L’INVISIBILE SI FA VISIBILE: IL DESIDERIO TRA NARRAZIONE E REALTÀ

EMANUELE AMBROSIO

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Visibile e invisibile, concreto e astratto, realtà e finzione, presente e futuro, veglia e sogno. Ognuna di queste coppie di termini suscita con forza un’infinità di domande e anche di tentativi filosofici di spiegarne le differenze – se ce ne sono, le caratteristiche che le contraddistinguono, le essenze. C’è uno iato ontologico insuperabile tra essi? Se c’è uno spiraglio, qualcosa che li collega, che tipo di rapporto sussiste?     

Nella storia dell’universo a noi conosciuto, per quel che ne sappiamo, è stato con l’emergere della coscienza, in particolare quella umana, il momento in cui qualcuno ha potuto porsi interrogativi simili. Fin dalla preistoria l’uomo ha cercato un modo per mettersi in contatto con le invisibili forze del cosmo e della natura, costruendo narrazioni e raccontando miti per tentare di mettere ordine al caos che altrimenti avrebbe determinato la sua morte. La finzione, quindi, è stata la risposta inconsapevole dell’uomo a quella che altrimenti sarebbe dovuta essere l’ammissione di una sostanziale insignificanza esistenziale nella vastità dell’universo, di una mancanza di senso della vita. I miti, le storie o, per usare l’espressione dello storico israeliano Yuval Noah Harari nel suo Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, l’ordine immaginato, sono stati probabilmente i più importanti prodotti dell’evoluzione umana e nello specifico della Rivoluzione cognitiva, ossia il momento in cui l’uomo ha cominciato ad usare il linguaggio e a creare immagini e finzioni circa 70.000 anni fa. Se questi artefatti culturali in sé potrebbero essere visti con sospetto, magari considerati come mere superstizioni innaturali e perfino dannosi per la sopravvivenza, essi hanno tuttavia permesso un decisivo balzo in avanti nella capacità dell’uomo di agire collettivamente, anche tra perfetti sconosciuti, proprio grazie alla condivisione di storie comuni. Per Harari praticamente ogni cosa in cui ha creduto e in cui crede l’uomo – l’animismo, le religioni, le superstizioni, gli Stati, il denaro, le società per azioni, il mercato, le leggi, i diritti naturali, etc. – sono miti condivisi, ordini immaginati, narrazioni. Se da un lato questo è un duro colpo per i realisti, cioè per chi è convinto dell’esistenza “concreta” di ognuna o di qualcuna di queste cose, per Harari l’ammissione che si tratti di finzioni non ne riduce l’importanza, la bellezza e soprattutto l’utilità nella storia umana e nella società.

Ecco allora individuato il rapporto, il collegamento tra l’invisibile e il visibile, il ponte fra l’astratta finzione e la realtà concreta: noi. L’uomo attribuisce senso alle storie in cui crede e grazie ad esse agisce, individualmente e soprattutto collettivamente, in modo fattuale nella realtà, rendendole in qualche modo concrete. Non si tratta di credere banalmente che le nostre strutture mentali o il linguaggio condizionino o addirittura creino la realtà circostante, scadendo nel solipsismo relativistico o nelle più assurde e divertenti teorie new age, ma di riconoscere che praticamente tutti gli umani si comportano come se gli “ordini immaginati” fossero reali: da chi crede nel valore del denaro, e quindi reitera il suo utilizzo, determinando la sussistenza del mercato e del sistema economico capitalistico, a chi crede in una divinità soprannaturale e si comporta come se effettivamente esistesse, assumendo quindi concretamente atteggiamenti che rispecchiano la sua credenza e che producono effetti nella società e tra gli individui. Gli ordini immaginati, le storie, le narrazioni, insomma l’invisibile si fa in qualche modo visibile, generando l’ambiente che ci circonda e il paesaggio che abitiamo.

Il futuro davanti a noi non è quindi dotato di un’esistenza propria che prescinde da noi. Il futuro, anzi i futuri che si aprono davanti a noi sono campi di possibilità. Di fronte alle trasformazioni dell’epoca contemporanea, alle innumerevoli sfide del presente, dall’ingegneria genetica all’intelligenza artificiale, dal potenziamento umano alla clonazione, dalle sfide economiche alle soluzioni al riscaldamento globale, la domanda da porsi quindi non è “come sarà il futuro?” o “cosa saremo?”, ma “cosa vogliamo diventare?” e “come vogliamo rispondere al presente?“. Il futuro sarà cioè modellato dalle storie di chi lo progetta oggi, cioè scegliendo ogni volta la narrazione in cui credere per rispondere a queste sfide.

Ecco quindi il nucleo ancora più profondo del nesso tra visibile e invisibile, l’elemento che collega contemporaneamente la realtà concreta presente alle possibilità future e le idee astratte di oggi a ciò che costituirà la concreta realtà futura: il desiderio. Per la filosofa Rosi Braidotti il desiderio non è semplicemente una mancanza, come nella tradizione psicoanalitica, ma è il fondamento della soggettività, il conatus disposizionale verso l’esterno e il motore del divenire attraverso un percorso non predeterminato. Per dirla con le sue parole, il desiderio è “la disposizione materiale e socialmente approvata delle condizioni che permettono l’attuazione (cioè la realizzazione immanente) della modalità affermativa del divenire” (In metamorfosi. Verso una teoria materialistica del divenire, 2003). Anche per la filosofa italo-australiana, col crollo dei punti di riferimento tradizionali (soprattutto dopo la decisiva spallata di Darwin e dell’evoluzionismo all’essenzialismo ontologico umano),  l’importante quindi non è rispondere alla domanda “cosa siamo?” ma “cosa vogliamo essere?“, o ancora più radicalmente, secondo Harari, “cosa vogliamo volere?“.  Il progetto etico-politico che Braidotti chiama “nomadismo filosofico” “si concentra sul divenire o sulle trasformazioni, proponendo una filosofia pragmatica che sottolinea la necessità di agire, di sperimentare nuovi modi di costituire la soggettività e di relazionarsi all’alterità” (Trasposizioni. Sull’etica nomade, 2008) e, si potrebbe aggiungere, di affacciarsi ai futuri. Il desiderio è la sostanza di cui siamo fatti e la disposizione al divenire che trasforma l’invisibile in visibile.

“Siamo dèi che si sono fatti da sé, a tenerci compagnia abbiamo solo le leggi della fisica, e non dobbiamo render conto a nessuno”, così Harari. Le parole di Harari ci ricordano che il futuro ci è ignoto, e questa prospettiva è tanto stimolante quanto spaventosa. Ciò richiede a gran voce la consapevole ammissione dell’importanza delle narrazioni che produciamo e del desiderio che ci costituisce e ci muove, e al contempo l’assunzione di un atteggiamento responsabile, per non mettere irrimediabilmente fine alle infinite possibilità che aspettano di essere realizzate. Perché, come diceva Gilles Deleuze, senza un po’ di possibile soffocheremmo.

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