PAROLA SULL’ESTRANEO O PAROLA ALL’ESTRANEO?
FERDINANDO MENGA
L’ambiguità tra riconoscimento e obliterazione dell’estraneo, da me richiamata nell’Editoriale di questo fascicolo di Endoxa, produce una doppia tendenza contrapposta e antagonistica, con conseguenze di varia natura e intensità. Fascino e repulsione, ospitalità e ostilità, accoglienza e sospetto: sono queste le polarità con cui il fenomeno dell’estraneo è stato – e continua ancora tutt’oggi a essere – connotato. Peraltro, più questa ambivalenza si intensifica, più sembra acuirsi la confusione e affiora il sospetto di non esser stati mai in grado di cogliere fino in fondo i lineamenti e la portata di suddetto fenomeno.
È per questa ragione che il filosofo tedesco Bernhard Waldenfels, collocandosi proprio su tale terreno accidentato e scivoloso, ha più di qualche motivo per domandarsi se abbiamo davvero compreso cosa sia l’estraneo e se siamo in grado di parlarne in modo radicale e genuino.
Seguire pertanto – come mi propongo di fare nelle pagine a seguire – la sua traiettoria d’indagine può rivelarsi un percorso promettente.
Parlare dell’estraneo o dall’estraneo?
Una prima cosa per Waldenfels è certa: fintantoché ci ostiniamo a trattare l’estraneo come un ‘qualcosa’ o un ‘qualcuno’ di direttamente accessibile e definibile, insomma, come un’istanza che ci sta là di fronte senza troppi problemi, lo avremmo mancato fin dall’inizio. E questo dal momento che il nostro atteggiamento nei suoi confronti, indipendentemente dal fatto di essere caratterizzato da apertura o repulsione, resterebbe sempre e comunque imperniato su un discorso reattivo e, in fin dei conti, di stampo metafisico, secondo cui l’estraneità può essere sì ammessa, ma solo a patto di essere pensata a partire da una sfera del proprio che gode di indiscutibile precedenza ontologica e quindi di superiorità gerarchica. Con un tale atteggiamento filosofico, dunque, ciò che si imporrebbe e si troverebbe immancabilmente riconfermata è quella consolidata visione dell’esperienza, secondo cui l’estraneo, per quanto rappresenti un momento di destabilizzazione del proprio, è inevitabilmente destinato a cedere il passo a una riappropriazione finale in cui, in definitiva, viene a essere ristabilita la presupposta priorità d’essenza del proprio e la concomitante presunzione di muoversi in una totalità che tutto contiene.
Giusto per trarre qualche esempio da impostazioni filosofiche a noi non troppo lontane, un tale atteggiamento caratterizza la dialettica hegeliana, per la quale l’estraneità si presenta nei soli termini di “alienazione”, vale a dire di fase di passaggio in un processo di superamento dell’essere-estraneo e di riscoperta dell’esperienza intera sotto il dominio della appropriazione razionale. Ma questo è quanto avviene anche nell’ermeneutica gadameriana, il cui compito, nonostante i toni più sfumati rispetto al progetto hegeliano, resta comunque quello di un superamento dell’estraneità, ossia di un ripristino della comprensione, quale condizione originaria, in cui vige il dominio del senso da presupporsi evidentemente a ogni incomprensione che lo interrompe. Infine, il primato del proprio detta altresì le regole del gioco anche nell’impianto habermasiano, il quale, attraverso il presupposto di un logos comune, di un senso comune o anche di una ragione comunicativa, non ammette un’estraneità radicale, ma soltanto un estraneo relativo, che può, pertanto, già sempre potenzialmente rientrare nella strategia di un’inclusione ben riuscita. Fondandosi, così, su una reciprocità dei partecipanti garantita fin dall’inizio, la struttura comunicativa che Habermas ha sott’occhio, lungi dal somigliare a un vero dialogo fra proprio ed estraneo, è invece una struttura che funziona soltanto sotto l’egida del proprio, ossia come un monologo già strutturato, ma messo in scena sotto forma di dialogo.
Sennonché, l’avvertimento critico di Waldenfels consiste esattamente nel mettere in guardia rispetto al fatto che parlare di estraneo non significa avere a che fare con un deficit da rimuovere o con una fase transitoria, oppure ancora con una modifica della più o meno alterabile ma comunque già strutturata e consolidata sfera del proprio. Piuttosto, l’estraneo deve essere inteso come tratto costitutivo e radicale di ogni esperienza.
I diversi modi attraverso cui Waldenfels descrive l’affiorare di una siffatta “radicale forma dell’estraneità” sono riconducibili a questo: l’estraneo è da intendersi come un pathos originario che colpisce il proprio fin dall’inizio e che, perciò, sempre di nuovo vi si ripropone ogniqualvolta quest’ultimo si trova a subire un’alterazione, che lo porta fuori di sé. Si tratta, perciò, al riguardo, non dell’afferramento di un qualcosa o un qualcuno, bensì di una modalità vissuta di sottrazione, di subita espropriazione o di esperito dislocamento, che rendono impossibile al proprio – per riprendere un celebre adagio freudiano – l’essere “padrone in casa propria”.
Pertanto, l’inversione di prospettiva a cui richiama Waldenfels è tale per cui sarebbe errato presumere come condizione originaria un’esperienza del proprio saldamente in pugno, in cui, poi, di tanto in tanto e in modo estrinseco, avvenga anche qualcosa di estraneo. Corretto, invece, è ritenere esattamente il contrario, ossia che l’estraneo si annida nell’esperienza fin dal principio e, perciò, è tale da consentirle un’appropriazione senz’altro possibile, ma non per questo totale o negoziabile una volta per tutte.
Come è facile intuire, una tale connotazione radicale dell’estraneità porta non poco scompiglio nelle tradizionali e consolidate strategie del discorso. Infatti, se si tiene fermo il fatto che l’estraneo si manifesta solo là dove esso espropria, destabilizza ed eccede il proprio, la spinosa questione che immediatamente si pone è quella di capire come sia possibile renderselo accessibile senza tradirlo, dacché tanto un rivolgimento intenzionale nei suoi confronti quanto una sua tematizzazione, oppure ancora una pianificazione su di esso, finirebbero per metterlo semplicemente in scena, privandolo così, fin dal principio, del suo costitutivo “pungolo”.
Insomma, qui pare annunciarsi un dilemma inestricabile: o si parla dell’estraneo e lo si trasgredisce necessariamente, visto che si rende presente ciò che, invece, è detto contraddistinguersi per la sua sottrazione al proprio; oppure, in esplicita osservanza di tale suo carattere di sottrazione, ci si guarda bene dal parlarne.
Eppure, davanti alla secca alternativa fra un dire troppo e un dire nulla sarebbe il caso di arrestarsi solo se con essa si fosse esaurita davvero l’intera estensione del fenomeno dell’estraneo e del suo (im-)possibile discorso. Ciò, tuttavia, non corrisponde in alcun modo alla realtà dei fatti, poiché Waldenfels avverte che una possibilità altra e genuina di indirizzarci all’estraneo esiste ed è altresì rintracciabile, a condizione però che si smetta di parlare dell’estraneo e, invece, si rivolga il pensiero verso un discorso che comincia a “parlare a partire dall’estraneo”.
Dal soggetto agli ordini dell’esperienza
Per quanto concerne l’intercettazione del motivo dell’estraneo nei termini di sottrazione originaria, differimento e non-coincidenza costitutivi inerenti al proprio, Waldenfels non si avvale di fini descrizioni speculative, che non trovano riscontro nella realtà fenomenica. Al contrario, quale fenomenologo radicale, dedito a descrivere ‘le cose stesse’, si rivolge, innanzitutto, a dimensioni decisive dell’esperienza che appartengono alla vita di ciascuno di noi. La prima di queste dimensioni è costituita dall’esperienza temporale, che rimanda al fatto originario della nascita quale “passato che non è stato mai presente” (Lévinas) e che, per questo, mai potrà essere trasformato in un’esperienza propria. Lo stesso dicasi dell’esperienza del nome proprio che ciascuno di noi porta quale “marchio” attribuito da altri. Ancora, la medesima estraneità è implicata nel fatto innegabile che mi è stato parlato prima ancora che io potessi parlare ad altri. Questa condizione primordiale si mostra poi essere sia la base genealogica di ogni genuina esperienza intersoggettiva fondata su una costitutiva esposizione del sé all’altro, sia quella dell’esperienza di apprendimento di una lingua straniera, la quale, evidentemente, non comincia fra i banchi di scuola, bensì con l’apprendimento stesso della propria lingua madre. E infine, per citare un ultimo esempio d’intervento dell’estraneo in seno alla vita più propria e intima, c’è da rimandare all’esperienza dello sguardo allo specchio, nel quale ci vediamo “con occhi estranei” e di fronte al quale, perciò, ognuno di noi esperisce un ineliminabile momento di non riconoscimento, di titubanza, di sorpresa o anche di spavento. Esperienze, queste, inconcepibili se – come afferma Waldenfels – “‘io’ fossi semplicemente ‘io’ oppure se potessi tornare completamente in me stesso”. In questo caso, più che mai pertinente è il rinvio di Waldenfels al celebre refrain di Rimbaud: “JE est un autre”.
Sennonché, quest’esperienza dell’estraneo come esperienza di intrusione originaria – così la chiamerebbe Jean-Luc Nancy – Waldenfels non la limita soltanto alla microsfera del proprio, quale soggetto singolo, ma la estende anche alla macrosfera del proprio, che si identifica con i vari ordini del mondo nei quali è inscritto e si rende intelligibile ogni nostro vissuto. Tutti gli ordini del mondo – siano essi di carattere sociale, culturale o politico-istituzionale – sono, infatti, originariamente abitati dall’estraneità nella misura in cui, attraverso il loro costitutivo operare contingente e selettivo, “lasciano apparire qualcosa così e non altrimenti”. In tal modo gli ordini si rendono possibile, accessibile e proprio qualcosa, rendendosi contemporaneamente impossibile, inaccessibile ed estraneo qualcos’altro. Ogni ordine, in cui appare e si struttura di volta in volta un mondo, è, in altri termini, costituito da un tracciamento di confini inclusivi e simultaneamente esclusivi. Esso determina una sfera interna, ponendone immancabilmente anche la possibilità dell’oltrepassamento. In tale contesto, l’estraneo si caratterizza come ciò che costitutivamente “sfugge alla presa dell’ordine” e si presenta come l’extra-ordinario che eccede, travalica e così mette costantemente in questione l’ordine stesso, tenendone viva l’originaria contingenza e l’impossibile onnicomprensività. Ne consegue che nessun ordine, in quanto originariamente abitato dall’estraneo, può possedere sé stesso nella sua totalità o risalire a un momento fondativo assolutamente proprio, che gli consenta l’esibizione di un possesso esclusivo di se stesso e, con ciò, anche la possibile giustificazione di un “autismo comunitario” – come lo definirebbe Rada Ivekovič – chiuso a ogni confronto con l’altro o sorpresa per mezzo dell’altro. Ed è esattamente in questa sorpresa, ovvero nella possibilità sempre aperta del suo sopraggiungere, che il proprio non smette mai di fare i conti con quell’estraneo che già sempre lo abita.
Rispondere all’estraneo
Dopo questa digressione, che ci ha consentito una più compiuta descrizione dei lineamenti fondamentali dell’estraneità, possiamo ora tornare alla questione lasciata in sospeso concernente la possibilità di un genuino accesso discorsivo a tale fenomeno. Come parlare, insomma, dell’estraneo?
Come già accennato, la soluzione che Waldenfels prospetta per superare l’ostacolo rappresentato dall’alternativa fra un discorso che destituisce l’estraneo prima ancora di dargli voce e un mutismo ossequioso che, per troppo rispetto, neppure lo fa entrare in scena, si concretizza in un peculiare gesto del pensiero, che si rende capace di compiere il passaggio da un parlare dell’estraneo a un parlare dall’estraneo.
Ma dove si realizza – posto che si realizzi – un tale parlare a partire dall’estraneo? Ebbene, la risposta di Waldenfels, al riguardo, è tanto semplice quanto ricca di implicazioni, poiché ci avverte che un siffatto impianto di discorso si trova già sempre realizzato nell’esperienza ogniqualvolta prendiamo le mosse da quella richiesta, appello, provocazione o ingiunzione con cui l’estraneo di volta in volta si annuncia, costringendoci a rispondere.
Per cui, se ci chiediamo qual è il luogo del discorso in cui l’estraneo si rivela senza essere destituito e stravolto, questo luogo – ci dice Waldenfels – è (per riprendere il titolo di una delle sue opere principali) il “registro della risposta” (Antwortregister, 1994). “Rispondere significa parlare a partire dall’estraneo”, così scrive Waldenfels in modo semplice e pregnante.
Se si approfondiscono i motivi per cui Waldenfels rintraccia proprio nella risposta quel logos in grado di portare genuinamente ad espressione l’estraneo, ci si imbatte immediatamente nel carattere contemporaneamente originario e ritardato dell’atto responsivo. L’originarietà della risposta fa capo al fatto che l’estraneo, nel suo manifestarsi solo attraverso la sua sottrazione, non ha altro spazio di apparizione se non la risposta stessa che esso sollecita. L’estraneo cioè non appare se non come il “ciò a cui” il rispondere si rivolge. Il ritardo della risposta, invece, fa riferimento al fatto che questa “non prende le mosse da se stessa, ma piuttosto da altrove”, ossia dalla previa provocazione dell’estraneo. Perciò, la risposta, lungi dal costituirsi come luogo di dominio sull’estraneo, si rivela, al contrario, essere luogo che ne vive costantemente il pathos. Detto altrimenti, la risposta, nel suo ritardo, mostra i tratti di quell’imprescindibile passività che connota l’originaria irruzione dell’evento estraneo inanticipabile da parte di una qualsivoglia strategia di pensiero da parte del proprio e, nella sua originarietà, garantisce nondimeno l’accesso alla richiesta dell’estraneo, altrimenti inacquisibile. Il che, naturalmente, non vuol dire che la risposta anticipi e così neutralizzi l’estraneo che la provoca. Al contrario, significa che la risposta, benché unico luogo in cui l’evento estraneo può rivelarsi, parte già sempre in ritardo, per cui non può che affidarsi a un accesso inevitabilmente indiretto all’estraneo. Insomma, in termini che possono forse suonare paradossali, si può affermare che l’estraneità originaria è tale proprio perché non si lascia mai anticipare in alcun accesso diretto, ma si manifesta sempre e soltanto nel ritardo della risposta, cioè nel fatto che l’estraneo, col suo appello, provoca la risposta nella quale solamente compare.
Inoltre, la risposta ha il carattere della limitatezza. Infatti, ogni risposta, giungendo già sempre troppo tardi rispetto alla provocazione che la mette in moto, non può mai esaurire l’estraneo a cui risponde e, perciò, meno ancora può sottrarsi alla costante apertura a successive provocazioni e a ulteriori risposte. Dunque, laddove c’è estraneo, c’è richiesta di risposta e laddove c’è risposta provocata dall’estraneo, questa risposta non può esaurire ciò che l’ha provocata proprio per il fatto che essa è messa in moto solo attraverso tale sollecitazione. In tal modo, il confronto con l’estraneo non assurge mai a risposte definitive, bensì resta sempre aperto a ulteriori spazi di risposta; e ciò accade ogniqualvolta nuove ingiunzioni dell’estraneo provocano nuovi confronti e rinegoziazioni.
Il carattere d’inevitabilità della risposta si riferisce, invece, alla situazione per cui la risposta non può anticipare ciò che la provoca, cioè l’estraneo; e, non potendolo evitare, è già sempre costretta a rispondere nel momento in cui viene provocata. Anche un rifiuto di risposta risulta essere un modo di rispondere all’estraneo. Quest’ultima annotazione non è affatto marginale, se cominciamo a pensare ai possibili risvolti all’interno dei contesti socio-politici, in cui il silenzio di fronte all’appello dell’estraneo, o anche il passare sotto silenzio l’appello stesso, risulta essere una vera e propria strategia (più o meno consapevolmente) perseguita e carica di effetti.
Il carattere dell’asimmetria della risposta consiste nel fatto che la relazione fra proprio ed estraneo non può essere mai genuinamente colta a partire dallo sguardo di sorvolo di un terzo. Non c’è alcun punto di vista neutrale, tale da essere davvero transculturale o universale e a partire da cui si possa disporre di proprio ed estraneo prima dell’evento di risposta, rendendoli così confrontabili, misurabili o interscambiabili. Piuttosto, la relazione fra proprio ed estraneo si dà esclusivamente nella risposta stessa, cioè soltanto nel rispondere del proprio, il quale si mette in moto in ritardo a partire dalla richiesta dell’estraneo. Si capisce bene, allora, cosa voglia dire asimmetria in questo contesto: esattamente che il proprio, non avendo a disposizione nessun luogo d’anteriorità rispetto alla provocazione dell’estraneo, non vi si può mai mettere alla stessa altezza e, con ciò, rendersi simmetrico. La portata dell’asimmetria mostra la sua piena rilevanza proprio se contestualizzata nel discorso interculturale, in cui si verifica pressoché sempre il tentativo di eliminarla, e ciò mediante la ben nota strategia di spacciare per luogo terzo e neutrale del dialogo quel luogo che, invece, a ben guardare, non si identifica che con il luogo in cui il proprio (e non l’estraneo) è di casa. Il risultato di questa strategia è che l’appello dell’estraneo, più che accolto, viene già sempre eliminato, in quanto costretto a rientrare fin dall’inizio in uno spazio di risposta precostituito, standardizzato, preconfezionato a misura della cultura del proprio. L’accoglimento del genuino carattere asimmetrico della risposta ci avverte, invece, del fatto che tale luogo terzo e neutrale – nel quale il proprio e l’estraneo verrebbero resi simmetrici – non esiste affatto, bensì è già sempre inscenato dal proprio.
Ma, a questo punto, si pone la domanda: come evitare questo primato del proprio, se ogni risposta procede comunque da esso, sia che lo si consideri come luogo presuntuosamente neutrale sia che lo si pensi, viceversa, a partire dall’accoglimento della condizione d’asimmetria? A ben guardare, per questo dilemma non esiste soluzione definitiva. L’unica via d’uscita consiste in una pratica storica e contingente dell’asimmetria, la quale procede proprio dalla consapevolezza che la seduzione a scambiare il luogo proprio per luogo assoluto e neutrale resta sempre latente. Questa consapevolezza, però, non è una magra consolazione. Tutt’altro: essa è l’unica che consente di mantenere fluido o poroso lo spazio del dialogo interculturale e di tenere alta l’attenzione rispetto a necessari ripensamenti circa i contesti di accoglienza degli appelli dell’estraneo. Detto altrimenti e con estrema semplicità, c’è una bella differenza fra un atteggiamento responsivo da parte del proprio che propina all’estraneo di turno, quasi automaticamente e autisticamente, un modulo di risposta standardizzato (e pretenziosamente universale), e un atteggiamento di risposta del proprio che, invece, partendo dall’irrecuperabile precedenza della richiesta o dell’ingiunzione estranea, si confronta di volta in volta con ciò che l’estraneo chiede, tenendone sempre aperta la possibilità relazionale.
L’ultima caratteristica della risposta è il carattere creativo. Esso fa segno alla situazione per cui la risposta, essendo messa in moto a sorpresa – ossia dalla richiesta estranea inanticipabile e, perciò, imprevedibile –, parte già sempre da una certa impreparazione e, dunque, da una seppur minima necessità d’invenzione. Come si può intuire, il carattere di creatività della risposta discende, dunque, dall’impossibilità da parte di ogni ordine proprio di poter assurgere a un fondamento universale e transculturale, tale da consentirgli l’elaborazione di una pratica definitiva con l’estraneo. Se ci fosse, infatti, una simile universalità transculturale, tale da collocarci tutti sotto un comun denominatore, ci si potrebbe richiamare costantemente a essa e ogni creatività di risposta risulterebbe già sempre superflua. In altri termini, l’esistenza di una tale transculturalità coinciderebbe con il raggiungimento di una risposta ultima, oltre la quale non si potrebbe andare e che, perciò, più che risolvere il problema della relazione fra proprio ed estraneo, lo dissolverebbe, dal momento che ogni differenza verrebbe ridotta a nient’altro che a una mera variante su un tema prefissato e onnicomprensivo.
L’impostazione responsiva di Waldenfels, invece, conduce esattamente all’esito opposto, in quanto ci avverte che, nella misura in cui ogni nostro parlare e agire comincia da un appello estraneo, allora resta esclusa sia la possibilità di impadronirsi di una “parola prima”, sia la possibilità di terminare con l’acquisizione di una “parola ultima”. Detto altrimenti, se “in origine era la risposta” (Antwortregister, p. 270), ogni discorso, lungi dall’esser padrone del suo inizio e della sua fine, non può far altro che rilevare il fatto che “noi ci troviamo sempre nel mezzo”. Siamo sempre cioè nel periplo delle risposte, in quello che Maurice Blanchot chiamerebbe un entretien infini.
Certamente, in modo incisivo e altamente persuasivo si presentano, oggigiorno, i diversi tentativi di risposta ultima avanzati sia da discorsi istituzionali che mirano a un ordine globale, sia anche da progetti assolutistici di stampo neonaturalistico, i quali cercano di ricondurre, in vari modi, gli aspetti di differenza e le fonti d’estraneità dell’umano a una base d’invarianza universale di tipo neuro-fisiologico. Eppure, una tale risposta risolutiva, che pretendesse di imporsi come nuovo discorso metafisico totale, più che accomunare finalmente l’umano attorno al suo più vero e unico fulcro, a ben vedere, finirebbe per mortificarne il significato più genuino, il quale è radicato proprio nel carattere storico e culturale, nonché plurale, dei suoi vissuti.
Pertanto, volendo concludere, non ci risulta affatto difficile comprendere i motivi per cui Waldenfels combatte con forza l’idea di un mondo umano senza più traccia d’estraneità. Difatti, come egli stesso sostiene, “a colui il quale nulla d’umano risultasse più estraneo, a costui risulterebbe estraneo l’umano stesso” (Verfremdung der Moderne, p. 8).
“L’incontro” by Luana Spagnoli is licensed under CC BY-NC-ND 2.0.
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