IL BENE È IL TUTTO
SAVERIO MARIANI
Per affrontare la riflessione che vorrei proporre, e per onestà, dobbiamo partire da una constatazione che appare molto semplice e, tuttavia, è decisiva: se non avessimo l’opportunità di dire cos’è bene e cos’è male per la nostra vita, probabilmente non riusciremmo a sopravvivere. È infatti solo capendo cos’è buono per noi – nel tentativo di attirarlo dentro le nostre esistenze – e ciò che è male per noi – cercando al contrario di espellerlo dalle nostre vite –, che possiamo impostare uno stile di vita che possa dirsi “sano”. A quest’idea dovremmo avere un’adesione spontanea molto vicina al cento per cento.
Eppure una parte del pensiero filosofico occidentale – per lo più quello che si è posto a una certa distanza dalla tradizione religiosa (in questo momento penso soprattutto a Spinoza e a Deleuze, ma ce ne sono anche tanti altri) – ci ha insegnato che bene e male si dicono solo in maniera relativa, mai assoluta. Scrive Spinoza nel suo Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene che “bene e male non esprimono altro che una relazione” (KV I, 10). Essi, continua il filosofo olandese, sono enti di ragione e non enti reali. Inoltre ciò che è bene per noi assomiglia sempre più a ciò che ci è utile, e ciò che è male per noi ricalca i caratteri di inutilità. Bene e male “(come, ad esempio, la bontà di Pietro e la cattiveria di Giuda) non hanno alcuna definizione al di fuori dell’essenza di Giuda e di Pietro”, conclude Spinoza. Infatti, dire che qualcosa è di per sé bene, o male, significa connotare moralmente un ente nel suo statuto ontologico.
Quest’ultimo è il procedimento che mette in atto ogni ideologia, religione e pensiero includente in quanto escludente – ovvero una forma del pensiero che, nel tentativo di racchiudere in un suo perimetro una serie di idee o enti, esclude, e a volte rigetta, tutto ciò che ne rimane al di fuori.
Allo stesso tempo, buona parte di noi umani richiede e pretende una certa libertà e autonomia nella scelta di ciò che è bene e male nella propria vita. La letteratura, il cinema e ora anche le serie tv, sono piene di vicende che alimentano un conflitto nato proprio dalla distanza fra ciò che è bene per il personaggio A e ciò che è bene per il personaggio B. Per Lo Svedese di Pastorale americana è praticamente inconcepibile capire sua figlia Merry (se non attraverso un’empatia padre-figlia che Roth rende in maniera sublime) quando si trasforma in una aderente dei Weathermen e ha oramai portato la guerra in casa. I due si trovano su piani differenti non solo perché hanno vissuto vite diverse, sebbene contigue, ma perché hanno un diverso approccio nei confronti di ciò che è bene per la loro vita e, forse, per la vita in generale. La narrazione di una serie televisiva come Gomorra ci racconta che per i suoi protagonisti, calati in una realtà che sembra inventata e invece non lo è, ciò che è bene per la propria vita risiede nella crudeltà dei loro atti, il loro sovvertire ogni regola costituita da uno Stato che non esiste, non è presente. Chiunque di noi, guardandolo dal divano di casa, riflette sulla parziale moralità di quelle persone – per usare un eufemismo. E in verità essi sono uomini e donne che lottano per il loro bene, all’interno di un sistema di valori che rifiutiamo e consideriamo criminale.
Il medesimo ragionamento si potrebbe compiere – e si compie molto spesso nelle trasmissioni di approfondimento, così come sui giornali – nei confronti di coloro i quali, (in)seguendo un dogma religioso applicano alla realtà proprio quel dispositivo includente poiché escludente. La realizzazione di quel perimetro è, sotto ogni profilo e a qualsiasi altezza storica, un atto di sopraffazione e di difesa che nasce dalla convinzione che qualcosa è, per suo statuto ontologico, “il” bene per la nostra vita (e vada quindi preservato) e qualcosa è “il” male.
In fondo noi stessi, ogni giorno – schiacciati fra gli impegni che non desideriamo e gli angoli di sopravvivenza – inseguiamo ciò che è bene, ciò che ci appare come utile (“ognuno, a seconda del suo affetto, giudica una certa cosa buona o cattiva, utile o inutile” scrive ancora Spinoza nell’Etica, E3P39Sch.). È il respiro dopo una corsa, la lettura serale dopo una giornata fuori di casa, è la cena con gli amici, o l’amore con la persona amata. Tutto questo è il nostro bene – la sua mancanza è il nostro male. Tuttavia pensare che gli altri debbano possedere il nostro stesso orizzonte fa paura, poiché se così fosse la vita si schiaccerebbe in una piatta dimostrazione di se stessa nella quale tutto è uguale a tutto. La diversità invece si salva grazie al differente accordo che c’è fra il mio bene e il tuo bene; risiede nello scarto prolifico che si insinua fra quella che chiamo “mia ricerca” e quella che, altrettanto convenzionalmente, chiamiamo “tua ricerca”.
Giungiamo, dunque, a una prima tappa del nostro ragionamento: è inopportuno e dannoso connotare le cose come per natura buone o malvagie. Sembra una banalità, ma non lo è affatto – ed ora proverò a mostrare perché.
Abbiamo detto che bene e male sono due termini che acquisiscono senso solamente in maniera relativa. Una cosa è bene rispetto a qualcuno e a qualcosa che, al contrario, è male. Così come maggiore e minore sono dei comparitivi, poiché il maggiore è più rispetto a quello stesso termine per il quale il minore è meno.
La prima e più grande obiezione a cui occorre rispondere ora è: se bene e male vengono considerati sempre come termini relativi il vivere comune sarà di conseguenza anarchico e ogni comunità potrà immediatamente sfociare in una guerra di tutti contro tutti, giacché ognuno cercherà di proteggere il proprio perimetro di bene. Obiezione giustissima che si configura come l’altra faccia del discorso sulle diversità che vengono salvaguardate dalla relatività dei termini bene e male.
La filosofia a cui facciamo riferimento risponde a questa osservazione in maniera indiretta. Il suo argomento potrebbe essere così riassunto: è inutile imporre categorie morali dall’esterno a ciò che è la vita nel suo darsi spontaneo. Ciò che è non esiste nella misura in cui noi umani decidiamo che esista, piuttosto esiste perché – tautologicamente – esiste. Il ragionamento, allora, non va più inteso da un punto di vista morale ma ontologico. Il vero nodo da sciogliere e oltrepassare per sconfiggere la cieca diatriba fra bene e male è l’antropocentrismo e tutto il paradigma ontologico che esso ha contribuito a creare. La centralità dell’uomo nella natura e la sua indiscussa superiorità nei confronti di tutti gli altri esseri è un problema ontologico tanto quanto la fondatezza del bene e del male.
In altre parole, la vita o l’essere, è spontaneamente ciò che è, per questo è perfetta: essa si dà senza un fine che la trascende imponendole dall’alto un senso. O forse è proprio questo il senso che ha il suo darsi senza sosta, ovvero la naturalità del suo venire a galla ed emergere. Ingabbiare questo processo significa voler piegare il corso delle cose nel nostro verso, proteggersi e garantirsi una posizione migliore eppure – come scrive Philip Roth ne I fatti : “non tutte le cose esistono per essere comprese e usate, ma esistono anche perché, abbastanza sorprendentemente, sono la vita”. Ecco: abbastanza sorprendentemente, perché ci sembra davvero uno spreco enorme (e forse anche un errore) non intervenire nel corso delle cose per renderle nostre, per usarle a nostro favore.
Qual è allora il passaggio ulteriore che dobbiamo compiere?
L’uomo si è sempre pensato il centro del vivere comune nonché il vettore verso il quale ogni cosa deve tendere. Poche sono state le operazioni filosofiche e di conseguenza politiche che hanno messo in discussione questo assunto antropocentrico. La diversità non è mai stata un elemento presente nelle vite di ciascuno come lo è in questa epoca nella quale ogni connessione è più veloce e la migrazione (sia di idee che di corpi) è all’ordine del giorno. La diversità ci insegna non solo l’alterità, ma – paradossalmente – l’uguaglianza. L’uomo, più viene a contatto con la diversità, e più si decentra, si scioglie in un ab-soluto nel quale non vi è centro ma solo periferia. È proprio di questo spostamento verso la periferia che parla Leonardo Caffo nel suo Fragile umanità. Il postumano contemporaneo (Einaudi, 2017), dove possiamo leggere: “Tutto avviene sul bordo, in periferia, e nella consapevolezza che tutto si muove, e continuerà a muoversi in un processo entropico, al di là del controllo che l’essere umano deciderà di esercitare su tali fenomeni” (p. 35). Se tutto è sullo stesso piano nulla è, di per sé, bene o male, ma lo è – finalmente – solamente per la singola esistenza.
Con questo discorso, differentemente da come può sembrare a una prima impressione, non si invalida affatto la premessa iniziale di tale scritto ma, semmai, si ridimensiona e si sposta. Una presa d’atto in questo senso ci costringe a pensare a un nuovo modo di relazionarci con gli altri e con il bene e il male. Infatti, il fatto che una cosa sia riconosciuta come bene dalla nostra “bolla” non significa affatto che venga riconosciuta come tale anche da un’altra “bolla” ma, anzi, sta proprio nella relazione che si situa lo sviluppo e la tolleranza.
Perché tutto ciò diventi la linea guida delle nostre esistenze occorre che muti la consapevolezza e lo sguardo di ognuno: la vita nella sua interezza, l’essere, non si costituisce intorno a un punto ben delineato chiamato uomo. Il ruolo centrale che l’uomo ha avuto finora va ridimensionato e spostato, non solo per garantire la sopravvivenza delle altre forme di vita, dunque per motivi prettamente ecologici, come dice Caffo. Si tratta anche di evitare che la superiorità e presunta centralità dell’uomo nella natura si sposti in periferia, in una lotta cieca fra opinioni morali e posizioni ideologiche.
È impossibile in questa sede affrontare con completezza l’argomento – e le sue inevitabili e delicate ricadute politiche e bio-politiche –, ed inoltre continuerà ad essere impossibile finché non si avrà piena coscienza della necessità di oltrepassare lo schema filosofico che nella natura individua delle gerarchie prestabilite.
La filosofia di Spinoza, così come quella di Bergson e Deleuze, sono alcune delle tappe di un percorso filosofico che ha stabilito una visione alternativa all’antropocentrismo. Esse fanno parte di una grande rivoluzione copernicana che è tutt’altro che realizzata. In Spinoza e negli altri, sebbene in maniera diversa, è sul piano ontologico che si gioca l’intera posta in palio: l’uguaglianza sostanziale di tutti gli enti scuote dall’interno. Non esiste centro, non vi sono altezze, non esiste interno e non esiste esterno: tutto è liquidamente disteso su un unico piano. Non deve scaturire da questa idea un sentimento di dispersione e spersonalizzazione poiché in quest’ultima, come ricordava il Siddhartha di Hesse, “rimane aperto il miracolo” e risiede “il grande mistero”.
Cos’è, dunque, bene nella vita?
Il bene nella vita è ciò che dà completezza a ciò che siamo, all’intima essenza di ognuno. È l’assecondare la struttura più semplice di cui siamo composti, come lo stesso Spinoza ricorda. È, inoltre, muoversi e scegliere nella consapevolezza di essere un punto niente affatto isolato all’interno di una rete che è infinitamente più grande di noi, nell’esser coscienti che si è in continua relazione con tutta la rete nella quale siamo immersi. È dunque bene nella nostra vita farsi guidare non dall’egoismo, bensì dal costante rapporto di relazione che abbiamo con gli altri enti, esseri umani o non umani. Solo in questo modo riusciremo a superare il meccanismo “includente in quanto escludente” che abbiamo prima descritto e ad aprirci davvero. Non è solo una questione di tolleranza nei confronti degli altri, poiché la tolleranza stessa è un meccanismo morale, un dispositivo che tenta di risolvere (senza riuscirci) uno scontro che appare quasi inevitabile. In un orizzonte come questo la differenza non si trasforma in conflitto, piuttosto si configura come il risultato di più angoli d’osservazione.
Sono cosciente di aver appena descritto un’utopia, ovvero una prefigurazione della realtà che può servire, al massimo, da modello per gestire il conflitto nel quale gli uomini sono – in verità – continuamente immersi. Ma la filosofia, nella misura in cui è vera filosofia, deve strappare il velo della doxa, superare il senso comune, rovesciare le convinzioni fallaci. Il pensiero ha l’obbligo di evitare che la vita di chi lo pratica si adagi sulle certezze infondate.
Ecco allora cosa è realmente bene per la nostra vita: affrontare il reale non dall’alto, bensì ponendo tutto sul medesimo piano, analizzandone i rapporti più che i singoli individui che li compongono: in fondo smettere di pensare che la vita si dia in conformità con i nostri desideri. La vita emerge autonomamente e si diffonde. L’uomo che ha guadagnato una posizione periferica e si è sganciato dall’ossessione di essere al centro (o di essere “il” centro) può finalmente vedere la perfezione innata di ciò che è. Come ci spiega Spinoza “le cose sono state prodotte da Dio con suprema perfezione” (E1P33Sch2), ovvero sono quello che sono e per questo sono perfette. Sono Bene. Una conclusione che sembra spaventosa – come posso dire che il corpo del piccolo Aylan è, anch’esso, parte di questo Bene? Ma, di nuovo, “tutto è bene non significa che tutto è buono in senso morale. […] Tutto è bene vuol dire invece proprio quello che dice ma che solo raramente si ha il coraggio di ascoltare. Vuol dire che il bene è il tutto […]. Il bene è l’accadere del tutto” (R. Ronchi, Filosofia della comunicazione, Bollati Boringhieri 2008, pp. 108-109).
L’unica conseguenza che si intravede inscritta in questo ragionamento non è né l’esaltazione dell’inattività né tantomeno l’atteggiamento di passività di un uomo che si fa attraversare dagli eventi e li guarda estasiato o impaurito. Ciò che procede al seguito di questo ragionamento è l’azione trasformata dell’uomo, il suo agire consapevole della periferia senza centro nella quale è calato e si trova a vivere.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA LETTERATURA STORIA DELLE IDEE BENE Bergson Deleuze Endoxa gennaio 2018 Roth Spinoza