CASO E NECESSITÀ TRA BIOLOGIA E FILOSOFIA: MONOD, JULLIEN, CAMUS
SILVIA D’AUTILIA
Abitudine, prevedibilità e determinismo sono aspetti che conferiscono stabilità alle nostre vite. La stabilità è garantita da eventi e situazioni che o si ripetono con costanza, oppure sono il risultato di legami causa-effetto di cui non solo siamo consapevoli, ma anche deliberiamo che avvengano. È questa la dimensione della necessità all’interno delle nostre esistenze. Ma cosa succede nel momento in cui degli imprevisti si palesano davanti ai nostri occhi, interrompendo il consueto e atteso corso delle cose? Come ci rapportiamo a quegli incidenti di percorso che alterano e destabilizzano il filo conduttore del percorso, rendendoci d’improvviso impreparati al nuovo? E come interpretare questo “straniero” che irrompe nelle nostre vite, portando disordine e disorientamento?
Nel 1970 il biologo Jacques Monod, su ispirazione di precedenti conferenze tenute in California e in Francia, pubblica il saggio Il caso e la necessità, col quale entra a gamba tesa e con enorme risonanza all’interno del dibattito su evoluzionismo e creazionismo. Se per l’evoluzionismo darwiniano le variazioni morfologiche degli esseri viventi non sono iscritte in alcun finalismo di tipo cosmologico, trascendentale o addirittura divino, per il creazionismo occorre rifiutare qualsiasi meccanicismo che spieghi in via esclusivamente naturalistica l’origine e la presenza degli esseri viventi sulla terra. Quel che di sorprendente compie Monod è collegare questioni di estrema pertinenza biologica, come l’origine della vita o l’evoluzione della specie, a concetti risaputamente cari alla filosofia, come il caso, la necessità e la loro reciproca interazione. Questo perché, come lui stesso afferma, le due discipline sono intimamente connesse, al punto che: “La biologia è dunque per l’uomo la più significativa di tutte le scienze, quella che ha già contribuito, forse più di ogni altra, alla formazione del pensiero moderno, profondamente sconvolto e segnato in tutti i campi – filosofico, religioso e politico – dall’avvento dell’evoluzionismo.”
Cos’hanno dunque in comune biologia e filosofia nell’analisi di Monod? Per prima cosa la riflessione sull’ontologico (ciò che è in quanto tale) e secondariamente come l’ontologico cambia, si trasmette, si evolve nelle ataviche leggi di determinismo o casualità e viene analizzato nelle interpretazioni dell’uomo. Quest’ultimo del resto è il solo essere vivente che simultaneamente appartiene sia alla dimensione della biosfera che a quella delle idee: inevitabilmente bisogna cercare legami di senso coerenti per questi due mondi. Per entrare più nello specifico, partiamo dalla differenza tra oggetti naturali e artificiali che lo stesso scienziato francese prende in esame. Se pensiamo a un coltello, possiamo affermare fin da subito che la sua presenza coincide con la funzione di tagliare; così una macchina fotografica nasce e viene realizzata al fine di immobilizzare e produrre immagini: i loro progetti ontologici sono noti e acclarati da sempre. Ma potremmo dire forse la stessa cosa di una roccia, di un fiume, di un cane o di un uomo, esposti come sono alle mutevoli e numerose leggi della natura? D’altronde è noto, la natura si manifesta come oggettiva, non proiettiva. È in questo senso che Monod parla di “teleonomia”, (letteralmente: legge del fine), per riferirsi al fatto che gli organismi sono aprioristicamente corredati da un progetto biologico di tipo conservativo, funzionale a mantenere e trasmettere nel tempo determinati corredi fisici e fisiologici: la conservazione della specie è cioè garantita da precise strutture teleologiche che garantiscono l’invarianza riproduttiva tra generazioni.
Eppure, nonostante queste proprietà intrinseche e fondamentali, gli esseri viventi si evolvono, cambiano nel tempo e sviluppano variazioni per rispondere al macrobisogno biologico dell’adattamento. Ogni volta che eventi fortuiti e accidentali entrano nel cuore dell’invarianza, si verifica un fenomeno biologico e filosofico particolare per cui il caso diviene tutt’uno con la necessità. Ne derivano organismi unici in cui convergono fattori deterministici e casuali. Scrive Monod: “Ma una volta inscritto nella struttura del DNA, l’avvenimento singolare, e in quanto tale essenzialmente imprevedibile, verrà automaticamente e fedelmente replicato e tradotto, cioè contemporaneamente moltiplicato e trasposto in milioni o miliardi di esemplari. Uscito dall’ambito del puro caso, esso entra in quello della necessità, delle più inesorabili determinazioni.”
Nell’uomo, che, come dicevamo sopra, è il solo essere vivente ad avere sia una dimensione biologica che spirituale, questa peculiarità è duplice: anche il suo mondo psicologico, emotivo ed affettivo è interessato da fenomeni d’invarianza che a un certo punto, improvvisamente, si trovano a fare i conti con delle novità, in ragione delle quali dover riprogrammare e riorganizzare il setting mentale. Se ad esempio so che ogni giorno impiego venti minuti per recarmi a lavoro in treno e stamattina il treno è in ritardo, devo velocemente pensare a come far fronte a questo accidente per raggiungere comunque il posto di lavoro. La tanto invocata abilità di “problem solving” non è che la capacità plastica del cervello di sviluppare soluzioni nuove per situazioni inedite e inaspettate: con il tempo e l’esperienza queste risposte vengono poi collaudate, immagazzinate e meccanicisticamente riprodotte ogni qual volta in futuro analoghi stimoli lo richiedono. Come nell’evoluzionismo riesce a “sopravvivere” chi sviluppa mutazioni funzionali all’ambiente, così è più facile che riesca a convivere positivamente con le circostanze esterne chi elabora soluzioni rapide per inattesi problemi. L’adattamento è dunque la migliore condizione in cui si realizza la sovrapposizione di accidentale e meccanico. Monod finisce col proporre una sorta di esistenzialismo scientifico in cui il reale coincide con un caso che si “necessarizza” e col fortuito accadere di certe situazioni, che pur avendo potuto non verificarsi, poi prendono a inserirsi nel corso meccanicistico degli eventi. La sua realtà è drammaticamente eventualistica, eccezionale e precaria: un’epistemologia che corre parallela a molte avanguardie letterarie e correnti filosofiche del ‘900, sensibili alla riflessione sulla caducità e labilità della vita.
Ma come collocare tutto questo con gli effetti del libero arbitrio di cui parlavamo in apertura? Sappiamo che la cultura occidentale – a partire dalle domande sull’etica del pensiero greco, sino all’influenza del cristianesimo e la valorizzazione dell’io – è costitutivamente basata sul soggetto e su come la sua libertà può cambiare il corso degli eventi. Dalla mitologia del peccato originale alle teorizzazioni sul cogito cartesiano e l’io penso kantiano, il singolo è artefice di destini, protagonista di conoscenza e fondatore di condotte. Lo stesso filosofo Lucrezio interrompeva il rigido determinismo atomico attraverso la teoria del clinamen, con la quale dava spiegazione del libero arbitrio e della volontà dell’uomo in termini di declinazioni assolutamente casuali di atomi: nel rigore della meccanica, la libertà di scelta e d’azione appare l’unica interruzione concessa alla realtà. Il principio del causa sui come anche il dibattito sull’homo faber hanno dunque dominato in maniera prepotente la tradizione occidentale sulla praxis, l’etica e la politica.
Ebbene, è proprio a partire da questi capisaldi che il filosofo francese François Jullien pubblica nel 2016 il testo Essere o vivere, invitando il lettore a un confronto serrato con la cultura cinese e alcuni suoi concetti fondamentali molto distanti dall’approccio descritto sopra. Disponibilità, propensione, situazione, cammino, divenire (tao) sono tutte nozioni che rifiutano l’esclusività del singolo e invitano quest’ultimo a inserirsi, al contrario, in logiche d’insieme nel quale ripensarsi e ripensare l’altro. Essere protesi verso un cammino in costante divenire significa rifiutare il valore del qui e ora e ridurre la centralità della scelta individuale. Significa non assecondare il solipsismo causale del libero arbitrio per rivolgere lo sguardo a una realtà processuale in cui l’altro, l’estraneo, l’imprevisto e il disatteso non sorprendono ma addirittura si attendono. “Pensare in termini di propensione e non più di causalità non significa soltanto abbandonare un regime di esplicazione per assumere un regime di implicazione, o passare da una ragione esterna a una regione interna. Significa più ampiamente rovesciare la chiarezza data dalla scomposizione degli elementi e dal disaccoppiamento degli opposti, la chiarezza dell’Essere e della sua costruzione, nella logica continua e correlata, indefinitivamente intricata dei processi.”
Se smettiamo di atomizzare le azioni del soggetto, l’etica non risulta che un flusso verso il quale si è costantemente disponibili e aperti. Crolla il mito dell’iniziativa e del soggetto intraprendente ed emerge il potenziale di situazione dal quale ogni uomo sia è arricchito sia si arricchisce. Ugualmente, anche il concetto di storia muta sensibilmente: chi vince nel costante e continuo avvicendarsi di propensioni? Vince chi riesce a sfruttare al massimo il relativo potenziale di situazione implicato; chi è in grado di surfare sul corso degli eventi con duttilità e flessibilità. La sfida è chiedere al soggetto di fare un passo indietro e rinunciare alla sua urgenza di soggetto, appunto. Confucio diceva: “non c’è nulla che io possa o non possa”, in riferimento al fatto che è tipico del saggio lasciare aperte tutte le possibilità, non precludersi alcunchè, né dare a prescindere la propria adesione a un’idea. L’obiettivo è disciogliere l’io, dimenticare sé stessi, svuotare la mente e compenetrarsi col mondo. In questi termini, l’esistenza è una compossibilità. L’Essere si sbriciola di certezze e garanzie. La necessità diviene sinonimo di caso e viceversa.
C’è stato nel ‘900 un filosofo occidentale che più di ogni altro si è avvicinato a questa visione e il suo nome è Albert Camus, che – non a caso – di Jacques Monod fu intimo amico. Nel 1942 Camus pubblica per la prima volta Lo straniero, un romanzo in cui Meursault – il protagonista – incarna perfettamente il nonsenso e l’assurdità della volontà umana, più in balìa degli eventi esterni che di misurate deliberazioni personali. Meursault non sa se sta provando dolore per la madre appena scomparsa; non sa se vuole sposare Maria; non sa perché ha ammazzato il povero uomo arabo, per il cui omicidio è condannato alla pena capitale. Portato davanti al giudice, fa più scalpore la sua indifferenza verso il reato che il reato in se stesso. Meursault è l’uomo comune che agisce strozzato tra precise situazioni del vivere, mentre il mondo preme per ricevere una spiegazione delle sue azioni. Ma Meursault semplicemente non ha una risposta né può parlare per la sua volontà o presunta tale. È lo straniero di se stesso. È il primo imprevisto della sua vita. La sua storia appare tale e quale a una tombola in cui i numeri sono sì pescati a caso, ma nella condizione di possibilità assolutamente necessaria e improrogabile di dover pescare.
Un ritratto fedelissimo, seppur nell’angosciante ricostruzione letteraria esistenzialista, di quel che la vita è per ciascuno: una parentesi di emozioni, evoluzioni, affanni e trasformazioni comprese tra la nascita e la morte, due eventi inalienabili accaduti forse per caso, forse per necessità, forse per una convergenza finissima di entrambi, mentre la biscia della libertà s’insinua e aggroviglia subdolamente al viticcio dei giorni a disposizione per ciascuno.
“Christmas DNA” by Mukumbura is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA ENDOXA SETTEMBRE 2022 Silvia D'Autilia STRANIERI A NOI STESSI