DIRITTO, ESTRANIAZIONE, APERTURA
PIER GIUSEPPE PUGGIONI
- Porte e chiusure: confinazione
Al fenomeno giuridico, in ogni sua espressione, appare connessa la dinamica del confine, o –potremmo dire – della ‘confinazione’, termine con cui mi riferisco alla costituzione del confine, al tracciamento di una linea. Tale caratteristica denuncia una delle più importanti funzioni storicamente assunte dal dispositivo giuridico: l’unione, l’edificazione della società, mercé la separazione di ciò che altrimenti – si ritiene – nuocerebbe a essa. Non sembra del resto un caso che al diritto, come ricorda Umberto Santarelli, ci si riferisca spesso con termini, quali regola e norma, afferenti al campo semantico della geometria e dei sistemi di misurazione. La giuridicità, infatti, si manifesta attraverso linee che stabiliscono il metron, ossia la ‘misura’ in base alla quale si può dire che al compimento di certe azioni facciano seguito conseguenze deontiche determinate.
Cosa accade, però, a ciò che si colloca al di là (al di fuori) di questa linea? E, ancora, che rapporto si istituisce fra l’‘interno’ e quanto si trova extra moenia juris? In parte, peraltro, si è già riflettuto su questo tema in un precedente numero di questa rivista (alludo al mio Un ‘drago’ al confine del diritto, nel numero 29 del 2021), ma è forse il caso di riprenderlo e affrontarlo seguendo un ragionamento in parte differente, che muove però, ancora una volta, dalla saldatura fra il diritto e la meccanica della confinazione.
Centrale, a questo riguardo, appare anzitutto la celebre immagine della “porta” della legge dell’apologo kafkiano Davanti alla legge (confluito in F. Kafka, Il processo). La porta, infatti, suggerisce tra le altre cose la presenza di un varco, di una linea di confine che separa l’interno dall’esterno. È inoltre significativo, ai nostri fini, che tanto il guardiano quanto l’uomo di campagna si trovino all’esterno – e così anche gli altri custodi ai quali allude il primo, poiché anch’essi si troveranno davanti (vor) ad altre porte –, così come il fatto che quell’ingresso sia “destinato”, dice lo stesso guardiano, soltanto a quella persona. Ciò significa che al di là della porta, o all’interno, non si trova alcuno, sicché l’attenzione sembra dirigersi esclusivamente verso l’extra e verso l’estraneo, lo straniero: d’altronde, la presenza di un “uomo venuto dalla campagna” sembra alludere a chi arriva da un luogo esterno rispetto al contesto in cui ci si trova.
Si può notare, tuttavia, che questo ‘estraneo’ uomo di campagna è soggetto alla legge pur trovandosi al di fuori della porta. Anzi, si potrebbe dire che egli sia estraneo proprio in quanto costituito come tale in forza della legge stessa. Quando, infatti, il guardiano afferma che entrare “è possibile … ma per ora no”, pare quasi alludere a un insieme di regole, riconducibili alla stessa legge, che confinano l’uomo di campagna al di fuori di qualcosa che è “destinato” a lui. È dunque la legge a mantenere quell’uomo ‘straniero’ rispetto a qualcosa che altrimenti gli sarebbe ‘proprio’, e così, in questo senso, straniero rispetto a se stesso. La legge, insomma, isola lo straniero nell’illusione di una completa libertà (varcare la porta “è possibile”, dice infatti il guardiano), ma questa libertà assume le fattezze della “solitudine”, giacché “disponibile, liberato da tutto, lo straniero non ha nulla, non è nulla” (così J. Kristeva nel suo Stranieri a noi stessi ).
- Alienazione e annullamento
La dinamica giuridica che ho chiamato ‘confinazione’ serve, in sintesi, a costituire a un tempo il proprio e l’estraneo. Come osserva Bernhard Waldenfels, esattamente “il proprio nasce allorché qualcosa gli si sottrae” e quel qualcosa è “ciò che noi esperiamo come estraneo e strano”: l’atto di “tracciare un confine”, sottraendo e separando degli elementi, è indispensabile per la costituzione del soggetto, che dunque dipende dal sussistere dell’estraneità.
Un fenomeno analogo è quello ritratto nelle pagine marxiane dedicate al rapporto tra il lavoratore e il prodotto del lavoro. Nel processo produttivo proprio del sistema capitalistico, infatti, si assiste per Marx ad una crescente “svalorizzazione del mondo umano” in relazione diretta “con la valorizzazione del mondo delle cose”, realizzandosi così il meccanismo dell’alienazione o estraniazione (Entfremdung) descritto nel primo dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 . L’”oggettivazione” del lavoro nel suo prodotto finisce, infatti, per privare l’operaio stesso di qualcosa che, altrimenti, gli apparterrebbe (il prodotto del lavoro) e che invece “si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce”. In tal modo, afferma ancora Marx, la realizzazione del lavoro provoca “un annullamento dell’operaio”, il quale viene “derubato”, cioè privato di qualcosa. In effetti, a ben vedere, sembra proprio che sia questa privazione a costituire l’uomo quale operaio nel modo di produzione capitalistico. Se, cioè, non si desse tale estraniazione del lavoratore rispetto al prodotto, non ci troveremmo davanti a un ‘operaio’ stricto sensu, oppure non avremmo a che fare con il modo di produzione capitalistico, la cui legge (il diritto borghese) serve proprio a sancire e garantire tale separazione, al fine di preservare la proprietà privata dei mezzi di produzione su cui il sistema è fondato.
Il recupero della riflessione marxiana ci aiuta, in questa sede, a rimarcare attraverso un esempio l’idea che la costruzione del soggetto, e dunque dell’ordine che su di esso insiste, avvenga tramite la sottrazione alla sfera del proprio di qualche elemento, carattere, o attributo che viene costretto nello spazio, a un tempo vasto e angusto, dell’estraneità. Operando una sottrazione siffatta, il diritto sembra informare il soggetto riducendo l’individuo a qualcosa di ‘meno’ rispetto alle sue potenzialità creative. A questo riguardo, appare calzante il severo giudizio di William Godwin sull’effetto di uniformity prodotto dalla legge: “gli uomini – scrive Godwin – vengono ridotti ad uno stesso livello (common standard) dall’intervento del diritto positivo (positive law) in un modo così efficace che, in molti Paesi, essi possono fare poco più che ripetere, come pappagalli, quello che gli altri dicono”. Per il filosofo britannico, il maggiore inconveniente di questa circostanza risiede nel fatto che l’uomo viene privato della libertà di giudicare (free judgment) facendo appello al proprio intelletto (understanding), che nella prospettiva godwiniana costituisce “il solo principio legittimo per imporre su di lui qualunque dovere di adottare un qualsiasi tipo di condotta”. Privando l’uomo di questa facoltà, il diritto andrebbe dunque a sottrargli una parte di sé, estraniandolo rispetto alla possibilità di riconoscere in autonomia il proprio dovere morale.
- Brecce nel diritto?
Se, però, la legge e il diritto tendono ad operare in maniera funzionale all’istituzionalizzazione e alla protezione di questa ‘cesura’ tra interno ed esterno, tra proprio ed estraneo, davvero sarebbe inimmaginabile che essi possano lavorare in un senso differente, addirittura opposto? Non sarebbe, cioè, pensabile un meccanismo giuridico attraverso cui evitare o limitare l’operatività dell’estraniazione qui descritta? L’idea proposta e sostenuta da alcune importanti voci è che in effetti sia non tanto possibile, bensì necessario rendere il dispositivo giuridico ‘aperto’ alla messa in discussione della propria rigidità e della fermezza delle sue regole, al fine di ovviare, in tal modo, al pericolo estraniante insito nel processo di uniformazione.
Su di un primo versante, si prospetta la possibilità di un’apertura, per così dire, ‘verso l’alto’ nelle maglie dell’ordinamento giuridico, laddove si prospetta un diritto flessibile, malleabile e capace di adattarsi alla complessità della vita e alle sue molteplici manifestazioni, con la particolarità che il giudizio concreto o la decisione sulle singole situazioni sono demandati ad organi specifici o, comunque, a soggetti dotati di particolari caratteristiche o qualità. Si tratta della posizione avanzata dalla cultura neocostituzionalistica – dal Ronald Dworkin di L’impero del diritto al Gustavo Zagrebelsky di Il diritto mite –, che rimette al giudice il compito (e gli riconosce il potere) di applicare e ponderare i principi costituzionali senza che tale applicazione si risolva nell’impiego di rigidi schemi normativi predeterminati. È una prospettiva, peraltro, non troppo distante da quella che si presenta nel dialogo platonico sul Politico, dov’è soltanto “il vero uomo politico”, e non “un uomo qualunque o una qualsiasi moltitudine” a poter decidere sulla polis “in base alla tecnica, […] non curandosi delle leggi scritte quando gli paiano migliori cose diverse”. Abbiamo, pertanto, a che fare con un soggetto privilegiato, fuori dal comune, e verso il quale lo stesso Platone mette in guardia, ricordando – con un’immagine celebre – che “non viene emergendo nelle città un re quale cresce negli alveari, un individuo che spicchi immediatamente nel corpo e nell’anima”.
Dall’altro lato si collocano le concezioni che ancorano l’operare del diritto ad un insieme di relazioni nelle quali si assiste al riconoscimento spontaneo (che prescinde, cioè, dalla spinta coattiva) di limiti e doveri reciproci. Lo svolgimento e l’attività dell’ordinamento giuridico, in altre parole, si aprono verso il basso e si lasciano determinare dai rapporti su cui le norme stesse insistono. A questo filone possono senz’altro ricondursi l’Ehrlich dei Fondamenti di sociologia del diritto e Alessandro Levi con la sua Teoria generale del diritto. La notevole potenzialità che, ai fini del nostro discorso, possiamo registrare di questa linea di pensiero riposa sull’assunto che per tutti gli individui coinvolti nel funzionamento dell’ordine sia costantemente possibile mettere in discussione, appoggiandosi alla concreta realtà sociale, l’assetto esistente delle relazioni giuridiche, nonché, insieme a esso, il confine tra proprio ed estraneo che tali relazioni scolpiscono.
Ambedue le prospettive qui richiamate rappresentano percorsi attraverso cui sembra possibile superare l’impasse della confinazione e dell’estraniazione che le regole giuridiche producono. Pare tuttavia lecito chiedersi se accedere all’una o all’altra concezione significhi veramente rivedere e reinterpretare la fenomenologia giuridica. Se infatti, da un lato, è chiaro che postulare la flessibilità delle norme giuridiche o la loro subordinazione a certi tipi di rapporti sociali incide sul modo di concepire il funzionamento complessivo dell’ordine giuridico, dall’altro lato non sembra ovvio che la dinamica attraverso cui si stabilisce il destino del diritto (la decisione dell’organo designato, oppure il riconoscimento del proprio obbligo) debba ritenersi a sua volta ‘giuridica’. Si può, cioè, sostenere che l’apertura nel diritto, tanto verso l’‘alto’ quanto verso il ‘basso’, comporti la restituzione all’uomo della facoltà di giudicare (da intendersi non tanto come Urteilskraft nel senso kantiano, quanto piuttosto nel senso aristotelico del logos, quale capacità di discernere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto) al di là delle prescrizioni giuridiche. Tale facoltà, però, non entra necessariamente a far parte del dispositivo giuridico, che pertanto – si potrebbe sostenere – continua a funzionare secondo il meccanismo della confinazione.
Tale distinzione può forse apparire scoraggiante, in quanto sembra implicare che il processo di estraniazione dell’individuo rispetto a se stesso per mezzo del diritto non possa venire meno, non dandosi, in fondo, una vera e propria ‘trasformazione’ del paradigma giuridico che si è provato a descrivere. Non è, tuttavia, da escludere che concepire come esterni al diritto alcuni momenti e fenomeni rilevanti per la sua fenomenologia rappresenti più una ricchezza che un impoverimento. Può essere utile ricordare quanto sostiene Herbert L. A. Hart nel rigettare le tesi che prospettano un concetto “più ristretto” di validità giuridica, escludendo dal campo del diritto le norme “inique” che invece andrebbero incluse nel discorso giuridico. Il giurista inglese ritiene, infatti, “poco probabile” che quel concetto ristretto di validità giuridica “possa portare a un rafforzamento della resistenza al male, di fronte alle minacce del potere organizzato”. ‘Resistere’ al male, che significa anche mettere in discussione il rapporto di estraneità, sembra infatti possibile riconoscendo all’individuo – senza ‘delegare’ a tal fine l’ordinamento giuridico – la capacità di individuarla, l’autonomia nel valutarne la giustizia o l’ingiustizia e, così, la responsabilità delle conseguenze della propria valutazione. È chiaro, per un verso, che se tali dinamiche vengono concepite nella loro ‘esternalità’ rispetto al diritto, allora quest’ultimo finisce, come suggerisce una certa lettura del racconto kafkiano suggerita da Ilario Belloni, “per situarsi altrove, per essere altro-da-noi”. Ma questa prospettiva ha, per altro verso, il pregio di ritrarci in un rapporto dialettico con l’ordine giuridico, entro il quale – e, sovente, contro il quale – possiamo provare a lottare per non essere altro-da-noi-stessi.
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DIRITTO ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA ENDOXA SETTEMBRE 2022 Pier Giuseppe Puggioni STRANIERI A NOI STESSI