IL DEBITO DELL’ASSENZA: FRAMMENTI KAFKIANI IN SARAH KOFMAN E JOHN M. COETZEE

kofmanVIVIANA VOZZO

La rinnovata attenzione verso il corpus kafkiano nel centenario della sua nascita, la quale si aggiunge a una già consistente e multiforme produzione critica, ha, forse, tra i suoi compiti quello di domandare perché il compito di leggere Kafka secondo una prospettiva non solo letteraria, ma anche filosofica, non sia ancora esaurito, nonostante il problema della consistenza del corpus stesso: frammentaria, parcellizzata, indebitamente rimaneggiata da Max Brod o, per buona parte, amputata dallo stesso Kafka. Intendo qui considerare, brevemente, tale frammentarietà e ipotizzare come questa costituisca un debito ontologico nella scrittura di Sarah Kofman e John M. Coetzee. La scelta di limitare e isolare così l’analisi alle sue disseminazioni, oltre che per motivi squisitamente metodologici, è dovuta alla radicalità che l’influenza kafkiana raggiunge tanto sul versante filosofico nella prima, quanto su quello letterario nel secondo. Tengo qui separati letteratura e filosofia come discipline, non potendo trattare il ricco dibattito che ora le tiene insieme, ora le respinge. Tuttavia, è opportuno ribadire come in Kafka, Kofman e Coetzee il confine, se esiste, è piuttosto labile.

Kafka e Kofman: l’innesto

La radicalità del debito tra Kafka e Kofman si configura come legame di identità a partire dal nome. Tombeau pour un nom propre (1997, postumo) è un processo di fusione letterale da Kafka a Kofman, fino alla sua risoluzione tragica che anticipa il suicidio (“sarcofago”). La scrittura di Kofman è, inoltre, frammentaria e lacerata nel suo stile perché legata all’assenza del padre. Mentre Lettera al padre (1919) di Kafka è un commiato, un modo per prendere distanza dal padre attraverso la scrittura per ribadirne la differenza, in Kofman è un cordoglio soffocato. Bereck Kofman, infatti, deportato e morto ad Auschwitz, raramente è menzionato in modo diretto, eppure la sua “presenza-assenza” è tangibile e variamente disseminata. L’incipit di Rue Ordener, rue Labat (1994) – “di lui mi rimane solo la penna” – è uno dei pochi riferimenti espliciti che rileva – non a caso – un riferimento alla scrittura come assenza e, parimenti, attestazione di esistenza per mezzo della penna. È proprio nell’assenza, nella mancanza strutturale che emerge il frammento, che prova a definire i contorni di un’identità che non può che essere racchiusa in qualcosa che non c’è. Così in Giuseppina la cantante ossia Il popolo dei topi (1924) di Kafka, l’identità di Giuseppina è definita a partire da qualcosa che è mancante: Giuseppina è una cantante, ma il suo canto è, in realtà, solo un fischio, “un nulla di voce”. Il frammento nella scrittura di Kofman diventa graffio in Autobiogriffures (1976) dove, a partire dal racconto di Hoffmann Il gatto Murr (1820-22), Kofman riprende il tortuoso adattamento di un gatto alla scrittura, nella sua tragicomica indecifrabilità, mostrando come il graffio del gatto, oltre a rimandare con un rovesciamento all’argomento animale delle parabole kafkiane, si costituisce come punto di disgiunzione, lacerazione della scrittura stessa. Qui la persistente concezione della scrittura come graffio, che si gioca nell’ambiguità tra artiglio e concetto, griffe e begriff, dissolve il confine tra segno e significante, mostrando una paradossale dimensione di apertura che viene ulteriormente ereditata da Kafka. Lo stesso racconto di Hoffman è un insieme di frammenti: il racconto del gatto Murr si alterna a strappi, correzioni dell’editore, per concludersi incompiuto con la notizia della morte improvvisa del gatto. Il processo di adattamento alle usanze umane mette in discussione i confini tra animali umani non umani, in un rovesciamento gioioso, che è, tuttavia, finzione alla maniera di Pietro Il Rosso di Una relazione per un’Accademia (1917) di Kafka. Ne emerge un riconoscimento dell’alterità che trova il suo innesto (greffe) proprio nel frammento e, anche in questo caso, ricerca dell’identità laddove invece si apre uno spazio infinito, nel punto più lacerato.

Kafka e Coetzee: il “corpo-altro”

Il debito di J.M. Coetzee nei confronti di Kafka è consistente e riguarda innanzitutto la disseminazione dei topoi tipici kafkiani che spesso trovano voce in Elizabeth Costello, personaggio ricorrente e alter ego di Coetzee che, nel romanzo omonimo (2003), con “il suo corpo fedele e goffo” si confronta con la parabola Davanti alla legge (1914) oppure nel rapporto continuamente discusso da Coetzee con gli animali non umani. Tuttavia il debito più consistente è riconducibile non tanto all’occorrenza dei temi o allo stile – per esempio la raccolta di elzeviri e frammenti di Diario di un anno difficile (2007) – quanto al profondo senso di estraneità che la forza della scrittura produce nel dialogo con i propri limiti. L’accezione morale della scrittura di Coetzee emerge nella condizione di apertura delle possibilità che è prodotta, paradossalmente, dalla consapevolezza del venir meno del corpo. Analogamente alla porta della legge che apre all’infinito nel momento della sua chiusura, così Coetzee determina l’apertura delle possibilità etiche nel momento in cui si opera una conversione dello sguardo causata dal confronto forzato con l’alterità che è assenza irriducibile.

Come in Kafka e Kofman, anche in Coetzee la relazione con l’alterità si traduce in termini di “finzione”. Infatti, il tentativo di identificazione del soggetto con l’alterità e della scrittura col corpo producono uno scarto della percezione dove “finzione” è il tentativo estremo di afferrare tale scarto costituendo tout court una scrittura fatta di corpi, dunque una scrittura del corpo-altro. Si tratta di corpi deformati, spesso anziani, dai quali emergono violentemente disagi fisici che si ripercuotono sulle interazioni emotive e sociali poiché si scontrano con gli sforzi alla realizzazione del desiderio. Paradossalmente la ricerca del desiderio non produce una forza erotica positiva volta al miglioramento di sé, ma un impedimento che mostra il proprio abbruttimento. L’incontro con l’alterità a partire dal limite del corpo diventa, quindi, uno “spogliarsi”, una dissonanza della percezione come atto di destrutturazione della soggettività e, in ultima analisi, rimodulazione della prospettiva morale. “Sono intero”, si chiede Coetzee in dialogo con A. Kurtz, “o sono dei frammenti tenuti insieme da quella che temo possa essere una finzione?”. Un caso emblematico è quello di Slow Man (2005) in cui la gamba amputata del protagonista costituisce opportunità narrativa per descrivere un sé parimenti amputato, frammentario. La scrittura diventa nel romanzo un’esigenza autobiografica ricorrente, quasi ossessiva; metodo per conoscere se stessi prendendone contemporaneamente le distanze, secondo una dissonanza della percezione originata da un corpo che non risponde. Scorgere l’alterità in questo venir meno è, per Coetzee, responsabilità e, insieme, colpa morale poiché scopre la ferita più profonda: l’impossibilità di inquadrare la realtà in un ordine armonico dove il corpo dell’altro è sempre il corpo ideale che non ci appartiene. I corpi d’ebano, nella loro perfezione muscolare, ricordano a Elizabeth Costello lo splendore dei corpi della Grecia classica e si sovrappongono al corpo martoriato della “ragazza barbara” di Aspettando i barbari (1980) che appare insieme perfetto e sfilacciato, segnato dalle torture che alimentano l’indicibilità della scrittura. A queste immagini si contrappone, in una dialettica rovesciata, il corpo bianco del “dominatore” che invece è sempre debole, imperfetto, leso da incidenti o dalla vecchiaia e sempre moralmente mutilato. Queste ricorrenti contrapposizioni rappresentano un modo per la scrittura coetziana di confrontarsi con l’alterità nella sua forma estrema: i contorni dell’altro sono sfumati, trasmettono presenza e, contemporaneamente, assenza come i barbari che sembrano non arrivare mai e la cui attesa alimenta il senso di spaesamento e di estraneità. Questa ambiguità della scrittura definita a partire dall’estraneità, analogamente alla scrittura di Kafka, mostra la sua portata etica e politica: è innanzitutto un confronto con i resti del postcolonialismo e con le torture dell’apartheid.

Sembra esistere, però, un punto di congiungimento con l’alterità: il corpo appare finalmente in un contesto armonico, un punto in cui, dunque, la dissonanza viene meno, connettendo, seppur temporaneamente, l’interno e l’esterno, senza inglobarlo in una unione omnicomprensiva, proprio nel momento più lacerante: la “carezza”. Il corpo-altro, infatti, non può essere sussunto, ma può essere accarezzato e abbracciato. Non a caso, il congedo delle sorelle Costello non ha contatto fisico. Anziane e malate, probabilmente non rincontreranno più, qualsiasi effusione corporea è negata, lasciando il vuoto dell’assenza. Viceversa, uno degli esempi più paradigmatici è la carezza che David Lurie in Vergogna (1999) riserva ai cani al momento della soppressione. L’unione corporea che opera nel momento in cui cessa il desiderio di afferrare razionalmente e fisicamente l’altro è un guizzo dal quale si intravede una nuova dimensione di conoscenza che accetta l’irriducibilità dell’alterità, riconoscimento della disgiunzione.

La presenza di Kafka emerge, dunque, naturalmente, quanto in Kofman, tanto in Coetzee, anche laddove non sembra essere il diretto interlocutore. Fondamentale il fardello della responsabilità che Coetzee e Kofman affidano alla scrittura, soprattutto quando la violenza narrata si fa indicibile. L’assenza ontologica, qui brevemente sintetizzata e intesa come mancanza, distanza e alterità, sembra sì mettere in discussione l’identità e con la finzione rimandare e istituire connessioni verso un altrove indefinito. Ma il debito di Kafka è questo: l’altrove è già qui, presente nell’immagine. Non si tratta di cercare una via di fuga come il topo di Favoletta (1920) che non si accorge del pericolo più grande, ovvero la presenza del gatto; si tratta, piuttosto, di continuare a esplorare l’assenza, cercare di tastarne i confini.

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