. Vediamo dall’interno come si muovono i ricercatori, alternano certezze e dubbi, ascoltano, verificano, non nascondono di muoversi in un territorio inesplorato. Litigano e collaborano. La scienza non ha la pretesa di assolutezza, si mette in discussione, aperta a nuove ipotesi. Un laboratorio a cielo aperto. Un apprendimento collettivo. Impariamo che contano le competenze, l’esperienza passata, gli studi fatti, tenere la mente aperta… Osservare, riflettere, sperimentare. È il metodo galileiano

22 giugno 1633. Galilei è per l’ultima volta davanti al Tribunale dell’Inquisizione. Gli amici lo aspettano fiduciosi. Poi le campane annunciano l’abiura. Galilei (nella versione di Brecht) entra nella stanza e un suo discepolo disilluso e amareggiato: “Sventurata quella terra che non ha eroi”. Lo scienziato è prostrato, stanco, contestato. Poi in tono sommesso: “No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”.

Come in guerra non tutto viene detto, poche le foto e clandestine. Il bisogno di verità viene soddisfatto riempiendo tutta la tv di coronavirus. Le stesse notizie ripetute dieci, venti volte. Una pandemia e un contagio di informazioni, senza ampliamenti e approfondimenti. Tutta l’attenzione è concentrata sull’Italia e poco su atri paesi. Affiora la stanchezza, l’angoscia, il panico. La paura degli altri, del futuro non si trasforma in premura per gli altri, per il futuro. Si sta in silenzio e in attesa. Il dolore è dentro, soffocato. Ma talvolta esce fuori (una chiacchierata con i vicini sul balcone, una telefonata, una pagina letta, il sole primaverile…), e da esso si riesce ad imparare qualcosa e si provano a definire le responsabilità proprie e di altri, esprimere dubbi, fare domande…

E i malati? Sono chiamati a lottare. Le prime immagini di chi ce la fa, di quelli che hanno sconfitto il virus, intorno applausi, pugni stretti, segni di vittoria, che sugli altri non hanno effetto. Preferirebbero parole tenui, non essere considerati soldati. Depressi, abbandonati, senza forze cercano volti familiari. Gli inviti a lottare e a resistere aumentano la sofferenza. Lentamente escono le parole dei necrologi, prima due pagine poi quattro, otto, infine decine. Sono vietati i funerali, le bare sono portate fuori di notte.

Come sarà dopo? Progetti, impegni, doveri… usciremo e festeggeremo, verrà la primavera, la festa degli abbracci…. Si ha paura della distanza. È la cosa più difficile da imparare, l’uso di parole nuove, la cura dello sguardo e dei gesti. I bambini si trovano meglio, non si danno la mano, né si abbracciano, né si scambiano baci. Una bambina sorridendo saluta in modo discreto con la mano, la nonna si intravede lontano, dietro una finestra.

E noi cosa impariamo? Qui la scena è tutta del Papa, quotidianamente da S. Marta richiama la vicinanza creativa, la semplicità dei gesti, il rispetto del creato, l’amore verso chi soffre… dice ai preti di non essere come don Abbondio.

Bisogno di verità e di parole esatte. Ci aiutano a capire meglio. Parole come emergenza, tragedia collettiva, agenti patogeni, spillover, invasione del corpo sociale… Le metafore aiutano a descrivere l’ignoto con il noto, una realtà diversa con ciò che conosciamo. Ci riescono? O non creano piuttosto una nuova realtà? Parlare di Stato di guerra, unione sacra tra governanti e governati, concordia nazionale, eroismo non aiuta a ragionare di cura, inclusione, condivisione… Il linguaggio bellico non è adeguato a descrivere quello che stiamo vivendo. È più facile, più emotivo. Acuisce la separatezza, la solitudine, invece di creare solidarietà ed empatia.

Le parole di guerra modificano gesti e azioni. In guerra niente è considerato eccessivo. Nessuna parola o espressione è fuori posto. Nessun sacrificio è troppo grande. È il linguaggio di guerra a spingere tanti a nascondersi e a morire a casa.

Nelle case di riposo si muore di Covid e di assistenza che non c’è. A Milano, nel cimitero, vi è un’area con sepolture che nessuno piange. Altrove, nel mondo, le fosse comuni.

Su “L’eco di Bergamo” i figli, i parenti scrivono piccole memorie: il distacco momentaneo, l’attesa in quarantena, il rimpianto di non essere stati vicini, non avere dato l’ultimo saluto. Qualcuno ha ricevuto i disegni dei nipoti appesi dagli infermieri sulla sponda del letto.

Una madre positiva al virus non è andata in ospedale, è stata in casa vicino al figlio con sindrome autistica. I vecchi sono morti soli. Se fossero stati colpiti i bambini avremmo sopportato che le madri si fossero tenute lontano per paura del contagio?

Corpi senza vestizione. La chiesa non ha reclamato quel momento per cercare di dare un senso a qualcosa di inspiegabile. Un piccolo spazio in chiesa, pochi momenti per raccogliere la nostra vulnerabilità, fraternità, comunanza dei destini.

Non si sa né come né quando l’inno nazionale ha lasciato il posto a Bella ciao. Pare siano stati prima i vigili del fuoco inglesi. Non più inni nazionali, ma ovunque un canto d’amore e di libertà. Alcuni speravano di celebrare la memoria della Resistenza con la liberazione dal virus. Ma Bella Ciao, “inno europeo” di solidarietà e coraggio, ha finito per adombrare l’unità nazionale e patriottica.

Photo by Daniel Tafjord on Unsplash

DIRITTO FILOSOFIA POLITICA

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