CONCLUSIONI RIPUGNANTI: IL MITO DI PALLADE ATENA
VOLFANGO LUSETTI

Un vecchio saggio di mia conoscenza soleva affermare: “Non venite al mio funerale, perché il cadavere puzza!”, affermazione paradossale ma veritiera, anche se poi, posto di fronte alla prova dei fatti, bisogna riconoscere che egli (a differenza del “santo monaco” di cui ci parla Fiodor Dostojewskij nei Fratelli Karamazov) si comportò bene.
Passando ad un esempio di “ripugnanza” completamente diverso, un mio conoscente piuttosto arguto fa delle affermazioni interessanti, la fondatezza delle quali non ho assolutamente la competenza per giudicare, ma che nel loro essere sferzanti sono molto suggestive. Egli afferma che esiste una correlazione che il popolo italiano proprio non sembra voler considerare: quella fra debito pubblico (in Italia uno dei più alti al mondo) e risparmio privato (anch’esso uno dei più alti al mondo); gli italiani, dice lui, proprio non vogliono trarre le dovute conseguenze da questa correlazione, per non dovere giungere alla “conclusione ripugnante” che la famigerata casta, che oggi tutti in Italia fingono di odiare e mettono in croce come un capro espiatorio, è la stessa che ha consentito agli italiani, assieme all’evasione fiscale di massa ed a costumanze di morale pubblica alquanto allegre e mai seriamente represse, quella spesa pubblica che è stata alla base dei loro enormi risparmi privati, pagati anche dai compratori del nostro debito sul piano internazionale: una correlazione, questa, che secondo lui non è invece sfuggita agli occhiuti banchieri tedeschi, i quali spesso vi fanno allusione, sia per stigmatizzare il comportamento irresponsabile degli italiani e dei loro governanti, sia soprattutto per ipotizzare il recupero del debito italiano attraverso un’espropriazione più o meno forzosa, tramite meccanismi sovra-nazionali, degli ingenti risparmi degli italiani stessi.
Una affermazione, poi, che possiede una sua dirompente veridicità, ma che è molto paradossale e sgradevole, riguarda quello che è il tema del presente articolo: il rapporto fra genitori e figli, e quello ad esso collegato del rapporto fra amore e predazione. L’affermazione in questione viene formulata attraverso un’espressione popolaresca piuttosto volgare, ma nondimeno assai spesso usata, dalle madri, in una regione d’Italia ricca d’arte, di armonia e di contrasti, le Marche: “Figlio mio, come ti ho fatto mi ti magno e poi mi ti ricaco!”
Lo stereotipo dell’amore genitori-figli, così fortemente alimentato dal Cristianesimo negli ultimi duemila anni, è poi smentito, oltre che dai proverbi popolari, da miti insospettabili.
Il primo di essi, molto conosciuto. È quello di Crono, il dio cannibalico per eccellenza, in quanto divorava i propri figli.
Anzitutto il nome: Crono, come si sa, significa “tempo”, per cui l’esegesi più diffusa, almeno fino a qualche tempo fa, voleva che si trattasse solo di una metafora: il tempo, come si sa, “divora i propri figli”.
Il fatto è, però, che il nome “chronos”, in greco arcaico, significa “corvo”, ed i corvi, sul piano etologico, sono degli autentici cannibali: o meglio, sono degli “spazzini di nidi altrui”, in quanto li distruggono sistematicamente per fare spazio ai propri. Il “dio-corvo” Crono, perciò, era un cannibale anche fuor di metafora.
Le cose andarono così: Gea istigò suo figlio Crono contro il proprio marito (e padre dello stesso Crono) Urano, il quale non aveva propriamente un buon carattere, e Crono evirò ed uccise Urano con un falcetto; Urano morente, però, predisse a Crono che i figli di quest’ultimo gli avrebbero riservato lo stesso trattamento, per cui Crono, preoccupatissimo, cominciò a divorarli ad uno ad uno via via che sua moglie Rea glie li sfornava. Rea a questo punto, furiosa, nascose l’ultimo nato, Zeus, e diede in pasto a Crono, al suo posto, un masso ricoperto da un panno, che restò com’è ovvio sullo stomaco a Crono; poi introdusse presso di lui, dopo qualche tempo, il piccolo Zeus con mansioni di coppiere, e questi con la scusa di alleviare il mal di stomaco del dio gli diede da bere un emetico, con il quale Crono rivomitò intatti tutti i figli che aveva divorato. A questo punto, però, Zeus lo detronizzò e vietò, pare, i sacrifici umani.
Ora, un punto interessante di questo mito, a parte il cannibalismo padre-figlio, è la funzione del sangue di Urano evirato da Crono: infatti le gocce di questo sangue che caddero sulla Terra (Gea), fecondandola, fecero nascere le Erinni, dee della vendetta contro matricidi e parricidi; le gocce, invece, che caddero in mare, generarono Afrodite (da afròs, spuma), dea dell’amore.
Questo mito, dunque, ci dice due cose.
Da un lato ci conferma il cannibalismo del padre sui figli, che in questo mito è del tutto evidente e visualizzabile dai figli stessi. Non così, come si vedrà, nel mito che segue.
Ma la seconda cosa è ancora più importante, ed è una tipica “conclusione ripugnante”: dal cannibalismo genitori-figli, e in particolare padre-figlio, nasce, quale reazione anto-predatoria e di rabbonimento, più che l’amore in senso stretto, l’elemento erotico rappresentato da Afrodite, la quale, oltre che dea della riproduzione e della fecondità, è dea seduttiva e manipolativa per eccellenza.
Il secondo mito che smentisce l’amore fra padri e figli, è molto diverso: si tratta di quello di Pallade Atena, della sua nascita e della sua crescita, nonché della sua vita da adulta. Qui infatti il cannibalismo padri-figli, pur presente in forma clamorosa, non è in prima istanza visibile come nel mito di Crono, e questo suo carattere occulto vanifica la difesa erotica contro il cannibalismo stesso, spingendo la vittima di quest’ultimo a sviluppare una reazione tutt’affatto diversa.
In questo mito, infatti, Atena sembra misteriosamente nascere non solo armata (diviene dea della guerra), non solo ipertrofica sul piano intellettuale (diviene dea della Sapienza perché la sua nascita avviene, misteriosamente, dalla testa di suo padre Zeus), ma anche vergine e pressoché a-sessuata.
Ma ecco il paradosso: in contraddizione con ciò, ossia malgrado questo suo carattere di vergine nata come combattente, sapiente ed a-sessuata, la dea pone fra i propri emblemi, enigmaticamente, accanto allo scudo e all’ulivo, all’elmo, alla lancia e all’egida di pelle di capra, un simbolo, il Serpente, il quale richiama inequivocabilmente proprio la sessualità.
Per spiegare questo paradosso, cominciamo dalla cosiddetta “egida”. Egida (dal latino aegis, che viene dal greco aix) è contemporaneamente lo scudo di Zeus, fatto del vello della capra Amaltea che aveva allattato e protetto da bambino il re degli dei, quando era minacciato di morte dal proprio padre cannibalico Crono (vedi sopra), e un capo di vestiario fatto di pelle di capra, di tutt’altra origine e significato, indossato da Atena.
Per la maggioranza degli esegeti del mito, l’egida era fatta di pelle di capra; però Eschilo la rappresenta come una nube posta sulla testa di Zeus al momento del tuono divino: aix, aigòs (capra) e kataigís (uragano), infatti, si assomigliano. Insomma, qui si oscilla fra due significati opposti: la protezione materna (la pelle della capra/balia Amaltea, protettrice del piccolo Zeus dal cannibalismo paterno) e la folgore di Zeus adulto, arma fallica e penetrante per eccellenza.
L’egida usata da Atena era spesso raffigurata come una corta corazza con le frange simulanti serpenti (e qui torna l’elemento invasivo sessuale), oppure come uno scudo magico, dove in alcune versioni, dal suo centro spicca la testa della Gorgone uccisa da Perseo (colei che pietrificava con lo sguardo), attorniata da Lotta, Paura, Forza e Inseguimento. Per traslato da quest’ultimo significato, che è quello di “corazza”, egida significa generalmente “protezione, difesa, riparo”.
Secondo un’altra versione del mito, però, l’egida era fatta, in realtà, della pelle di un caprone alato di nome Pallante, o secondo altri Pallade. Secondo questa versione del mito, Atena assunse il suo secondo nome, Pallade, proprio perché si vestì con la pelle di questo Caprone alato, il quale aveva tentato di violentarla; ora, il punto è che il caprone suddetto, secondo Scoli a Licofrone di Tzetze, 355, era anche suo padre.
Insomma, le qualità virginali e di netta ripulsa del sesso maschile proprie di Atena (che non ebbe mai figli né mai si sposò), le derivavano dall’esperienza di massiccia invasione, di predazione incestuosa e possesso totalizzante da parte di una figura paterna molto aggressiva ed animalesca, la quale determinò nella dea l’insorgere di un vissuto di annientamento cui dovette in qualche modo reagire: e lo fece, appunto, uccidendo e scuoiando (forse addirittura mangiando) questo padre violentatore.
Ancora, ad un’Atena così tratteggiata, malgrado la sua originaria connotazione virginale e casta, paradossalmente assomigliano le orgiastiche Mènadi (o “Baccanti”) del mito di Dioniso. Queste infatti, con il loro rivestirsi delle pelli di animali da esse stesse scuoiati e sbranati, non solo ci fanno pensare all’egida di Atena, ma ne vengono a loro volta illuminate di una luce sinistra: la storia di Atena e del caprone/padre Pallade da lei scuoiato, ci suggerisce infatti che anche gli animali sbranati e scuoiati dalle Mènadi, e della cui pelle esse si rivestivano al colmo dell’eccitamento sessuale nel corso dei rituali dionisiaci, fosse simbolicamente (e in precedenza forse anche materialmente) un qualche Padre, donde il loro travestirsi e proteggersi con quelle stesse armi cannibaliche maschili delle quali avevano fatto esperienza, appunto, “sulla propria pelle”. Ora, se ci si dà la pena di verificare questa ipotesi, si scopre puntualmente che in effetti Dioniso, il Bacco dei latini, ovvero quel dio che le Mènadi o Baccanti celebravano con i loro sanguinosi ed orgiastici riti, subito dopo la sua nascita era stato cannibalizzato da suo padre Zeus, il quale ne aveva addirittura inghiottito il cuore. Perciò le Mènadi devote a Dioniso, scuoiando e sbranando degli animali sacrificali che con ogni evidenza erano sostitutivi a livello simbolico di qualcun altro, non facevano altro che scuoiare e sbranare il sostituto simbolico di un padre: per la precisione, di un padre cannibalico (Zeus) contro il quale queste sacerdotesse della divinità filiale cannibalizzata (Dioniso) facevano ritualmente vendetta.
Resta tuttavia una domanda: cosa c’entra in tutto questo la sessualità? Perché mai le Mènadi si eccitavano nello scuoiare e sbranare degli animali, seppure simbolici e sostitutivi d’un padre stupratore? E perché la casta e vergine Atena, alla fine, pose fra i propri simboli, accanto all’egida simbolo dell’uccisione del padre stupratore e della protezione da lui, proprio il serpente, che è viceversa un simbolo di una sessualità predatoria subdola ed insinuante? Insomma, perché mai la vergine Atena del mito greco avrebbe fatto propria, con il serpente, la sessualità predatoria paterna dopo averla così crudamente subìta e così ferocemente combattuta, laddove all’inverso nella tradizione giudaico-cristiana la progenie della donna è destinata a schiacciare il capo del serpente che le insidia il tallone?
Ora, a queste domande risponde forse un curioso rituale sumerico scoperto da Leonard Wolley in un antichissimo fregio. Quest’ultimo raffigura un “Capro” (forse in origine un Capro Espiatorio?) che violenta sessualmente un Albero, si presume da tergo (da tergo perché l’Albero è un frequentissimo simbolo paterno, dunque maschile), e lo fa vestito d’una strana “gonna a balzi” riproducente delle foglie. Qui siamo insomma di nuovo alle prese, esattamente come nel mito di Atena che si veste con l’egida (o pelle) di Pallade, con l’allegoria di una “vestizione”: questa volta, con le pelli d’un padre ucciso (l’Albero), presumibilmente da un figlio che è anche un “Capro espiatorio”: un figlio il quale con ogni evidenza ha ribaltato la situazione sacrificale originaria, sacrificando lui stesso il sacrificante paterno. Questo figlio/Capro avrebbe dunque fatto ciò scuoiando il padre, poi rivestendosi della sua pelle (metaforicamente le foglie sono la pelle dell’Albero), ed aggiungendo all’atto cannibalico compiuto, uno sfregio ed un eccitamento sessuale il quale rappresentava evidentemente una forma di sessualizzazione della predazione cannibalica stessa. Vedremo più oltre cosa quest’ultima espressione significhi di preciso.
Ancora, nel primo volume del trattato di Storia delle Religioni di Pietro Tacchi Venturi, UTET 1939, al IV Paragrafo del III Capitolo, dedicato agli indiani del Messico e dell’America Centrale e redatto da Camillo Crivelli, alla voce “Sacrifizi”, si parla dell’usanza di uno scuoiamento rituale in onore della dea Xipe, protettrice degli orefici (spesso assimilati ai maghi); in esso il sacerdote, dopo aver scuoiato vivo il sacrificando, si rivestiva della sua pelle.
Infine, nel mito sumerico della Caduta dell’Uomo (un mito nato dunque nello stesso ambiente culturale del fregio raffigurante la “Caprificazione dell’Albero”), un Giardiniere di nome Tibirra viene cacciato da un Giardino a lui affidato, anche qui perché si era fatto un vestito con delle foglie ricavate da un misterioso Albero.
Ora, tutto questo ci suona, a questo punto, alquanto familiare: richiama infatti alla mente, nel suo raffigurare un rapporto antagonistico fra figure “filiali” e figure “paterne”, per un verso l’episodio biblico del mancato sacrificio di Isacco da parte di suo padre Abramo, e per un altro, un’altra celebre narrazione biblica: quella della vestizione con foglie di fico da parte di Adamo, ufficialmente “per vergogna”, subito dopo avere sottratto, anche lui, da un misterioso Albero, il famoso “Frutto Proibito” su istigazione di una donna, a sua volta istigata da un misterioso Serpente. Significativo, poi, il fatto che in un altro passo biblico, per la precisione in Genesi 3. 10, 11, si parli a proposito della vestizione di Adamo ed Eva, di un vestito fatto di pelli e non di foglie: Dio-padre stesso, per la precisione, riveste Adamo con queste pelli, “per misericordia”, sostituendo con esse le precedenti foglie. Perciò ricompaiono, anche nella Genesi, al posto delle foglie, le pelli delle Mènadi sbranatrici di animali sacrificali, quelle di Pallade Atena scuoiatrice di suo padre, e quelle della vittima sacrificale azteca indossate dal sacerdote officiante il rito. Insomma, l’episodio raffigurato nel fregio sumerico rinvenuto da L. Wolley e denominato da Robert Eisler, nel suo Uomo-lupo, con l’espressione “Caprificazione dell’Albero”, se raffrontato con questi altri elementi mitologici appartenenti a tradizioni distanti fra loro migliaia di chilometri e anche migliaia di anni (il rito atzeco è stato scoperto attorno al sedicesimo secolo d. C., quello sumerico risale a più di mille anni A. C.), sembra mostrarci l’altra faccia, quella nascosta, della “vergogna” di Adamo dopo il Peccato Originale e che lo spinse a ricoprirsi di foglie/pelli: un eccitamento sessuale, a carattere orgiastico e quasi maniacale, e comunque perverso e sado-masochistico, delle Mènadi, stranamente collegato da un lato al tema della vestizione con le pelli (si vedano la perversione feticistica, quella travestitistica e la sado-masochistica Venere in pelliccia di Rubens raffigurante Helène Fourment), dall’altro ai tema del cannibalismo padre-figlio e del parricidio.
Che dunque, sotto il mito biblico del Furto del Frutto proibito e della conseguente vergogna, non si nasconda per caso un parricidio corredato da atti di cannibalismo e di stupro, quindi di eccitamento sessuale perverso? Anzi, per essere più precisi, un parricidio in tutto e per tutto reattivo ad un tentativo di figlicidio e/o di stupro rituale paterno ai danni del figlio?
E che, per caso, l’altra faccia della pudica vergogna (e della depressione sua sorella), non siano il cannibalismo (cosa peraltro già intuita, seppure in modo diverso, da Freud e da Abraham) e la perversione sessuale sado-masochistica, più o meno veicolata da un comportamento di tipo orgiastico e maniacale?
Ma il mito di Atena ha implicazioni ancora più complesse, le quali vanno ben oltre al tema della vestizione con l’egida, e convergono in tutto e per tutto con quelle del mito di Crono.
C’è da porsi anzitutto, di fronte ad una Atena che, secondo una seconda versione del mito, nasce armata di tutto punto dalla testa di suo padre con l’aiuto dell’ascia di Efesto (che aveva fissurato con un colpo il cranio del re degli dei), una domanda più che ovvia, che però in genere ben pochi si fanno, nel citarlo: “cosa mai ci faceva Atena nella testa di Zeus? Come ci era finita?”.
Ora, la risposta a questa domanda è assai semplice: secondo questa seconda versione del mito di Atena, ben più conosciuta della precedente, e nella quale la dea non era figlia del caprone alato Pallade bensì di Zeus, essa era nata dalla testa di quest’ultimo ma non certo perché Zeus l’avesse concepita mentalmente, o per partenogenesi (come pure molti dicono), ma per un altro motivo.
Zeus, per concepire Atena aveva fecondato, violentandola, la titanessa Meti, e successivamente, quando quest’ultima era rimasta incinta di Atena, il re degli dei, non conoscendo ancora, malgrado la sua onniscienza, il sesso del nascituro, si era spaventato di fronte ad una profezia profferita da sua nonna Gea, della quale non aveva tenuto conto violentando Meti, e che era in tutto analoga alla profezia fatta da Urano morente a Crono: Gea gli aveva predetto che il primo figlio maschio di Meti sarebbe divenuto più potente di suo padre.
Perciò Zeus al fine di prevenire, esattamente come suo padre Crono di fronte alla profezia di Urano, la nascita di figli maschi per lui pericolosi e antagonistici, per non saper né leggere né scrivere aveva divorato Meti ancora incinta di Atena, non sapendo ancora che lo era solo di una femmina. Ma con ciò Zeus da un lato aveva mostrato di essere tutt’altro che onnisciente, dall’altro aveva scavalcato di colpo la funzione protettiva della madre. Zeus, in particolare, aveva trasmesso alla figlia il proprio cannibalismo, ma lo aveva fatto non direttamente, bensì attraverso la madre divorata, ossia, in senso metaforico, attraverso il punto di vista di quest’ultima. Ma con ciò aveva impedito alla figlia di sviluppare in proprio delle difese contro il cannibalismo del padre (impedendole di visualizzarlo direttamente), che fossero di tipo erotico, quindi analoghe a quelle di Afrodite nata dal sangue di Urano evirato.
Insomma, Zeus trasmise ad Atena ancora nel ventre di sua madre una carica predatoria maschile e paterna di grande entità e violenza, per di più invisibile ed occulta (un cannibalismo a carico della madre e per lei invisibile), ma soprattutto tale da non consentire alla madre stessa alcuna difesa di tipo erotico. Perciò alla figlia non era rimasto altra difesa dello “armarsi di tutto punto” e del desessualizzarsi, nonché dell’aguzzare l’ingegno e la preveggenza per difendersi a tempo dai predatori, divenendo così guerriera, sapiente e vergine per vocazione.
Ma occorre ancora parlare dello strano e ambivalente rapporto di questa dea vergine, sapiente e guerriera con quel serpente che è così frequentemente il simbolo della sessualità.
Secondo quanto racconta lo Pseudo-Apollodoro, lo zoppo Efesto (il latino Vulcano) tentò di unirsi sessualmente ad Atena (cfr. Igino, Fabulae, 166; Apollodoro, Biblioteca, III, 14, 6), ma senza riuscirci, non si sa bene se per sua imperizia o per la reazione violenta della dea: questa infatti provava, come ormai sappiamo, una ripugnanza invincibile per ogni individuo di sesso maschile, e ancor più la provava, ovviamente, per uno così brutto come Efesto (dio che il consesso degli dei, alla fine, assegnò d’autorità come marito alla povera Afrodite, la quale pensò bene di tradirlo immediatamente con il più prestante Ares, dio della guerra).
Il seme di Efesto destinato ad Atena si sparse allora al suolo, almeno secondo una delle versioni del mito, e fecondò al suo posto Gea, la grande Madre Terra (proprio come le gocce del sangue di Urano avevano fecondato la Terra generando le Erinni), facendole concepire il mostruoso Erittonio, bimbo dalla testa e dal busto di essere umano e dal resto del corpo a forma di serpente. Il nome di questi deriverebbe da ἒρις èris (contesa) e χθών kthòn (terra), forse ad indicare la sua nascita mostruosa ed ibrida da una contesa fra l’aspetto predatorio maschile (rappresentato da Efesto che tenta di violentare Atena) e la difesa femminile di tipo matriarcale (rappresentata da Gea che lo concepisce). Oppure, secondo altri, il nome deriverebbe da ἒριον èrion (la lana); infatti, una variante di questa versione del mito racconta che Efesto eiaculò sulla coscia di Atena, non riuscendo a penetrarla, ed Atena deterse immediatamente lo sperma di Efesto con della lana).
Atena però decise a questo punto, imprevedibilmente, di adottare questo mostruoso bambino/serpente, suo figlio mancato in quanto nato da Efesto e da Gea, confermando in ciò quella vocazione a proteggere l’infanzia che era propria di tutte le dee virginali ed amazzoniche eredi del matriarcato (vedi anche Artemide protettrice delle partorienti e dei bambini).
Comunque Atena, visto che il bambino nato dal dio zoppo Efesto e dalla Grande Madre Terra Gea era mostruoso, inorridita lo chiuse dentro ad una cesta e lo affidò alle tre figlie di Cecrope (Herse, Pandroso e Aglauro), avvisandole di non aprirla mai. Agraulo però, per la curiosità, la aprì, e alla vista dell’aspetto mostruoso di Erittonio impazzì assieme alle sorelle: si uccisero tutte e tre lanciandosi dall’Acropoli, o secondo Igino, in mare (replicando in ciò la duplice sorte del sangue di Urano di cui si è parlato sopra). Ora, questa vicenda, con il suo tragico epilogo, è un’allusione evidente al carattere invasivo e tossico sulla mente proprio della sessualità predatoria, quando essa viene percepita appieno a dispetto del suo rivestimento erotico: un carattere, quest’ultimo, che richiede appunto un arginamento “casto” e virginale quale quello messo in atto da Atena.
Ma cosa deriva, di preciso, questo carattere tossico della sessualità predatoria per il quale le donne che liberano il mostruoso uomo/serpente che la rappresenta impazziscono e si uccidono?
Il serpente, come vedremo fra poco, è forse un simbolo della sessualità umana perenne. Ma la sessualità perenne, con il suo mettere in contatto in permanenza gli esseri umani, trasmette anche la loro predazione (e lo si è ben visto con l’atteggiamento dei due padri putativi di Atena, Pallade e Zeus cannibalico); perciò una dea virginale come Atena, che non possiede alcuna difesa erotica dalla predazione poiché, a differenza di Afrodite, è casta e sommamente diffidente sia del maschio che delle figure paterne, se vuole evitare di impazzire e di morire, deve rinchiudere da qualche parte l’aggressione cannibalica e sessualizzata (quindi ancora più invasiva) che ha subìto.
Ma ecco, ora, il lato paradossale della faccenda. Erittonio, il mostruoso uomo/serpente, divenne in seguito re di Atene e introdusse molti cambiamenti positivi nella cultura ateniese. Suo nipote Eritteo, ad esempio, diede addirittura il nome ad una parte dell’Acropoli (l’Eretteo). E la ragione di questo fatto fu che durante il regno di Erittonio, Atena fu frequentemente al suo fianco per consigliarlo e proteggerlo, quasi a sancire un’alleanza politica della dea con la città di Atene: un’alleanza la quale evidentemente superava l’attivazione degli aspetti predatori del Serpente della sessualità perenne, utilizzandone i lati positivi e creativi. Questo è forse il motivo per cui Atena, avendo alla fine addomesticato quel Serpente che all’inizio aveva tentato di confinare in una cesta, oltre che essere divenuta la protettrice della arti e della città di Atena sua omonima, inserì fra i propri sacri simboli proprio il Serpente.
Insomma, sommo paradosso e seconda “conclusione ripugnante”, non solo amore e predazione sono fra loro inestricabilmente interconnessi, come ci insegnano Crono ed Atena, ma dalla predazione sessualizzata e dalle sue conseguenze “mostruose” (Erittonio metà uomo e metà serpente), nascono le arti e le lettere, la filosofia e le scienze.
E veniamo infine alla simbologia del Serpente: ci sono molti indizi che questo simbolo, così presente nel mito greco e nella mitologia universale a partire dal Peccato Originale, indichi la sessualità perenne della specie umana promossa dalla donna, ovvero l’evoluzione iper-sessualizzata prodottasi in una specie come la nostra, che è la sola in cui la femmina non va periodicamente in estro, ma è perennemente ricettiva al maschio; ciò quasi che abbia dovuto sviluppare una difesa di tipo erotico verso un qualche tipo di predazione, forse cannibalica (vedi ancora le gocce del sangue di Urano che cadute in mare generano Afrodite).
Si veda anche, a proposito della nascita della sessualità perenne nella nostra specie, l’ipotesi di Sarah Hardy, antropologa e primatologa, sul superamento dell’estro nella femmina umana come reazione alla predazione maschile verso la prole, e in sostanza come strumento di una sorta di “scambio sesso-contro-carne” finalizzato a salvare, in cambio di profferte sessuali al maschio predatore, la vita dei piccoli che attorniavano la femmina.
Quanto all’influenza della sessualità perenne sull’evoluzione mentale della nostra specie, a parte l’ovvia considerazione, già accennata, che un commercio sessuale continuativo aumenta a dismisura l’interscambio sociale, e per questa via la corticalizzazione di una qualsivoglia specie, si prenda ad esempio il mito della Kundalini indù: essa non è altro che un serpente il quale se ne sta accovacciato alla base della colonna vertebrale della donna, quindi assai vicino all’apparato riproduttivo femminile, e si dipana verso la testa a sviluppare le sue facoltà mentali, proprio come potrebbe aver fatto la sessualità perenne.
E su un altro piano il serpente come si sa rappresenta, ulteriore paradosso, la cura medica e farmaceutica contro le malattie.
Una curiosa controprova “moderna” di questa chiave interpretativa della vicenda mitologica di Pallade Atena, recentemente messa a fuoco da Francesco Marchioro nel suo Psicoanalisi e Archeologia – Freud e il segreto di Atena, è la seguente: Anna Freud, la figlia di Sigmund Freud, era com’è noto e ormai ammesso quasi da tutti gli studiosi, una lesbica praticante. In aggiunta a ciò, ella aveva vissuto tutta la sua vita quasi come una sacerdotessa del padre, del tutto dedita a lui, alle sue attività e al suo pensiero. Ora, la cosa curiosa è che Sigmund Freud la definì una volta, in una delle sue lettere, “perfetta”, cioè usò per lei lo stesso aggettivo che in una sua lettera, in precedenza, aveva usato per definire Pallade Atena, o meglio, quella statuetta, pare autentica, che la raffigurava e che custodiva gelosamente sul tavolo del proprio studio.
Insomma, non è poi così azzardata l’inferenza che anche Anna Freud fosse stata metaforicamente cannibalizzata dal padre, presumibilmente attraverso una non-protezione materna, proprio come la Atena del mito, e che sia stata precisamente questa, la “molla” che la spinse sin dall’infanzia ad ipertrofizzare le sue attitudini al pensiero teorico ed all’astrazione, come anche il suo rifiuto nei confronti dell’altro sesso.
È insomma la sommatoria del cannibalismo paterno e della predazione sessuale maschile con la mancata protezione di una madre lei stessa divorata, ciò che costringe le donne, e “in primis” colei che diverrà la dea della guerra e della Sapienza a “nascere dalla testa del padre”, per di più armate di tutto punto: ossia, in senso metaforico, le costringe ad ipertrofizzare precocemente le proprie doti “attive”, intellettuali e guerriere che siano, mutuandole dal sesso maschile e servendosene a loro volta contro di esso come di un’egida. Ciò in quanto il maschio predatore, se agisce attraverso un diaframma materno (e senza potere dunque essere chiaramente percepito dalla sua vittima), vanifica nella donna ogni possibile difesa sessuale, e le rende possibili solo difese di tipo percettivo, quindi reattivo guerresco ed intellettuale, oltre a generare il loro perenne rifiuto.
Ma quali sono, in definitiva, le conclusioni “ripugnanti” di tutto questo discorso?
Sono soprattutto due.
La prima conclusione “ripugnante” è quella che la sessualità, almeno nella sua forma umana perenne, può essere di per sé derivata dalla predazione cannibalica, e in particolare da quella che intercorre fra le generazioni (genitori-figli, e specificamente padre-figlio): ciò sia come reazione diretta alla predazione cannibalica stessa (vedi il mito della nascita di Afrodite e dell’eros dal sangue di Urano evirato dal dio cannibalico Crono), sia come sua trasmissione in forma sessuale perversa (si vedano le Mènadi divoratrici e scuoiatrici di animali sacrificali rappresentanti la figura paterna, con grande godimento sessuale nel rivestirsi delle loro pelli).
Questo forse, è il motivo più profondo del collegamento, nella narrazione biblica del Furto e del divoramento del Frutto Proibito, dei motivi della trasgressione predatoria contro il Padre, della sessualità perenne di origine femminile (il Serpente), e del conseguimento, insieme alla percezione della morte cannibalica, della Sapienza.
La seconda conclusione “ripugnante” riguarda proprio quest’ultimo punto, e ce la fornisce Atena: non solo le facoltà mentali umane nella loro interezza derivano dalla sessualità, come già Freud aveva intuito con il suo concetto di “sublimazione”, ma il conseguimento della sessualità perenne e la sua accettazione, sia p l’intelligenza simbolica ure in forma casta e “sublimata”, è l’unico elemento che consente di conseguire l’intelligenza simbolica, ossia quelle facoltà mentali tipicamente umane da cui nascono i più nobili prodotti della nostra mente.
In definitiva, è stato grazie alla predazione cannibalica dei genitori sui figli che la sessualità perenne è nata ed ha potuto svolgere quel ruolo di mediazione con la predazione stessa (e di sua trasmissione ubiquitaria!) che ha generato l’arte e la scienza, la filosofia e la poesia, la musica e la danza; ovvero, tutto ciò di cui Atene e l’Eretteo sono simboli.
Ma soprattutto, con un tale meccanismo, la spinta sull’evoluzione umana esercitata dal cannibalismo genitori-figli può avere generato ciò che ci dilettiamo a chiamare “amore”.
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