GIUSTIZIA E MISERICORDIA: TRA POLITICA ED ETICA
ADRIANO FABRIS

1. Teologicamente tra giustizia e misericordia non c’è conflitto. Cioè non c’è conflitto fra di esse sia nel regno dei cieli sia nell’anticipazione che di questo regno possiamo, magari, fornire sulla terra. La giustizia, in questo caso, è infatti giustizia di Dio. Ed essa non deve essere concepita al modo in cui è intesa dalla Legge ebraica, secondo la lettura che ne fornisce Paolo nella Lettera ai Romani.
Proprio da Paolo però viene sottolineato un forte, decisivo legame tra fede e giustizia. La giustizia di Dio è quella che proviene dalla fede e suscita la fede (cfr. Rm 4, 13). E dunque la fede è misura della stessa Legge: che non viene eliminata dalla fede, ma confermata da essa (cfr. Rm 3, 31).
In questa prospettiva potremmo dire che la fede è il senso della giustizia: ciò in cui la giustizia di Dio trova non solo il suo fondamento, ma anche la sua esegesi. In altre parole, qui, la giustizia divina è interpretata a partire dalla fede e vissuta nell’ottica della fede. Si apre così la strada non solo all’idea di un Dio giusto (nel senso, ad esempio, di Rm 2, 5), ma anche all’idea di un Dio misericordioso.
Ripeto: al livello di Dio – e dell’interpretazione teologica del suo agire, che è animata dalla fede – non c’è conflitto tra giustizia e misericordia. Così come non c’è conflitto, o non ci dovrebbe essere, per gli uomini che hanno la fede, o che si sforzano di averla. Non c’è conflitto: ma solo nella “città di Dio” di cui parla Agostino.
Noi viviamo però nella città degli uomini. Viviamo da esseri umani insieme ad altri esseri umani. Alla fede, cioè alla fiducia che possiamo nutrire nei confronti dei nostri simili, si sostituiscono fin troppo spesso rapporti di potere. Cambia la modalità di relazione. Accade spesso che ai modi di una relazione aperta, feconda di sempre nuove relazioni, si sostituiscano i comportamenti di un essere umano sempre chiuso agli altri, sempre in difesa, sempre pronto ad attaccare. L’uomo, seguendo Hobbes, da questo punto di vista finisce per essere un lupo per l’uomo.
Nasce allora la necessità di governare questa situazione. Bisogna stabilire una misura comune tra le esigenze degli uni e le esigenze degli altri. La fiducia non basta: perché la fiducia, da una parte, vuole tutto e crede di poter pretendere tutto, dall’altra parte trasforma ciascuno di noi in un essere indifeso. Ci vuole dunque un terzo, fra noi due che siamo in potenziale conflitto, che avanziamo ciascuno le nostre esigenze, il quale decida in che modo applicare la misura giusta.
Questo terzo, in Hobbes, è il sovrano. Questo terzo può essere colui che giudica, ponendosi super partes. Giudica: applica la giustizia nella misura in cui esercita un potere. E questo potere è quello che serve a contrastare invece il potere che usiamo per far prevalere le nostre esigenze personali.
Lo spazio della regolamentazione e della gestione di questo potere è lo spazio del diritto. Il luogo in cui il diritto esercita le proprie funzioni è lo spazio della città degli uomini: è la polis. La politica, come ambito delle relazioni fra gli uomini, si trova dunque a essere il luogo in cui si manifestano e debbono essere governate la fame e la sete di giustizia.
Giuridicamente, allora, tra giustizia e misericordia c’è conflitto. Perché qui la giustizia è qualcosa di umano, troppo umano. E come tale dev’essere considerata secondo la metafora del bilanciamento e del principio dell’eguaglianza. Lo vedremo fra poco, cercando di dare un breve approfondimento di questa tematica su di un piano filosofico.
Ciò che anzitutto voglio sottolineare, però, è che sul piano della giustizia umana, quella di cui stiamo ora parlando, giustizia e misericordia – o meglio: usiamo qui un termine più appropriato, il termine “amore”, nel significato che più avanti specificherò – non possono essere conciliate. Non c’è spazio per l’amore nella polis. Questo è infatti il luogo dell’esercizio del potere e della sua regolamentazione.
Diverse allora sono le regole dell’amore rispetto a quelle della giustizia. Amore e giustizia si collocano su due differenti livelli e instaurano tipi diversi di relazione. E dunque, per esempio, a chi chiede giustizia non si può domandare il perdono.
2. Approfondiamo meglio la questione. Qui l’approccio filosofico può essere utile. Cominciamo con l’idea di giustizia. La questione della giustizia è emersa negli ultimi decenni, com’è noto, quale problematica centrale nell’ambito della filosofia politica. Non possiamo non pensare a John Rawls, ovviamente, e ai dibattiti che la sua riflessione ha suscitato. La sua concezione della giustizia in termini di equità distributiva si colloca all’interno di quella prospettiva che vede consistere la giustizia nel legame che unisce il giusto all’eguale. Nel caso che sussistano diseguaglianze immeritate, bisogna dunque creare un sistema nel quale i meno avvantaggiati possano ottenere il massimo possibile.
Sappiamo come ciò avvenga in Rawls. Egli utilizza la finzione della “posizione originaria”. Motiva cioè la nostra disponibilità a diminuire privilegi per i più favoriti in considerazione del fatto che, non potendo prevedere in anticipo quale sarà il nostro posto nella società e quali vantaggi avremo in essa, siamo indotti a scegliere una situazione nella quale le stesse ineguaglianze dovrebbero essere usate per migliorare la condizione dei più svantaggiati. Emerge quella condizione paradossale di “interesse disinteressato”, nella quale sembra vi sia un buon motivo, anche in termini di utilità personale, per rinunciare entro certi limiti al perseguimento completo (e magari spietato) della propria affermazione.
Non è però sulla teoria di Rawls che mi voglio soffermare. Desidero piuttosto far presente il fatto che Rawls intende il concetto di “giustizia” soprattutto in un senso distributivo: allo stesso modo in cui lo pensava già Aristotele nell’Etica Nicomachea. Il nesso privilegiato di “giusto” ed “eguale” sembra infatti scontato nella nostra tradizione di pensiero.
Così, sia nell’ambito greco, sia in quello ebraico-cristiano, è possibile rintracciare la cosiddetta “regola d’oro” come principio non solo di un atteggiamento giusto, ma più ancora di un comportamento etico. Questa regola infatti dice in una sua frequente formulazione, rinvenibile in molteplici ambiti religiosi: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.
“Giusto”, insomma, si lega a “eguale”: nel senso del rinvio a un eguale comportamento. Va allora compreso con chiarezza che cosa tutto questo significhi. Vanno verificati i meccanismi per regolamentare tale eguaglianza e vedere se sia possibile attuarla in un ambito politico. Ecco ciò a cui spinge il senso di giustizia dell’uomo. Questo tentano di fare, seppure in modi diversi, la politica, da una parte, e l’etica, dall’altra.
Ma è proprio vero che all’interno di un tale collegamento tra giustizia ed eguaglianza tutti i problemi si trovano risolti? È proprio vero, cioè, che una volta compreso che cosa è giusto, siamo effettivamente motivati ad assumere un atteggiamento di “interesse disinteressato”? La proposta di Rawls, lo abbiamo visto, è quella di giustificare in fin dei conti tale assunzione motivandola in base al nostro stesso vantaggio. È nel nostro interesse essere equi, cioè assumere una prospettiva di giustizia come equità: anche rinunciando, entro certi limiti, al perseguimento di un interesse immediato.
Si tratta però di un assunto che, a ben vedere, presuppone che la nostra motivazione di fondo sia, in ogni caso, quella dell’interesse. Solo a partire da ciò è possibile sostenere che, a volte, è nostro interesse essere disinteressati: assumere una prospettiva generale che minimizzi gli svantaggi e massimizzi le opportunità. C’è insomma, sullo sfondo, un latente presupposto utilitaristico: un assunto che Robert Nozik, intelligente lettore di Rawls, ha chiaramente fatto emergere.
Ma se anche così fosse, se davvero l’unica motivazione ad assumere certe forme di relazione fosse quella utilitaristica, in ogni caso la questione della motivazione, risolta sul piano formale, si riproporrebbe su di un versante applicativo. Infatti: chi mi motiva ad assumere di volta in volta, in ogni occasione, la prospettiva della giustizia come equità? Perché sarei indotto a farlo anche in quelle circostanze nelle quali, pure, potrei sfruttare un’eventuale posizione di vantaggio?
I problemi che emergono sono dunque due: quello della motivazione ad assumere un determinato principio (qui il principio della giustizia come equità); e quello della motivazione ad applicarlo universalmente e in ogni tempo. Non basta per affrontarli andare a vedere come si comportano le altre persone nella loro quotidianità. Non basta considerare come storicamente queste relazioni nella città degli uomini, nella polis, vengono a realizzarsi. È in gioco una questione diversa. Si tratta di affrontare tematicamente quel tipo di questioni di cui si occupa l’etica. Siamo indotti dunque a passare dalla dimensione della giustizia, come fondamento del diritto e come esigenza predominante in ambito politico, all’ambito dell’etica.
3. Ci aiuta a compiere questo passaggio Paul Ricoeur in un piccolo testo dedicato proprio al tema “amore e giustizia” (Amore e giustizia, trad. it. a cura di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 2000). Per Ricoeur la motivazione che serve ad applicare la giustizia, nel modo in cui l’abbiamo intesa, è data dall’amore. Ricoeur mette in luce la tensione, o meglio la “dialettica” fra amore e giustizia, nella quale sono presi i nostri comportamenti. La sua tesi finale, tuttavia, vede nella giustizia “il medio necessario dell’amore”. Egli considera infatti l’amore come qualcosa di “sovra-morale”. E proprio perciò, se vuol essere efficace, esso ha bisogno della giustizia.
Che cosa significa tutto questo? Parlare di un amore “sovra-morale” non significa forse riportarlo alla dimensione della città di Dio, invece che della città degli uomini in cui viviamo? Non significa renderlo qualcosa che, di per sé, risulta utopico e sovra-umano?
Non so se l’amore sia davvero qualcosa di sovra-morale. Bisognerebbe chiarire che cosa significa “morale” (in generale, e nel significato specifico che al termine dà Ricoeur, ad esempio nella Petit étique di Soi même comme un autre). E poi, soprattutto, bisognerebbe verificare se il comportamento morale è quello che s’identifica, come sembra intendere Ricoeur, solo con l’applicazione della regola d’oro: quindi, di nuovo, con un’istanza di giustizia che mira sostanzialmente al raggiungimento di un’eguaglianza bilanciata.
Il modo però in cui leggo la tesi di Ricoeur è nell’ottica del ripresentarsi del problema della motivazione. È in questo senso, appunto, che l’etica risulta sovraordinata alla giustizia: perché può offrire quella motivazione che l’istanza di giustizia, di per sé, non è in grado di dare. Più precisamente: è proprio l’amore, qui, che è capace di offrirla. Perciò, anche se si tratta di collocarsi su due livelli differenti – quello della giustizia umana e quello dell’amore altrettanto umano –, anche se questi due livelli non possono né debbono essere confusi, tuttavia ciò che mi preme sottolineare è che la giustizia ha bisogno dell’amore, ovvero – se vogliamo ritornare a questo termine, più teologicamente connotato – della misericordia, per essere motivato nella sua propria applicazione.
Senza amore, ovvero senza la capacità di essere misericordiosi, la giustizia è sterile. Se non comprendiamo questo, non possiamo uscire dalle tensioni che sono proprie della città degli uomini. E, in definitiva, non si capisce neppure perché si possa pensare alla politica come al luogo in cui la giustizia può essere realizzata. L’amore infatti è coinvolgimento in atto, è qualcosa di motivante per se stesso. Lo sperimentiamo quotidianamente. Quando amiamo siamo coinvolti in una dimensione di legame e di senso. In una parola – ma già Platone lo diceva ben prima e ben meglio di me – l’amore è un ponte: è ciò che ci permette di vivere la tensione tra esercizio del potere e fame e sete di giustizia, tra ricerca del proprio interesse e apertura di fiducia, tra città degli uomini e città di Dio.
A partire da qui emerge in maniera più chiara il legame tra amore e misericordia. Nella tradizione occidentale l’esperienza dell’amore si realizza in un intreccio fra ciò che, in greco, viene espresso dai due termini eros e agape: desiderio dell’altro e volontà di donarsi. È quest’ultimo significato dell’amore quello che si trova specificamente legato al tema della misericordia. La misericordia è infatti strettamente vincolata all’oblatività e alla donazione, a partire dal principio di una sovrabbondanza da condividere. La misericordia è un atteggiamento rivolto non già a chi sta sul mio stesso piano, bensì a chi è in difficoltà, incapace di aiutarsi con le sue sole forze. Invece di approfittare della sua debolezza, invece di assalirlo contando sul fatto che egli non può difendersi, colui che agisce con misericordia riconosce nell’altro un suo simile, qualcuno che non può essergli indifferente.
4. Per concludere voglio specificare ulteriormente il tema della misericordia in una prospettiva religiosa, ricollegandomi alle questioni toccate all’inizio. Misericordia, anzitutto, è misericordia di Dio. Nel caso dell’essere umano è capacità d’inserirsi nel circolo del perdono: capacità di perdonare perché si è perdonati.
Lo si può fare oppure no. Si tratta di una scelta. La trasgressione, infatti, è sempre possibile. In ambito etico è sempre possibile rifiutare una relazione coinvolgente. L’etica è l’ambito nel quale risulta sempre in gioco la libertà dell’uomo.
Qui, dunque, tornano a separarsi i due livelli – giustizia e misericordia – su cui ci siamo finora collocati. Possiamo considerarli nell’ottica di questa trasgressione che è sempre possibile. Sul piano della giustizia alla trasgressione segue (o dovrebbe seguire) la sanzione. Che rientra nell’ottica dell’equilibrio e dell’equità a cui prima ho fatto riferimento. Sul piano della misericordia, dell’amore così inteso, segue invece il perdono. Che non è cancellazione della responsabilità e, tanto meno, eliminazione delle conseguenze di un’azione, ma è disponibilità a mantenere ancora un rapporto con chi ha rotto, attraverso il suo agire, un contesto di relazioni.
Questo atto squilibrato non lo si può chiedere alla dimensione della giustizia, che si muove nell’ottica del ripristino di una simmetria. Ci vuole un supplemento d’etica per tutto ciò. Ed è possibile interpretare questo supplemento d’etica anche in un’ottica religiosa.
Lo mostra chiaramente la parabola del buon samaritano (Lc 10, 25-37): non solo come racconto in cui l’amore, la misericordia, intervengono su una situazione di giustizia e la correggono attraverso un sovrappiù di disponibilità, ben oltre quanto veniva legalmente richiesto (il sacerdote e il levita avranno avuto infatti le loro ragioni, magari anche giuste, per non fermarsi a soccorrere il ferito); non solo come episodio in cui quella dignità dell’uomo, quel suo carattere di “prossimità” che sta alla base della stessa idea di giustizia, vengono salvaguardate in forme che all’attuazione della giustizia non sono strettamente indispensabili (il pagamento delle cure a chi accudisce il ferito): ma soprattutto come occasione in cui l’atteggiamento del samaritano salva una vita e rende possibili, con ciò, sempre nuove relazioni. Si tratta dunque di un esempio di atteggiamento davvero etico: capace di superare le tensioni – anche quelle fra potere e giustizia – che sono proprie della nostra vita.
È insomma in gioco, in questa parabola, una sorta di corrispettivo ante rem dell’atteggiamento del perdono, che si compie invece post rem. Ma in entrambi i casi ciò che l’etica, interpretata in chiave religiosa, rende possibile è un’autentica fioritura di relazioni. Di relazioni feconde, di relazioni sempre possibili, di relazioni sempre nuove. Che possono, certo, variamente realizzarsi. Ma che non debbono comunque essere ridotte a quell’unica tipologia – quella delle relazioni simmetriche – che la giustizia cerca, pur legittimamente, di realizzare.
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