VIZIO DI FORMA

231.2016.5##S

FRANCO FERRANT

“Sì va bene… e poi che te ne fai?” mi chiede Giorgio con una faccia da schiaffi. È evidente che per una domanda del genere non c’è una buona risposta. Le domande idiote non prevedono risposta.

Ma lui non demorde e, dopo essersi aggiustato gli occhiali con il solito gesto, ripete “Ma che bisogno hai… ?” ma non dice di che cosa. Perché non lo sa nemmeno lui che cosa vuole chiedere di preciso.

Più delle parole e del tono di quelle insulse mezze domande trovo offensivo il suo modo di aggiustarsi gli occhiali, una via di mezzo tra volontà di puntualizzare e gusto di provocare.

Divarica al massimo con decisione il pollice e il mignolo a formare una spanna ben distesa e poi si punta il medio contro la forcella degli occhiali, inchiodandosela tra gli occhi. C’è un che di petulante che rende quel gesto fastidioso di per sé. Se poi lo ripete cento volte al giorno, fate voi.

Alla fine sono queste le cose che schiantano un rapporto. Credo che finirò per lasciarlo proprio per quel suo modo di aggiustarsi gli occhiali. La cosa curiosa è che ogni volta mi fa venire in mente tutt’altra faccenda. L’ho già visto quel gesto. All’ingresso della metropolitana a Londra, un autunno di parecchi anni fa. Accovacciato in un angolo c’era una specie di monaco buddista. Nonostante fosse in pieno viavai, non era granché visibile, seminascosto nella rientranza di un edificio. Lo vidi solo all’ultimo momento, quasi inciampando nell’orlo della veste che lo avvolgeva dalla testa ai piedi. La stoffa era di un intenso color porpora, reso ancora più saturo dall’acqua che l’aveva completamente inzuppata. Doveva trovarsi seduto a terra da un bel po’, ma non mostrava fastidio per la pioggia che gli colava lungo la fronte, il mento e le spalle. Era evidente che si trovava là per raccogliere le offerte, anche se forse non aveva scelto il posto più propizio.

Nonostante ciò, intorno a lui il marciapiede era pieno di soldi e c‘erano molte più banconote che monete. Si stavano allentando nelle pozze d’acqua e un passante davanti a me si fermò a raccoglierle, ne fece un mazzetto e glielo posò in grembo. Il monaco non disse né fece niente che potesse sembrare un cenno di ringraziamento. Il passante si fermò a guardarlo sconcertato. Io ero tre passi dietro. Eravamo solo io e lui e il monaco. La gente passava dietro di noi frettolosamente. Fu allora che notai quel gesto del monaco e il dito medio posato tra gli occhi proprio sopra l’attaccatura del naso. Mentre mi stavo chiedendo che cosa potesse significare, la prima falange del dito si accese di un lampo viola che si propagò alla fronte in una specie di fluorescenza brillante, che sembrò affondare tra gli occhi. Per un attimo persi il senso delle cose e subito dopo non potei fare a meno di guardare interrogativamente l’altro spettatore, che ricambiò la mia occhiata. Capii subito che aveva visto esattamente quello che avevo visto io. Non dimenticherò mai il suo sguardo, un misto di sbigottimento, complicità e felicità. Ci allontanammo subito in due direzioni diverse, ma ancora oggi a distanza di tanti anni sono sicura che riconoscerei immediatamente quell’uomo se lo rivedessi, in qualunque contesto dovessi rincontrarlo e che ci guarderemmo di nuovo così e che riproverei quella forte voglia di scoparlo su due piedi, che è l’esatto complemento dell’avversione che in questo momento provo per il mio inquisitore.

Come dire che bisogna essere cauti con gli indizi. Interpretarli è un lavoro duro. Mai fermarsi alle somiglianze superficiali. Si rischia il fraintendimento. Ma questa è un’altra storia.

Visto che mi sta ancora davanti, gli dico sommariamente che l’idea è di Mirella e che lei queste cose le sa. E non è una scusa. Il book è veramente un’idea fissa di Mirella. Lei, per la verità, ci vive.

Non fa altro che esibirlo in giro e così va a finire che la chiamano, ora per una competizione di hairstyling, ora per una sfilata di intimo. Mai niente di particolarmente importante; in ogni caso lei riesce a viverci, e anche abbastanza bene. Di sicuro guadagna più di me sepolta otto ore al giorno in un ufficio turistico a biascicare mozziconi di tutte le lingue del pianeta senza mai formare un discorso di senso compiuto. E poi è convinta che un giorno o l’altro le capiterà la grande occasione.

“Buona quella”  mi dice lui  “non sa neanche di esistere… che idee vuoi che abbia… e se anche fosse… ha dieci anni meno di te.”

Osservazione stupida. Come se la mia intenzione fosse quella di portare a spasso il culo per le passerelle. Non lo farei neanche se avessi vent’anni… è umiliante. A meno che naturalmente tu non sia un angelo di Victoria’s Secret a tre milioni l’anno.

Io voglio solo vedere come sono, questo è il fatto. Proprio così: non so come sono… fisicamente voglio dire. Niente a che vedere con quelle balle dell’autocoscienza. Vorrei solo sapere come sono fisicamente. Tutto qui. La curiosità è sapere come sei quando non ti vedi, quando non sai di guardarti, quando ti guardano gli altri. Ma è poi vero che una raffica di foto potrebbe svelarti questo?  Nel migliore dei casi quello che ti si svela è solo un gioco di luci e di ombre. C’è tanta gente orribile che in fotografia viene benissimo. Quello che conta è avere le ombre nei punti giusti e allora ti si ritagliano forme intense. Le opinioni, a dir la verità, sono contrastanti. Nel libro che sto leggendo adesso si parla delle foto, soprattutto delle istantanee, degli istanti di verità appunto, come qualcosa di ignobile. L’autore dice che ogni scatto ti inchioda spietatamente a un’espressione, a un gesto, a una postura, estrapolandola dalla continuità del vivere e ti rende responsabile di un’immagine che mai avresti deliberatamente scelto di essere, consegnandola all’eternità come feticcio grottesco. L’autore del libro che sto leggendo scrive molto bene, si capisce, ma è uno di quelli che odia tutto e tutti, compreso se stesso, e forse non fa testo, come si dice. Però è vero che in un’istantanea c’è un che di sadico. Come strappare un frammento vivo da una sequenza sensata e farne caricatura. Così resti con un espressione beatamente stolida o con il braccio piegato in una torsione innaturale o a metà di un passo da cammello.

E poi Giorgio mi dice ancora, e non è stupido, qualche volta non è stupido, voglio dire, allora mi dice “ e poi tu non rendi, così spiaccicata… tu sei tu solo se ti muovi e occupi uno spazio reale ed emani calore. Fare una foto a te è come imbalsamare un pollo ” Avrebbe potuto almeno dire “imbalsamare un gatto”, ma non è così offensivo come sembra. In fondo per lui una cosa da mangiare è sempre potenzialmente un’opera d’arte. Ognuno ha le sue passioni. Però tutto sommato ha ragione. Io non sono fatta per il bidimensionale. Devo essere percorsa e devo transitare. È  soprattutto una questione di ritmo e una foto non ha ritmo. Per Mirella invece è diverso. Lei vivrebbe incorniciata se fosse possibile. Così non correrebbe il rischio di spiegazzarsi la gonna o di scompigliarsi i capelli. Credo che lo scopo principale per cui continua a farsi ritrarre in tutte le pose e contro tutti gli sfondi sia soprattutto quello di gratificare il fotografo. E la gratificazione in genere non si limita alla reflex. Si sa come vanno spesso a finire queste sedute lavorative.

Ma alla fine a lei non gliene frega niente di quelle immagini ritoccate che continua ossessivamente a spedire in giro. Anzi, sono convinta che, contratti a parte, disprezzi tutto quel giro di futilità.

Io invece ne ho bisogno. Cioè per me non è futilità.

Ho cominciato da bambina. I miei genitori avevano uno specchio biedermeier ovale e oblungo in camera da letto, lascito di zia Nora. Io entravo spesso in camera loro durante il giorno, naturalmente di nascosto, perché a loro dava molto fastidio quella frequentazione, e passavo delle mezzore a scrutarmi da ogni lato. Era come se cercassi di svelare un segreto, un segreto che continuava a sfuggirmi.

Tentavo di capire “come” fossi… cioè come ero quando non mi guardavo. Ma tentare di capire come si è quando non ci si vede, guardandosi, è come la storia del cretese mentitore. Non ce la puoi fare a venirne fuori. E così ci sono rimasta dentro, ingabbiata.

Non che avessi particolari insicurezze estetiche. Non mi adoravo ma neanche mi detestavo. E non avevo particolari fissazioni come capita a certi. Il naso storto per esempio o il mento che sporge o le guance pienotte. Non notavo niente di particolarmente stonato ma continuavo ad avere la sensazione di non capire.

Non capivo ad esempio perché ai presepi viventi delle recite scolastiche di fine anno sceglievano per fare la Madonna quella cicciona del primo banco, sgraziata e dallo sguardo ottuso, e mettevano me invece a fare la pecora sullo sfondo. Ovviamente ero ancora troppo giovane per mettere a fuoco con lucidità il concetto di raccomandazione. Ero invece convinta che una spiegazione oggettiva inerente al nostro apparire dovesse esserci. Così ho continuato a cercarmi in tutte le superfici riflettenti. Quando da adolescente ho cominciato a ricevere in regalo le prime palette di trucco, il fascino dello specchietto sorpassava di gran lunga quello di ombretti e mascara.

Da allora la situazione è costantemente peggiorata. Mi è capitato più di una volta di slogare lo specchietto retrovisore di una macchina per rispondere all’improvviso irrefrenabile impulso di guardarmi. Per fortuna non mi è mai successo di incrociarne i proprietari. Oppure c’è stato un periodo in cui tutti i chioschi di autoscatti fototessera erano miei. Non studiavo alcuna espressione particolare o alcuna variazione, tanto che le raffiche di foto uscivano monotone, quasi tutte uguali, tutte comunque tristissime.

E poi con l’ uso intensivo del cellulare la cosa ha preso un andamento a rotta di collo. Ho cominciato con i selfie.

La dimostrazione di quanto poco tutto questo abbia a che fare con vanità ed esibizionismo è il mio profilo instagram. A parte un certo interesse a decifrare la fisionomia altrui con quella stessa curiosità di indagine con cui indago la mia, quello che io posto non mi contiene mai se non di scorcio.

Mirella trova che sia una forma di perversione inconcepibile. Per lei postarsi a raffica è l’unica ragione plausibile di stare connessi. E lo fa senza alcun compiacimento o debolezza o autoindulgenza, con l’unico fine di trovare le pose giuste per raccattare più like possibile. Per lei è un lavoro. “tu non sei giusta… farsi foto e guardarsele da sé senza neppure eccitarsi è un vizio strano…”

E allora? mi sono convinta anch’io che è una sorta di vizio, come mangiarsi le unghie.

C’è chi si accende una sigaretta con il mozzicone dell’altra, chi mette la grappa nel primo caffè del mattino, chi non riesce a staccarsi dalla slot. Io mi guardo. Ancora oggi Giorgio crede che io sia una fanatica dello shopping. Tutte le vetrine sono mie. Ma quello che cerco nella vetrina non è una borsa o un paio di scarpe ma è il mio riflesso per quanto diafano e impreciso.

Lui non se ne è mai accorto fino in fondo. Cioè non ha piena coscienza del risvolto maniacale: per lui tutte le donne passano un sacco di tempo a specchiarsi ed io non faccio eccezione.

Non credo colga l’aspetto patologico dell’intera faccenda, che sono riuscita in tutto questo tempo a dissimulare. So però cosa direbbe se se ne accorgesse. Oppure se un giorno mi decidessi a consultarlo. Lui non sarebbe affatto d’accordo con Mirella. Per lui un vizio vero ha bisogno di libertà, della determinazione necessaria a contrapporsi a una virtù, della autonomia di scelta.

Qui invece si tratta di dipendenza. E la dipendenza non è un fatto di contesto o di intossicazione psicofisica progressiva . Per lui è solo una questione di carattere.

È  convinto che non esistano la dipendenze provocate da principi attivi. Esistono le personalità addicted, quelli che devono solo trovare un pretesto per incardinare la loro ossessione.

“Vedi….” mi ha detto un giorno “io potrei farmi di eroina, anche più di una volta… senza restare incastrato” Spero proprio che non gli venga l’idea perché non mi pare il tipo “smetto quando voglio”

Io non so se esistano le personalità addicted e se io sono una di quelle, ma so benissimo che non potrei smettere anche se lo volessi. Più che altro non lo voglio.

D’altra parte non so che senso abbia.

Qualcuno potrebbe dire che alla base di tutto c’è una forma di insicurezza. Continuo a guardarmi perché ho la sensazione continua di non essere a posto; ho paura che ci sia qualcosa che non va, un dettaglio qualunque. La verità è che in generale mi piaccio e se fossi un uomo e mi incontrassi mi punterei. Non è questo il dubbio che mi tormenta.

Ho sempre trovato un po’ patetici quelli che concludono ogni discorso sull’aspetto esteriore con “quello che conta è l’interiorità” e mi trattengo a fatica dal fargli notare che solo l’autopsia potrà dire una parola definitiva sulla loro bellezza interiore. Sono queste dissociazioni tra anima e corpo che uccidono lo spirito.

Quando distingui in questo campo semplicemente non sai di cosa stai parlando. Credi di dire qualcosa ma non stai dicendo niente.

Dunque non so che senso abbia, so solo che è una cosa che non riesco a non fare.

E dopotutto sono fermamente determinata a continuare. Ecco, quello che voglio scoprire un giorno da qualche parte nella mia fisionomia, a furia di scrutarmi, forse è proprio la scintilla; qualcosa di simile al lampo viola che una volta mi fece desiderare così intensamente il perfetto sconosciuto che l’aveva condiviso con me, davanti a un ingresso del Tube.

Oltre a ciò ho appena scoperto un aspetto interessante negli effetti collaterali del nuovo aspetto preso dalla faccenda. È  la reazione di Giorgio, che come dicevo, non si è mai accorto di niente riguardo alla mia ossessione, ma che è genericamente infastidito da quella che per lui è solo vanità femminile. Vedo che la storia del book non gli va giù. Lo fa incazzare e questo mi dà una soddisfazione nuova, piena di risvolti interessanti

Bene… alla fine ho deciso di rinunciare al book e per variare un po’ il gioco gli dico “ ne ho parlato a Luca… lui dice che è meglio un video… sì… penso che un video sia esattamente quello che ci vuole… tu che ne dici?”

Si è girato e mi ha guardato con compatimento, che poi è il suo modo controllato di mandarmi affanculo.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA NARRATIVA

Lascia un commento