ALL’ORIGINE DELL’IMPERSCRUTABILITÀ DEL PRINCIPIO: PLOTINO E AGOSTINO

PLOTINOGIOVANNI CATAPANO

La filosofia nasce in implicita opposizione all’idea dell’imperscrutabile. L’atteggiamento che la cultura occidentale ha designato come “filosofico” si basa infatti, originariamente, sul presupposto che il mondo sia razionalmente spiegabile, che si possa riconoscerne la causa o le cause frugando intellettualmente nel mondo stesso. La causa o le cause del mondo si possono trovare “perquisendo” il mondo, si possono scorgere attraverso di esso: sono per-scrutabili. Se chiamiamo “principio” la causa o le cause che permettono di spiegare il mondo, intendendo con questo termine ciò che i filosofi greci hanno espresso a partire da Anassimandro (VI sec. a.C.) con la parola arché, allora possiamo affermare che la disposizione filosofica verso il mondo sorge all’insegna della perscrutabilità del principio. Perscrutabilità del principio e spiegabilità o comprensibilità del mondo all’alba del pensiero filosofico occidentale sono intimamente legate: il mondo si può spiegare o comprendere grazie al fatto che il suo principio è perscrutabile. Ed è proprio in quanto il principio del mondo è perscrutabile che la filosofia, come scrutamento del mondo alla ricerca della sua spiegazione ultima, diventa possibile e che il suo sforzo titanico di comprensione globale del mondo non è privo di senso.

Questa fiducia nella capacità umana di decifrare il mondo carpendone il segreto più riposto accompagna e sostiene l’impresa filosofica sino all’ultima fase del pensiero antico, quella della tarda antichità. È allora che fa il suo ingresso nella storia della filosofia un concetto nuovo, apparentemente in contrasto e in contraddizione con la natura stessa della filosofia com’era stata sino ad allora concepita: l’idea dell’imperscrutabilità del principio. Chi introduce questa idea in filosofia è Plotino (205-270 d.C.), il fondatore del neoplatonismo, cioè della corrente filosofica che soppianterà tutte le altre nate nell’antichità e che costituirà il minimo comun denominatore delle varie tradizioni filosofiche medievali, per essere poi ripresa espressamente nel Rinascimento e impregnare di sé una parte considerevole del pensiero moderno.

Rileggendo i dialoghi platonici alla luce delle critiche aristoteliche e in costante contrapposizione allo stoicismo, che aveva dominato la filosofia ellenistica, Plotino elabora, com’è noto, una teoria gerarchica del principio. A fondamento della realtà corporea, che cade sotto i nostri sensi, ci sono tre “ipostasi” incorporee, che i sensi non possono raggiungere: l’Anima (psyché); al di sopra di essa, l’Intelletto (noûs), da cui l’Anima deriva; e in posizione suprema l’Uno (hen), da cui l’Intelletto scaturisce. Tutto dunque, in ultima analisi, proviene da un’unica sorgente, l’Uno, la cui caratteristica principale è quella di essere assolutamente semplice.

Plotino arriva a questa conclusione applicando coerentemente alcuni assiomi che reggono la sua metafisica. Gli assiomi più importanti, nel ragionamento che qui ci interessa, sono due. Il primo è che la causa è superiore all’effetto. Osserviamo il cosmo fisico: esso è un tutto organico, dotato di ordine, vita e movimento. L’ordine, la vita e il movimento fisici devono avere come causa qualcosa dotato di un natura diversa e migliore di quella fisica, e questa natura è l’Anima, tradizionalmente principio ordinatore, vitale e cinetico. Ma l’unità organica che l’Anima conferisce al cosmo non è identica all’Anima stessa, che infatti si suddivide in una molteplicità di anime, le quali al loro interno contengono varie facoltà. L’unità dell’Anima è un’unità molteplice, e quindi ricevuta da una causa diversa e migliore dell’Anima stessa, cioè dall’Intelletto, nel quale l’Anima contempla le forme che essa riproduce a livello fisico.

L’Intelletto plotiniano è la totalità delle forme intelligibili, e in questo senso coincide con il mondo delle Idee di Platone, ma è anche un Intelletto che pensa se stesso, e in questo senso coincide con il primo Motore immobile di Aristotele. Nell’Intelletto si trova tutto ciò che si può veramente conoscere, tutto ciò che è “ente” in senso proprio, e questo universo di conoscibili è conosciuto in atto dall’Intelletto stesso, che si identifica con esso. Chi vuole conoscere la trama intelligibile del mondo, deve conoscere l’Intelletto. Secondo Plotino noi, che siamo anime razionali provvisoriamente presenti in un corpo, in realtà conosciamo già le forme intelligibili, anche se non se siamo consapevoli, perché la parte superiore della nostra anima, quella intellettuale, non ha mai abbandonato il regno dell’Intelletto, a cui appartiene, e non è mai discesa quaggiù. È per questo che conoscere, come insegnava Platone, equivale a ricordare, nel senso che è un prendere coscienza di ciò che conosciamo da sempre. La filosofia, come impresa cognitiva, non è altro che la conquista di gradi crescenti di consapevolezza.

Ma l’Intelletto, diversamente dal Motore aristotelico, non è causa prima. Anch’esso, infatti, è un effetto, e lo si capisce applicando il secondo grande assioma che funge da pilastro alla metafisica plotiniana, quello per cui il complesso deriva dal semplice, il molteplice dall’uno. Persino l’Intelletto, pur essendo più unitario dell’Anima, è molteplice, sia perché è una molteplicità di forme, sia perché è, aristotelicamente, pensiero di pensiero, e quindi si scinde in soggetto e oggetto. L’Intelletto, pertanto, è l’effetto di una causa superiore, in cui dev’essere assente qualsiasi molteplicità: l’Uno, appunto, chiamato così proprio per indicare la sua indivisibile unità.

È affermando la superiorità dell’Uno sull’Intelletto che Plotino apre la porta all’imperscrutabilità del principio. Infatti, se l’Intelletto coincide con la totalità degli intelligibili, e se l’Uno è diverso e superiore all’Intelletto, allora l’Uno non è un intelligibile: è al di là (epékeina) di ciò che anche un Intelletto perfetto come il noûs ipostatico è in grado di pensare. Tutta la realtà sgorga in ultima analisi da un principio che non è conoscibile, un principio di cui occorre postulare l’esistenza ma di cui non si può sapere se non ciò che non è: non è molteplice, non è intelligibile, non è esprimibile a parole, non è determinato (cioè è in-finito). Ci troviamo di fronte all’atto di fondazione filosofica della teologia negativa.

Questo Uno, che per Plotino coincide con il Bene di cui parlava Platone, in realtà è distante dall’Idea del Bene della Repubblica: quella era un’Idea, appunto, cioè una forma visibile dall’intelletto, e per questo paragonata, nella celebre allegoria della caverna, al sole, che tra tutte le cose è quella maggiormente visibile in sé, anche se per vederla occorre abituare gradualmente l’occhio alla sua luce. L’Uno plotiniano invece non è un’Idea; non lo è per la ragione che esso è il principio di tutte le Idee (la causa è superiore all’effetto).

L’Uno di Plotino è la prima grande figura dell’imperscrutabile nella storia della filosofia. L’Uno non può essere oggetto di una visione, nemmeno intellettuale; ad esso non ci si può avvicinare con la scienza, ma, come dice Plotino, solamente con «una presenza superiore alla scienza» (Enneadi, VI 9 [9], 4, 3 Henry-Schwyzer), vale a dire mediante un’esperienza di tipo mistico. Qui assistiamo a un altro atto di fondazione di incalcolabile portata, quello della mistica nel pensiero occidentale. Senza Plotino, sarebbe inimmaginabile la Teologia mistica dello pseudo-Dionigi Areopagita, con la sua «divina tenebra» che ispirerà il linguaggio dei mistici per secoli. E in fin dei conti qui stanno alcune premesse remote anche della nozione di “mistico”, come ciò che è inesprimibile e che non può essere conosciuto scientificamente, che Ludwig Wittgenstein utilizzerà nel suo Tractatus logico-philosophicus (1921).

Se l’Uno, il principio in grado sommo, è imperscrutabile, inaccessibile allo sguardo della nostra mente, allora la filosofia, cioè la ricerca del principio, non può trovare compimento nell’ambito della conoscenza. Non si può, propriamente, conoscere il principio; si può soltanto farne esperienza, eliminando la differenza che ci separa da esso. Si tratta non più di vedere il principio, il che è impossibile, ma di unirsi ad esso, o meglio di essere il principio stesso, perché, fino a quando l’Uno è considerato come qualcosa di altro da sé, esso si sottrae, sfugge alla presa: la pura unità, infatti, è incompatibile con la sussistenza di anche soli due termini, l’unità stessa e qualcos’altro. L’imperativo dell’etica plotiniana è: «Togli tutto!» (Enneadi, V 3 [49], 17, 38), togli tutto ciò che non è l’Uno, togli anche il tuo “io”. L’Assoluto si sperimenta abolendo la relazione e quindi l’alterità, perché la relazione è sempre tra entità distinte.

La tesi dell’imperscrutabilità del principio è la dichiarazione dell’insufficienza della conoscenza per la filosofia e l’affermazione della necessità della semplificazione interiore. L’ideale a cui il filosofo tende, ormai, non è più quello di sapere il perché del mondo, ma di essere quel perché, quell’unità in virtù della quale tutti gli enti sono. L’ingresso dell’imperscrutabile in filosofia non segna la fine della filosofia, ma la sua trasformazione in un processo di tendenziale divinizzazione.

Dopo Plotino e dopo Porfirio, che fu il suo più illustre discepolo, a partire da Giamblico (245 ca-325 ca) il neoplatonismo pagano si salda sempre più con la religione, nella convinzione (che però Plotino non condivideva) che per raggiungere l’unione con il divino sia indispensabile l’aiuto fornito dalle pratiche di culto e dai rituali magici (teurgia). Una persuasione analoga si riscontra nel pensiero cristiano di epoca patristica, che si sviluppa quasi parallelamente a quello neoplatonico e che dal neoplatonismo trae non pochi concetti e dottrine. Se Plotino, erede della tradizione filosofica antica, aveva posto l’accento sullo sforzo del filosofo di risalire al principio, la fede cristiana invece mette al centro l’idea che è Dio a venire incontro all’uomo, prima attraverso l’alleanza con il popolo eletto e poi attraverso l’Incarnazione del Verbo divino e l’effusione dello Spirito Santo sulla comunità ecclesiale fondata dal Cristo morto e risorto. Per quanto diversi dai riti teurgici valorizzati dal tardo neoplatonismo, i sacramenti cristiani svolgono una funzione simile, quella di soccorrere le insufficienti forze dell’uomo e di elevarlo alla comunione con Dio con la grazia, cioè con l’aiuto stesso di Dio.

Non è un caso che, se consideriamo il Padre della Chiesa più rilevante nella storia della filosofia, nonché il maggiore teorizzatore della dottrina della grazia nell’Occidente cristiano, ossia sant’Agostino di Ippona (354-430), possiamo riscontrare un ulteriore, importante contributo tardo-antico alla nozione dell’imperscrutabilità del principio. Per Agostino, Dio non è, in sé, inconoscibile, anche se nella condizione terrena l’uomo può arrivare a conoscerlo soltanto in parte, imperfettamente, per speculum in aenigmate, come scrive san Paolo (1 Cor 13,13). L’Apostolo tuttavia aggiunge che, nella vita futura, Dio sarà conosciuto perfettamente, «faccia a faccia». E gli scritti giovannei del Nuovo Testamento ribadiscono che, alla fine, vedremo «così come egli è» quel Dio che «nessuno ha mai visto» (Gv 1,18; 1 Gv 3,2; 4,12). Agostino è fedele a questo insegnamento biblico, e perciò sostiene un’imperscrutabilità temporanea del principio. Il principio, cioè Dio, non può essere perscrutato nel tempo, ma può esserlo nell’eternità, nella vita eterna in cui i beati si insedieranno definitivamente una volta usciti, con la morte, dalla condizione temporale. Anzi, non ci sarà bisogno di perscrutarlo, cioè di scrutarlo attraverso qualcos’altro, perché Dio potrà essere contemplato direttamente, senza mediazioni.

Adesso, però, in questa vita, non è possibile far penetrare lo sguardo della nostra mente nelle profondità divine, il cui contenuto non può essere adeguatamente compreso, ma soltanto, per il momento, creduto. Di qui l’importanza della fede, senza la quale il mistero di Dio resta in gran parte inaccessibile, eccettuate quelle perfezioni che, come afferma la Lettera ai Romani (1,20), possono essere scrutate attraverso le creature. La fede, spiega Agostino, è indispensabile per avvicinarsi a Dio nella misura del possibile, non solo sul piano della conoscenza ma anche su quello dell’azione, per agire secondo i suoi comandamenti. Iustus ex fide vivit, «il giusto vive grazie alla fede», ama ripetere il vescovo di Ippona citando la Scrittura (Ab 2,4 in Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38). L’uomo giusto vive grazie alla fede, perché la fede è condizione necessaria per accogliere la grazia divina che dà la forza di agire in modo giusto, facendo sì che il bene da compiere sia amato.

Ma la fede stessa è un dono gratuito ricevuto da Dio. Dio lo elargisce in maniera tale da farlo accogliere da coloro che in tal modo diventeranno credenti, così come dona ai suoi eletti la perseveranza con cui essi conserveranno il dono della fede sino alla fine della loro esistenza terrena, ricevendo in premio la salvezza eterna. È il concetto di predestinazione, che Agostino teorizza e difende con estremo rigore logico deducendolo da alcune premesse poste dalla teologia paolina.

Gli eletti predestinati alla salvezza non sono tutti gli esseri umani, ma solo alcuni. Sono “eletti”, appunto, cioè scelti all’interno della «massa di peccato» del genere umano, che per colpa del peccato di Adamo sarebbe altrimenti destinato interamente alla dannazione. La scelta divina degli eletti non dipende da alcun merito umano (inesistente di fronte a Dio) e non è spiegabile con nessun criterio umanamente disponibile. Il giudizio in base al quale Dio decide di salvare solo qualche essere umano anziché tutti, e proprio quegli esseri umani che sono gli eletti anziché altri, è al di fuori della portata delle nostre capacità di comprensione in questa vita. Il giudizio esiste – perché la scelta di Dio non è né casuale né puramente arbitraria –, però è inaccessibile: è letteralmente imperscrutabile. Anche quello dell’elezione è uno dei misteri divini che si paleseranno soltanto nella vita futura. Quaggiù, tutto quello che si può fare è confidare nella santità di Dio, in cui non può esservi ingiustizia, ed esclamare con Paolo: «O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (Rm 11,33).

A questo proposito vanno osservate almeno due cose. La prima è che l’imperscrutabilità del principio nella visione cristiana di Agostino è strettamente legata alla concezione di Dio come soggetto dotato di una volontà sovranamente libera, le cui decisioni e i cui decreti non dipendono in misura alcuna dalle sue creature. Il principio divino sceglie in maniera imperscrutabile perché sceglie in maniera assolutamente indipendente. La seconda osservazione è che il destino finale degli esseri umani, al contrario, diventa radicalmente dipendente dalla volontà divina. L’imperscrutabilità del principio non comporta delle conseguenze soltanto sul piano dei rapporti tra conoscenza filosofica e ascesi mistica, ma scende sino alla radice della possibilità di attuare entrambe con successo. Questa possibilità è legata indissolubilmente a una scelta già compiuta sin dall’eternità, il cui criterio è occulto. Ciò per cui ne va del nostro destino ci resta nascosto, appeso a una volontà impenetrabile che ha già deciso immutabilmente. La soluzione dell’enigma dell’esistenza è rinviata a una vita ultraterrena.

Lo studio di pensatori come Plotino e Agostino ci fa comprendere alcuni dei motivi per cui la tarda antichità è stata un periodo così importante nella storia del concetto di imperscrutabile. In questo periodo la filosofia certo non scompare, ma ne esce ridimensionata. La risposta alle domande fondamentali non le appartiene più, se non in parte. La sua perfezione consiste ormai nel riconoscere la soglia dell’imperscrutabile e nell’arrestarsi in silenzio davanti ad essa.

Endoxa ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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