IL VALORE DELL’AUTODETERMINAZIONE: IL VIZIO GIUSTO PER NON PASSARE DA CRIMINALI

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RICCARDO DAL FERRO

Il vizio insopportabile è sempre quello altrui.

Il vizio si caratterizza per un aspetto che troppo spesso ci sfugge: condanniamo sempre il vizio che vediamo nell’altro, ma siamo infinitamente indulgenti nei confronti del nostro vizio. Questo parrebbe essere un comportamento quasi innocuo che ha a che fare con lo stigma e la chiacchiera, più che con atti concreti di punizione e prevenzione, ma le cose non stanno affatto così.

La differenza che intercorre tra un vizio e un crimine infatti è netta, ma per convenienza siamo noi stessi a sfumarla. È evidente che chiamiamo “vizio” quel comportamento che, per quanto odioso, danneggia soltanto colui che lo perpetra, mentre il crimine è un atto che fuoriesce dal suo autore e colpisce in modo diretto, danneggiandoli, coloro che stanno intorno al colpevole. In questo senso, il vizio non è mai punibile poiché essendo io in possesso della mia vita (dal momento che nessuno, al momento della nascita, può vantare diritti sulla mia esistenza, al massimo solo sul mio agire fintantoché io non sia capace di intendere e di volere) ho il diritto di disporne nel modo che ritengo più opportuno, mentre il crimine va punito perché contraddice quanto appena sostenuto. Criminale è infatti decidere della vita di un altro in modo coercitivo, non importa che il mio obiettivo sia quello di danneggiarlo o di beneficiarlo.

Per scendere in un esempio, se io decido di auto-distruggermi con l’alcool sto compiendo un atto odioso agli occhi della società e una depravazione nei confronti di me stesso, ma l’unico direttamente danneggiato dal mio comportamento sono io. Se invece uso la bottiglia di vetro per farmi giustizia colpendo sulla testa il tizio che mi ha rubato l’amore della vita (dopo averla scolata, la bottiglia, s’intende), allora sto danneggiando qualcuno che non ha a che fare con il mio atto e con la mia intenzione. Perciò, il primo è un vizio, il secondo è un crimine.

Ciò non significa ovviamente che la famiglia dell’alcolista non dovrebbe fare tutto quello che è in suo potere per dissuadere la persona dai suoi propositi di devastazione, ma non possiamo appellarci ad un’autorità che impedisca il perseguimento di tali comportamenti perché in quel caso stiamo minando alla base ciò che cerchiamo di proteggere, ovvero la pace sociale.

Per quanto sia chiara questa distinzione, che pure risulta facilmente interpretabile nei diversi casi particolari della vita, il giudizio umano tende sempre a sfumare i confini tra questi due domini dell’agire. E se in passato la punibilità del crimine si basava su un rudimentale principio di non aggressione (laddove con “aggressione” si intende la violenza alla proprietà di un altro individuo, compreso il suo corpo), oggi si può considerare “criminale” il comportamento di un uomo che bevendo come una spugna venga meno alle responsabilità nei confronti della sua famiglia e dei suoi affetti. Sono certo che molti lettori avranno annuito nel leggere questo caso perché un padre di famiglia che abbandoni i suoi cari per trovare la felicità sul fondo di un bicchiere dovrebbe, per il senso comune, essere rimesso in riga con ogni mezzo disponibile dal momento che il suo comportamento danneggia indirettamente (economicamente, affettivamente e socialmente) molte persone che su di lui contavano. Ma è altrettanto chiaro che se accettiamo una tale definizione della punibilità, il piano inclinato fa accelerare la biglia di piombo ad una velocità vertiginosa e così giungiamo presto al prossimo esempio: un uomo disperato per via dei debiti o del lavoro che decide di togliersi la vita va fermato e punito per il suo intento in quanto, sottraendosi all’esistenza, danneggerebbe indirettamente la sua famiglia, il suo datore di lavoro e persino la compagnia assicuratrice che gli ha fatto la polizza sulla vita! Così, arriviamo al parossismo di un individuo completamente paralizzato dalla SLA che non ha più motivo di vivere, ma che deve essere tenuto in vita dalla legge e dalle autorità, contro la sua volontà, perché il suo suicidio danneggerebbe varie cose assolutamente astratte: la morale della nazione, il sentimento religioso dei cattolici, la capacità dello Stato di provvedere ai bisognosi, e così via. Si arriva al punto di invocare il condizionamento farmacologico, perpetrato in modo coercitivo per mezzo dell’autorità politica, per obbligare ad un po’ di felicità una persona depressa e disperata.

Confondendo il vizio con il crimine si giunge velocemente al paradosso di commettere un crimine (la costrizione atta ad impedire l’autodeterminazione di un individuo) contro chi cade in un vizio.

La filosofia, in particolare quella politica, deve ridare dignità all’individualità e alla sua determinazione, se vogliamo che questa tendenza non dilaghi nella vita di ognuno di noi, distruggendo il concetto di privacy e di proprietà, di autodeterminazione e di libertà, poiché il vizio peggiore (che non dovremmo mai punire, ma scoraggiare) è quello di essere indulgenti con i propri vizi ma considerare criminali di vizi altrui.

I vizi non sono crimini, scriveva Lysander Spooner in un libretto purtroppo semi-sconosciuto, che ha proprio questo titolo, e se la filosofia vuole ritrovare la potenza della riflessione in contrasto al senso comune della società, allora è dall’individuo che bisogna ripartire e affermare che ognuno di noi ha il diritto a cadere nei vizi che gli sono più congeniali, anche contro la propria felicità, fintantoché questi sono il frutto della propria autodeterminazione.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA POLITICA

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