PROSSIMITÀ ACCIDENTALE

5540463792_5ed995cd6a_bANDREA RACITI

 “(…) se la realtà è inconcepibile, allora dobbiamo forgiare dei concetti inconcepibili”

 G.W.F. Hegel, Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling

 Se esiste un legame tra poesia e filosofia, non può che emergere dal rapporto tra l’inconcepibile e il concetto. Questo rapporto si instaura all’interno del linguaggio. Il linguaggio è l’articolazione dell’inconcepibile e del concetto; solo una siffatta articolazione mette in luce l’ἦθος del linguaggio, cioè la sua dimora. Nel dimorare, il linguaggio è sempre abitato: la dimora è un esser-abitato. Ciò significa che l’articolazione dell’inconcepibile e del concetto, il dimorare, è la con-giunzione (˄) del radicamento e dello sradicamento assoluti nel linguaggio: se così si può dire, il suo e-radicamento.

Qui tenterò di mettere in luce in modo estremamente sommario il significato di questa articolazione non meramente fondativa, ma che guarda allo s-fondamento del fondamento: in questo senso il discorso non è rivolto soltanto alla ricerca di un’essenza, né all’essenza del fondamento, ma a ciò a cui il fondamento e la sua essenza non possono guardare. Nella relazione al non-poter-guardare abita l’essenza del fondamento, la quale si relaziona in modo sui generis a questa negazione della relazione. In ciò consiste la vita dell’Origine.

La vita a cui qui si può solo a mala pena accennare costituisce il legame tra poesia e filosofia, che vive nella con-giunzione, intesa come assoluta co-implicazione, tra il concetto e l’inconcepibile. Da un lato, la poesia, come in-sorgenza dell’inconcepibile nel concetto, ovvero come l’esigenza dell’inconcepibile di dirsi, di farsi concetto permanendo come inconcepibile. Dall’altro, la filosofia, come e-mergenza del concetto nell’inconcepibile, ossia come l’evento del concetto come esigenza di dire l’inconcepibile, quindi non solo permanendo come concetto e-venuto, ossia dall’inconcepibile, ma che in questo fuori mostra l’inconcepibile: il concetto è il farsi dell’inconcepibile, e solo in tal senso si pone come concetto. Se la realtà è inconcepibile, bisogna forgiare concetti inconcepibili: per Hegel vuol dire, come glossa Hyppolite nell’Introduzione alla filosofia della storia di Hegel: “L’inconcepibile nel concetto è l’antinomia, l’incontrare la contraddizione”.

La filosofia, quindi, scrive Adorno in Dialettica negativa, “non può né aggirare né piegarsi a tale negazione. Tocca a lei la fatica di andare oltre il concetto per mezzo del concetto”.

Il concetto si costituisce a partire dall’incontro, in sé, di sé e dell’antinomia, della contraddizione, ossia, dell’inconcepibile. Mentre il concetto è costituito nell’incontro, ovvero nel con-giungersi come co-implicarsi, l’inconcepibile è non solo l’incostituito, ma soprattutto l’incostituibile. Come tale esso, in quanto in-sorgenza, è solo rispetto al concetto: se il concetto non può dischiudersi come concetto se non nel farsi dell’inconcepibile, mentre quest’ultimo non può mostrarsi se non nel concetto, si deve concludere che solo nell’apparire di questo incontro sono pensabili la poesia e la filosofia. Non intendo qui riferirmi a poesia e filosofia come due mere “attività umane”, “discipline” o come dir si voglia, ossia come ciò che usualmente riduciamo ad una nostra “creazione”, dovuta ad un “autore” che scrive un’ “opera”. Ne parlo, piuttosto, come la duplice forma del luogo in cui è confitto lo stare (ἵστημι), come destino dell’essere dell’uomo; ma questo stare è l’e-radicamento come co-implicazione di radicamento˄sradicamento, concetto˄inconcepibile.

Se volessimo tentare di cogliere il significato di questo con-giungersi, di ciò che ci si staglia dinanzi come l’incontro tra l’inconcepibile e il concetto, potremmo intraprendere un breve Denkweg, un percorso che, nel pensiero, traccia una prossimità accidentale tra Leopardi, Hegel e Aristotele.

In primo luogo, è giusto far subito presente che con “prossimità accidentale” non alludiamo alla situazione di essere per mera casualità in un rapporto di vicinanza. Con quest’espressione, piuttosto, si fa cenno esclusivamente a ciò o a coloro che, nell’estrema e incolmabile distanza – data da una dilacerazione sulla quale non si possono innalzare ponti – si approssimano l’uno verso l’altro nell’essere accidentale (συμβεβηκός, accidens).

Come vedremo a breve, con questo nome non indichiamo affatto ciò che tradizionalmente è stato inteso come il mero inerire a qualcos’altro o ciò che è in altro, o il frutto del “caso”, bensì proprio quell’in-contro o la “e” in cui accade la co-implicazione tra radicamento e sradicamento come essenza del fondamento nel logos (e-radicamento): l’accidente è ciò che accade in quanto tale, (ac-cidens). Soltanto a partire da questa prospettiva si chiarisce il senso dell’inerire ad altro e del cosiddetto “caso”. Che all’apparire dell’essere accidentale in quanto incontro “concetto˄inconcepibile” si giunga da un confronto tra un poeta e due pensatori, è legato alla duplice forma del luogo in cui avviene l’incontro in cui si manifesta l’assoluta co-implicazione tra queste forme in quanto esigenze. Come scrive Heidegger in Introduzione alla filosofia, il pensare e il poetare ci toccano e ci attraggono in forza di “un oscuro nesso”: “Tanto il pensare quanto il poetare hanno (…) sempre il loro segno distintivo nel fatto di essere via via un meditare e un dire in cui viene alla loquenza la meditazione riguardo ciò che è. (…) La coappartenenza di pensare e poetare sembra essere così intima che talvolta certi pensatori spiccano proprio per l’elemento poetico del loro pensiero, e che certi poeti sono poeti solo per la vicinanza al pensare autentico dei pensatori”.

Nel nostro discorso, mentre in Leopardi emerge la vocazione filosofica che pertiene per essenza alla poesia non come modalità di espressione in versi (Poesie), ma come dire meditante (Dichten) dell’essere, in Aristotele e in Hegel emerge l’esigenza poetica del pensare (Denken) come domanda fondamentale (Grundfrage) sul senso dell’essere.

Tuttavia, questo Sinn non appare allo stesso modo in cui si presenta in Heidegger. Se si presenta al pensiero poetante il senso dell’essere come evento-appropriazione (Er-eignis), come avviene in Heidegger, ciò è possibile solo a partire da quell’incontro a cui il dire, qualunque dire, in quanto vuol-dire, non può guardare, ma a cui non può non relazionarsi. E l’incontro che s-fonda qualunque essenza del fondamento, qualsivoglia venga considerata tale e posta come tale, è la relazione a questa impossibilità costitutiva del dire di fondarsi, ossia la relazione di una non-relazione o a-relazione (termine usato anche da Khatib in Il frammento teologico-politico di Walter Benjamin, ma che io intendo in modo sostanzialmente diverso dal suo).

In Leopardi, com’è stato mostrato in modo illuminante anche da Severino (soprattutto in Il nulla e la poesia), si può parlare addirittura di un filosofo tout court, di uno degli “abitatori del sottosuolo filosofico” della nostra epoca. In ogni caso, è indubbio che, più che di una figura o di un momento, Leopardi si presenti come una sporgenza unica nella storia del pensiero occidentale, in cui il Denken e il Dichten appaiono nella semplicità del loro co-apparire e co-appartenersi.

Qui ci limitiamo a considerare due appunti dello Zibaldone datati 17/07/1821. In uno di essi, Leopardi si addentra in una riflessione concernente un dettaglio linguistico da cui emerge un pensiero vertiginoso che investe con immane potenza la nostra questione.

In quest’annotazione, il poeta si interroga sulla natura linguistica di “gli”, “gn” e altri suoni simili presenti nella lingua italiana. Secondo Leopardi, benché “gli” partecipi a un tempo del suono “g” e del suono “l”, in realtà “non è nè g l, e non contiene precisamente nessuno dei due, ed è una consonante distinta, ed unica (…); il che dimostra la sottigliezza con cui s’è analizzata la voce articolata, fino a decomporre parecchi suoni che non equivalgono precisamente a verun altro. (…) La mia osservazione ancora può molto servire a mostrare quanto la scrittura materiale italiana e il suo sistema sia più filosofico, e al tempo stesso più naturale che forse qualunque altro”.

Insomma, agli occhi di Leopardi, il carattere di superiore filosoficità che distinguerebbe già il mero aspetto grafico (“la scrittura materiale italiana”), nonché il “sistema” della lingua italiana, risiederebbe in una sorta di tendenza fondamentale – costitutiva di e immanente a essa – alla sintesi; tendenza che si manifesta in casi paradigmatici quali i suoni “gli”, “gn” e simili.

Questa sintesi non è altro che una doppia trascendenza che accade nell’esperienza: la metafisica propria dell’empirismo, si manifesta in Leopardi come doppio annichilimento dell’empiria a partire dall’empiria. Nel suono “gli”, il nuovo ente linguistico, ad un tempo, partecipa dei suoni “g” ed “l” e li annienta: nel suo inerirvi li oltrepassa, pur persistendo in essi, senza contenerli.

L’empirismo, come avviene anche in Hume, lungi dall’identificarsi con la triviale tesi della provenienza della conoscenza primariamente dall’esperienza (dato con cui anche un cosiddetto “razionalista” può ben concordare, ci ricorda Deleuze in Empirisme et subjectivité), si presenta piuttosto come la posizione metafisica più radicale – anche in Leopardi.

Questa metafisica dice questo: nella e dall’esperienza si costituisce qualcosa che la trascende, pur rimanendo confitta nell’esperienza. Secondo Deleuze, in quest’oltrepassamento apparentemente paradossale, si inscrive l’autocostituirsi del soggetto. Tuttavia, il filosofo francese non fa alcun riferimento alla natura propria di questa trascendenza, ma lascia come legato al pensiero il compito di elaborare una “teoria dell’accidente”.

Con la trascendenza propria dell’empiria, o essere accidentale, si intende il luogo in cui accade il doppio annichilimento dell’ente, una nientificazione che lo costituisce in quanto ente: nell’accidente accade, al contempo, l’annientamento del “gli” come composto (dato che esso è la negazione di sé come mera unione), e l’annientamento degli elementi primi da cui il “gli” si costituisce come tale (ossia “g” ed “l”), tale che l’incontro tra il concetto e l’inconcepibile non sarà altro, allora, che la con-giunzione (˄) intesa come inerenza dello sradicamento al radicamento assolutamente intesi, e viceversa: annichilimento di sé come unità e di sé nei propri elementi.

Con l’essere accidentale si fa segno all’a-relazione, ossia al ri-volgimento (καταστροφή) dell’ente a sé in quanto fuori-di-sé. Il che non significa che si compia un’estasi idealistica, bensì la vera autoctisi dell’ente, in cui l’essenza del fondamento, o detto altrimenti, il dire in quanto tale, si costituisce nella propria incontrovertibilità a partire dall’assolutamente contro-vertibile: se il dire quo talis esige di essere, ossia di essere un voler-dire, un signi-ficare anche quando questo significato si presentasse come il rigetto di ogni significato (pur sempre, quindi, un significato) – dovrebbe sempre riferirsi a ciò che lo s-fonda, alla sua non-essenza (Un-wesen).

In altre parole: come dobbiamo intendere il fatto che il dire, in quanto tale, sia sempre, necessariamente e  incontrovertibilmente, un voler-dire, un significare? E, parimenti, come dobbiamo intendere, il fatto che l’ente, necessariamente e incontrovertibilmente, sia, ovvero che sia l’ente e non possa non esserlo?

Questo fatto, che è la natura propria del dire, sfugge all’essenza del fondamento: l’essere del dire, come tale, non è a disposizione di sé, o, rectius, il dire non può che essere il dire; è necessitato ad esserlo, ma questa necessità non gli appartiene. L’essenza del fondamento è infondata, o, meglio, s-fondata.

È, in questo senso, accidentale. Il fondamento non guarda, e, invero, non può guardare, alle spalle di se stesso. La relazione tra il fondamento e l’impossibilità di guardare alle spalle della necessità di essere il fondamento, ovvero di com-prendere l’incontrovertibilità che non è a disposizione di se stessa, la chiamo essere accidentale, che perciò è non-essenza, a-relazione, e-radicamento e a-concettuale. La medesima dinamica vale per l’essere dell’ente, la cui necessità di essere, in quanto indisponibile a sé, è s-fondata dall’essere accidentale.

Torneremo su Leopardi a breve, ma vediamo come la dinamica che emerge nel primo appunto che abbiamo esaminato si fa innanzi altresì in alcune considerazioni hegeliane. Infatti, la legge che presiede all’auto-generazione del suono “gli” presiede anche alla formazione della “parola sonora” che Hegel indaga, in particolare, in alcune opere fondamentali del periodo jenese (1801-1807). Qui, per brevità, ci rifacciamo soltanto ad alcune considerazioni contenute nel System der Sittlichkeit. In questo testo, Hegel espone il processo triadico in cui si articola la parola: a) soggettività del gesto; b) oggettività del segno corporeo; c) la parola sonora come sintesi dell’oggettività del segno e della soggettività del gesto. La parola sonora è “l’articolazione di quest’ultimo con l’essere-per-sé del primo; essa è il medio delle intelligenze, Logos, il loro vincolo razionale”.

La parola sonora, o Logos, è, quindi, articolazione. E articolare vuol dire fare ciò che la voce dell’animale non può fare, ossia ri-volgersi a sé come fuori-di-sé, operare su di sé una violenza, da intendersi come l’auto-alterazione del sé in quanto annichilimento degli elementi ineriti: in questo caso, il gesto e il segno corporeo; la parola sonora partecipa di entrambi, ma non è né l’uno né l’altro, come nello “gli” di Leopardi. Infatti, prosegue Hegel: “La voce dell’animale proviene dalla sua puntualità, o dal suo essere concettuale, ed appartiene, come la totalità di questo, alla sensazione; se la maggior parte degli animali urlano nel pericolo di morte, ciò è senz’altro solo un sortire dalla soggettività (…) la cui più alta articolazione nel canto degli uccelli pur sempre non proviene dall’intelligenza”.

Ma in cosa consiste, dunque, l’intelligenza, che si manifesta nella parola sonora? La risposta di Hegel è quantomai controintuitiva e rivela a fortiori la sua prossimità accidentale a Leopardi: “L’assoluto isolamento, in cui la natura è interna all’intelligenza, manca all’animale, esso non l’ha ripresa in sé e non ha fatto nascere la sua voce dalla totalità che si trova in questo isolamento (…). La corporeità della parola rappresenta la totalità riassunta nell’individualità; l’assoluto irrompere nell’assoluta puntualità dell’individuo”.

In altri termini, il percorso dalla voce alla parola, dall’urlo di dolore o di piacere all’indicazione del giusto e dell’ingiusto, insomma, dalla phonè al logos, non sta in un presunto “passaggio”, né tantomeno, in una “evoluzione” dalla voce alla parola, bensì nel ri-volgersi della natura in se stessa, in un’auto-alterazione, tale che la natura, nella parola, è già-sempre “ripresa in sé”: l’intelligenza è la natura “interna all’intelligenza”, la  βία come essere accidentale, in cui ac-cade la doppia trascendenza/annientamento dell’esperienza a partire dall’esperienza.

Per questo, Hegel – che in forza di ciò si presenta qui come uno dei pochissimi fautori di una metafisica dei corpi nella storia del pensiero occidentale – può affermare che solo in quanto “corporeità” la parola rappresenta la “totalità riassunta nell’individualità”, quale “assoluto irrompere nell’assoluta puntualità dell’individuo”: la voce articolata (logos) non è né l’universale come in-sé né il particolare per-sé, ma la doppia negazione (oltrepassamento) che, permanendo negli elementi negati e costituendosi da questi, si presenta in-sé-e-per-sé, ossia come l’irruzione che s-fonda, ossia sta come totalità nel frammento.

Ma cosa ci ha condotto ad affermare che, anche a quest’altezza, la prossimità accidentale tra Hegel e Leopardi si fa più evidente? Si tratta del riferimento fondamentale alla voce articolata.

Infatti, abbiamo visto che per Leopardi la superiore filosoficità della lingua italiana consiste nella “sottigliezza con cui s’è analizzata la voce articolata”. Si è mostrato come anche in Hegel questo riferimento sia la chiave di volta per comprendere la a-relazione tra la voce (l’inconcepibile) e la parola sonora (il concetto). Evidentemente, sia Leopardi che Hegel non fanno riferimento per puro caso al concetto di “voce articolata”. L’allusione è chiara, e sa di citazione diretta che non abbisogna di note a piè di pagina. Sia il poeta che il filosofo si riferiscono a quel luogo del pensiero occidentale in cui è stata mostrata nella maniera più rigorosa e chiara l’essenza della parola umana: questo luogo è il pensiero di Aristotele. Addirittura, Leopardi, riferendosi esplicitamente all’analisi della voce articolata, sgombra ogni dubbio sul fatto che l’indagine sul rapporto tra concetto e inconcepibile, tra parola e voce, si svolga all’interno di quella scienza analitica fondata da Aristotele – che solo in seguito fu  chiamata “logica” –, ma che, in quanto organon dellepisteme, pervade e governa l’intero corpus aristotelico.

Nel trattato De interpretatione, Aristotele scrive che il linguaggio è “ciò che è nella voce”.

A ragione Agamben, in Che cos’è la filosofia?, a questo riguardo scrive che “lo scopo del trattato (…) Sull’interpretazione non era soltanto quello di assicurare il nesso fra le parole, i concetti e le cose, ma, prima ancora – situando il linguaggio nella voce – quello di assicurare il nesso fra il vivente e la sua lingua. L’analisi della lingua presuppone un’analisi della voce”.

Tale è la rilevanza della tesi del situarsi del linguaggio nella voce, che qui si è definita come la a-relazione tra il concetto e l’inconcepibile, che riscontriamo la sua permanenza anche in trattati diversi da quelli di “logica”: nella Metafisica, ove è ribadito e specificato quanto è già  affermato nel De interpretatione, ossia che la voce si articola in linguaggio attraverso dei segni – che nella Metafisica son definiti “stoikeia”, “elementi” – della voce, ossia le lettere; nella Politica abbiamo  la distinzione tra lo voce e la parola, tale che se con la prima l’animale, compreso l’uomo, esprime il piacere e il dolore, con la seconda soltanto l’uomo manifesta il  giusto e l’ingiusto, l’utile e il dannoso, il bene e il male; nell’Historia animalium il linguaggio è definito come “l’articolazione della voce con la lingua”.

Tuttavia, in Aristotele, posto che il linguaggio non sia altro che l’auto-alterazione/articolazione della voce, il suo ri-volgimento violento che costituisce l’umano nella sua a-relazione permanente all’inumano, resta impensato il fatto che fa di questo incontrovertibile, di questo necessario, ciò che è: ossia, ciò che rende il dire un voler-dire e, specularmente, ciò che rende ente l’ente.

L’accenno alla risposta a questa domanda è contenuto in un’altra annotazione leopardiana del 17/07/1821. Si tratta ancora di una risposta intrisa dell’ontologia aristotelica della sostanza e dell’accidente, e, come tale, ancora non viene formulata nei termini della metafisica dell’essere accidentale che qui sono stati sommariamente abbozzati. Ciononostante, e, anzi, proprio grazie all’aristotelismo di fondo che la caratterizza, la risposta di Leopardi, partendo da Aristotele, guarda oltre Aristotele: non in quanto triviale “superamento”, bensì nel senso che la sua risposta è il cenno all’elevarsi dell’aristotelismo alla verità sua propria, che rimane inabissata nello stesso Stagirita. Secondo Leopardi, una volta distrutte le forme platoniche preesistenti alle cose,

“non v’è altra possibile ragione per cui le cose debbano assolutamente e (…) necessariamente essere così o così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni (…) accidente, da ogni cosa di fatto, che in realtà è la sola ragione del tutto (…); e quindi la convenienza delle cose tra loro è relativa, se così posso dire, assolutamente”.

In questo cenno all’accidente, come luogo in cui l’assoluto, nel convenire delle cose tra loro, conviene assolutamente al relativo, il Tutto abdica al suo ruolo di ragione di sé, la quale è riconosciuta, infine, come indisponibile a se stessa.

Il cenno è lo sgomento del fondamento dinanzi a ciò che non può guardare.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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