LA METAMORFOSI: IL CINEMA TRA LE RIGHE

2300-v1-formatkey-webp-w1920r (1)EUSEBIO CICCOTTI

“Quando Gregor Samsa si risvegliò una mattina da sogni tormentosi si ritrovò nel suo letto trasformato in un insetto gigantesco”. Questo il celebre inizio della La metamorfosi (1915) di Franz Kafka. L’autore scaraventa il lettore dentro una situazione già esistente, in medias res. Questa caratteristica fa del racconto un testo che vive di ellissi. Qualcuno potrebbe affermare, a ragione, che la narrativa novecentesca inizi con La metamorfosi. Kafka, in questo racconto lungo, sperimenta una particolare tecnica diegetica: a descrizioni dettagliate dello stato psicofisico del personaggio fa seguire improvvise impennate, scarti, svolte dell’azione, oggetti e personaggi che una forza esterna scaraventa nell’apparente status quo. E ciò, nonostante un assurdo e spietato happy end. Inoltre, dal punto di vista del “tema”, Kafka introduce per primo il registro dell’assurdo, un “genere” tipicamente figlio del XX secolo.

Lo sviluppo del récit vira sul versante dell’irrealistico, del non accadibile nel mondo delle leggi da noi conosciute. Ossia, un uomo trasformato in scarafaggio che continua a ragionare e a vivere i suoi sentimenti come un uomo. In effetti, la storia della letteratura, prima del 1915, offriva almeno due esempi classici di metamorfosi: l’asino di Apuleio e il Pinocchio di Collodi: un animale e un pezzo di legno che mantengono le facoltà umane. Di lì a qualche anno si sarebbe aggiunto anche un cane in grado di osservare e ragionare come un uomo (Cuore di cane, 1925, di Mikhail Bulgakov). Tralasciamo tutti i personaggi, mitologici e fantastici, classici e moderni, fusione di attributi divini, umani e animali, quali dèi, maghi, streghe, animali parlanti, che hanno sempre accompagnato il percorso della letteratura e dell’arte in generale sul versante del “fiabesco”.

Forse, per fare un po’ di chiarezza, ci può aiutare un classico: La letteratura fantastica di Tzevan Todorov. Lo studioso bulgaro, di formazione francese, suddivide la narrativa in tre macrogeneri: il meraviglioso, il realistico, il fantastico (quotidiano). Nel meraviglioso vengono ricomprese tutte quelle storie che avvengono fuori dalle leggi naturali, almeno quelle conosciute sino al momento della stesura del testo. Quindi, fate, maghi, animali parlanti, esseri para-umani di altri pianeti, statue che si animano (dalla Venere d’Ille di Prosper Merimée, e, aggiungiamo noi, Der Golem di Gustav Meyring), ecc. Nel realistico, personaggi e fatti attestano l’esistenza e l’accdibilità quotidiana. Nel fantastico quotidiano, quei fatti che potrebbero accadere, ma di cui non abbiamo avuto ancora un esempio concreto, o che si possono esser verificati ma non disponiamo di prove oggettive e attendiamo che diventino “quotidiani” e osservabili in successive repliche.

Nel fantastico quotidiano, potremmo inserire, ad esempio, diversi racconti e romanzi di Dino Buzzati. I tartari del Deserto dei Tartari sono reali oppure vivono solo nella fantasia del protagonista, il tenente Giovanni Drogo? Sia l’ipotesto di Buzzati che il film di Valerio Zurlini rimangono nel fantastico quotidiano: è possibile che i Tartari esistano e stiano per invadere l’Europa. Ma non ne abbiamo la certezza.

Spesso l’autore di un testo letterario o di un film lascia che l’opera viva in questo spazio della possibilità, in questo limbo tra assurdo e quotidiano (il noto finale aperto amato alla follia da editori e produttori di film: garantisce la saga): si pensi, ma a quel tempo per scelta estetica e non commerciale, a film quali L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais o a L’homme qui mente di Alain Robbe-Grillet.

Per poter sospendere la diegesi tra non accadibile e accadibile, tra meraviglioso e realistico, ossia rimanere nel fantastico quotidiano, l’autore descrive l’avvenimento con una precisione e una documentazione così realistica, in un contesto dichiarato illogico sia rispetto alla stessa storia volutamente ambigua (la presenza reale di Tartari; l’incontro a Marienbad c’è stato oppure no?), sia rispetto alle nostre conoscenze scientifiche e tecniche del momento (l’arrivo dei marziani sulla terra).

Seguendo le avventure di Pinocchio burattino dimentichiamo che egli è un burattino e non potrebbe parlare, mangiare, correre, andare a scuola (anche se poi la marina e va al teatro dei burattini di Mangiafuoco, ecc.). Quindi, quando noi lettori entriamo in una storia irrealistica (come nel buco dove finisce Alice), sin dalle prime righe o capitoli, dobbiamo acquisire il passaporto della irrealtà. Dobbiamo credere che quella storia sia “vera”, altrimenti addio al piacere del testo. Esattamente come quando entriamo in una sala e ci sediamo aspettando che si spenga la luce e inizi una vita replicata sullo schermo.

Ora, sappiamo sin dall’incipit che Gregor Samsa si è svegliato trovandosi trasformato in uno scarafaggio. Sino alla fine del lungo racconto abbiamo sperato che nelle ultime righe si potesse leggere una frase del tipo “Un gran rumore scosse l’appartamento di Gregor Samsa. Dei muratori erano arrivati e avevano iniziato a battere. Gregor si svegliò. Erano le sette. Era in ritardo. Doveva sbrigarsi per andare al lavoro”.

Se avessimo avuto un finale di questo tipo si sarebbe trattato di un racconto realistico, con all’interno un incubo. Un racconto pre-novecentesco. La trama, del resto, avrebbe mantenuto tutti i temi cari a Kafka: lo stress del ripetitivo lavoro quotidiano, la freddezza dei colleghi sul posto di lavoro, la piccineria dei tre pensionanti, resi come ectoplasmi, l’egoismo dei suoi familiari.

Ma il fatto che Kafka chiuda in senso realistico (la morte dell’uomo scarafaggio estintosi in semplice secca poltiglia, la gita in campagna della famiglia liberatasi dello scarafaggio-uomo-figlio-fratello) una metamorfosi irrealistica, colloca il racconto su un piano altro: quello dell’allegoria. Ossia, al termine del percorso finzionale, il lettore rimane affascinato e angosciato non solo per la trasformazione e la fine di Gregor, ma per come egli debba portare la sua croce (anche simbolicamente: la mela conficcata per giorni sulla schiena che creerà infezione). Il lettore sa che nella vita quotidiana un uomo non può diventare uno scarafaggio. Ma rimangono presenti delle situazioni realistiche: il disperato razionalizzare di chi è colpito da una improvvisa disabilità; il non accettare la sua “disabilità” da parte dei familiari; l’indifferenza e la durezza del suo datore di lavoro; e il desiderio della famiglia, e soprattutto della amata sorella, di sbarazzarsi di questo essere inutile.

Soprattutto, giunge netta al lettore una metamorfosi realistica: quella del padre, della madre e della sorella. Da familiari apparentemente amorevoli e soddisfatti dello stipendio di Gregor, che si aggiungeva a quello del padre (fattorino), della madre (sarta e ricamatrice a domicilio) e della sorella (commessa), bilancio che consentiva anche dei ricevimenti per amici in casa, in familiari che disprezzano il nuovo stato di Gregor e pianificano di sbarazzarsene poco prima che arrivi la morte naturale dell’uomo- scarafaggio (ma il messaggio allegorico è chiaro: Gregor è ucciso della cattiveria e dall’egoismo dei genitori e della sorella). Da familiari depressi, insoddisfatti, macilenti e tristi, a gioiosi, scattanti e felici dopo la morte di Gregor.

Quello che più ci intriga nella rilettura della Metamorfosi è la costruzione dell’aspetto visivo, “cinematografico”, che in alcune parti del racconto fa da traino narrativo alla storia dopo essersi soffermata su argomentazioni psicologiche e filosofiche, sia a opera del personaggio che del narratore esterno.

Dobbiamo considerare che Franz Kafka era un buon spettatore cinematografico. Si recava regolarmente al cinema nelle sale del centro di Praga.

“Siano nel 1913 e, colpito da un soggetto comico, appena rientrato in casa, lo racconta a sua sorella (Ottala, la più amata), “[…] nella stanza da bagno”. Ma il cinema, tra l’altro quello commerciale, trova nelle sue note l’onore di una sinossi di un film che rispecchia lo stile asciutto ed ellittico degli stessi Diari, celebri per il loro frammentismo, che qui prende forma di una mini recensione, concentrata sulla recitazione del personaggio principale. “Il milionario nel film Schiavi dell’oro. Arrestarlo. La calma, il gesto lento e misurato, il passo rapido se necessario, il guizzo del braccio. Ricco, viziato, cullato, ma si alza di scatto come un servo e perlustra la camera dell’osteria del bosco, nella quale è stato rinchiuso”.

Anche nei momenti di crisi Kafka si rifugia nelle sale di cinema. A Praga come all’estero, il 16 giugno 1913 ha inviato per iscritto, finalmente, la proposta di matrimonio a Felice Bauer. Ma te giorni dopo, in una successiva lettera (si scrivono ogni giorno) parla del suo desiderio “di solitudine in cui ama sprofondarsi sino a perdere la coscienza” e magari va in sala. “Egli si reca al cinema per dimenticare. Non trova luogo meglio della sala per raggiungere questo piacere”. A Verona piange nel buio della sala perché “(…) ho avuto il dono delle relazioni umane ma non quello di poterle vivere”.  

Naturalmente il cinema degli anni Dieci (ad eccezione di Intolerance, D. W. Griffith, 1916) non esibiva quel linguaggio di codici articolati che poi acquisirà a partire dal biennio 1921-1923. Il cinema di quegli anni si muoveva ancora all’interno di una narrazione autarchica. Ossia tutto l’accadimento era contenuto nella cornice del quadro cinematografico. Non vi erano azioni del profilmico (attori, esistenti e oggetti) che alludevano/presentavano un’azione iniziata fuori dal perimetro o che continuasse oltre questo. (Tranne eccezioni come appunto in Intolerance, in cui abbiamo i primi campi/controcampi, i ppp, i “particolari” del volto, i primi sontuosi carrelli e gru in cui si spezza il recinto autarchico dell’inquadratura rigida e autosufficiente di stampo teatrale).

Tornando sul versante del letterario, va da sé che la letteratura ha sempre raccontato azioni anticipando quello che poi il cinema adotterà chiaramente. Ad esempio, il montaggio alternato, tecnica rinvenibile sia nella poesia dell’Orlando furioso  che nella narrativa: da Charles Dickens ( soluzione cara a Ettore Scola: me ne parlò personalmente) ad Alessandro Manzoni a Lev Tolsoj. Il flash-back rinvenibile nell’Odissea; l’uso del dettaglio in Iliade XVIII canto (lo scudo di Achille). Persino l’inquadratura in campo lunghissimo: un esempio per tutti: il padre del “figliol prodigo” che vede suo figlio “da lontano” e lo riconosce quando è appena una sagoma, Vangelo di Luca. Cercheremo di individuare alcune (non tutte) soluzioni filmiche che Kafka “adotta” nella Metamorfosi, ascrivibili al linguaggio del cinema degli anni Dieci o al linguaggio più evoluto, quello successivo, e, quindi, rientrante nella pre-figurazione, dunque nel pre-cinema.

Il montaggio in alternato. Mentre Gregor deve affrontare il suo nuovo stato fisico, all’interno della sua stanza, fuori di questa, nel soggiorno e nelle camere limitrofe, gli altri personaggi si muovono e parlano. Quindi l’occhio del lettore viaggia da una stanza all’altra. Così anche si muove un altro senso: l’udito. Gregor sente la madre, il padre, la sorella, cui deve rispondere, cambiando posizione, per quale ragione non è ancora uscito dalla sua camera; è in ritardo. “[…] Gregor si trovava ancora in casa e il padre si era già messo a bussare alla porta, debolmente ma col pugno. “Gregor, Gregor”, gridò, “che cosa c’è?”. E dopo un breve intervallo tonò con voce profonda: “Gregor! Gregor!”. Dietro l’altra porta la sorella bisbigliava “Gregor? Non ti senti bene? Hai bisogno di qualcosa?”. Gregor rispose in entrambe le direzioni”.

L’uso innovativo della soggettiva con un ricorso al p.p.p. e al dettaglio (le tremolanti zampette). “Giaceva sulla schiena dura come una corazza e sollevando un poco il capo poteva vedere la sua pancia convessa, color marrone, suddivisa in grosse scaglie ricurve; sulla cima la coperta, pronta a scivolare via, si reggeva appena. Le sue numerose zampe, pietosamente esili se paragonate alle sue dimensioni, gli tremolavano disperate davanti agli occhi”.

Montaggio. Uno degli esempi del cambio di inquadratura repentina, da far pensare a un serrato montaggio di singole inquadrature o in piano-sequenza, è la corsa sui muri di Gregor: “[…] non gli restava altro che aspettare; travolto dalle preoccupazioni e dai rimorsi cominciò ad arrampicarsi dappertutto sui muri, sui mobili, sul soffitto e, nella sua disperazione, mentre tutto cominciava a vorticare intorno a lui, cadde nel bel mezzo del grande tavolo”. Qui, inoltre, abbiamo la chiusa della scena, con l’effetto del vorticare dell’ambiente intorno al personaggio che il cinema istituzionalizzerà in diversi film successivi. Una sequenza narrativa ricca di cambi di punti di vista e soluzioni pre-cinematografiche è quella del bombardamento delle mele ad opera del padre. Questi, tornato dal lavoro (è fattorino di banca), appare agile e rinvigorito, stato fisico sconosciuto quando Gregor rincasava stanco dal suo lavoro di commesso viaggiatore: infatti, il vecchio “lo trovava in vestaglia sul divano incapace di alzarsi”. Kafka mentre descrive l’improvviso degrado di Gregor da uomo a scarafaggio, contrappone il miglioramento psicologico e fisico dei tre familiari. Ora, mentre il padre inizia a camminare agilmente nel soggiorno, Gregor lo precede allontanandosi, temendo un inseguimento.

“[…] Fecero più volte il giro della stanza senza che accadesse nulla di preciso, anzi senza che il tutto avesse l’aspetto di un inseguimento in considerazione del suo ritmo piuttosto misurato. Gregor rimase al suolo, temeva che una sua fuga sulle pareti o addirittura sul soffitto venisse considerata dal padre come una particolare malignità.  […] ogni volta che il padre faceva un passo lui doveva compiere una infinità di movimenti. Il fiato cominciava a mancargli […] mentre procedeva così vide volare vicino a sé un oggetto lanciatogli da dietro, che cadde accanto a lui e si mise a rotolare. Era una mela seguita subito da un’altra; Gregor si fermò atterrito: era inutile continuare a correre perché il padre aveva deciso di bombardarlo. S’era riempito le tasche pescando nella fruttiera sulla credenza e scagliava una mela dopo l’altra senza prendere la mira con molta precisone. Queste piccole mele rosse rotolavano sul pavimento come se fossero elettrizzate e urtavano a vicenda. Una mela tirata con scarsa energia sfiorò il dorso di Gregor e scivolò via senza danneggiarlo. La successiva, invece, gli penetrò letteralmente nella schiena; Gregor tentò di trascinarsi avanti, come se il mutamento di posto potesse attenuare l’incredibile e lancinante dolore, ma si sentì come inchiodato al suolo e si distese con i sensi completamente in subbuglio. […]”

Questo, ci pare, il passaggio più filmico del racconto, addirittura da action film. Al lettore sono offerte quattro “inquadrature”: il padre che lancia le mele, le mele che sfiorano Gregor; una mela che si conficca sulla schiena dell’uomo-scarafaggio; le mele che rotolano sul pavimento come “elettrizzate”. Non sappiamo se Kafka avrà visto una “comica” (The Bowling Match, 1913.di Mack Sennett, ambientata in un bowling, in cui due rivali (uno dei due l’attore allora noto per le parti dello sbruffone, Ford Sterling) nel corteggiamento di una donna, cercano di eleminare l’avversario lanciandosi palle di bowling a ripetizione).

Anche la chiusa del racconto presenta una dinamicità filmica. Siamo sul tram e la famigliola, finalmente felice dopo che si è liberata del peso di Gregor-scarafaggio, si gode una uscita in campagna. “Uscirono dall’appartamento tutti e tre insieme, dopo mesi e mesi che non l’avevano più fatto, e andarono con il tram fuori città, in aperta campagna. La vettura in cui si trovavano soli era tutta illuminata di caldi raggi di sole. Comodamente seduti sui loro sedili discussero le future prospettive […]”. Prima di arrivare alla meta Kafka ci dà i pensieri del signor Samsa e della signora Samsa.

“Mentre conversavano, il signor e la signora Samsa, notarono quasi nello stesso istante, osservando la figlia che si faceva sempre più vivace, come, negli ultimi tempi, – malgrado tutte le pene che avevano scolorito le sue guance – fosse sbocciata trasformandosi in una bella e florida ragazza. Più silenziosi e con sguardi d’intesa quasi involontari, pensarono che fosse tempo di trovarle un bravo marito. E fu come una conferma dei loro nuovi propositi, che alla fine del tragitto la figlia si alzasse per prima stirando il suo giovane corpo”.

Tutta la sequenza letteraria sul tram ha un inequivocabile taglio visivo. Siamo naturalmente nel pre-filmico. Una scena simile, nel cinema prima del 1915, è difficile trovarla. Ma è innegabile che il gioco dei raggi di sole che attraversano una carrozza di tram in movimento, gli sguardi tra padre e madre, e, soprattutto, la figlia che alzandosi e stirandosi mostra la sua bellezza attengono ai codici del cinema che esso istituzionalizzerà qualche anno dopo. Segnatamente l’innocente gesto fisico-erotico della bella figlia che rivela il fascino del corpo femminile fa pensare alla delicata fisicità di Mabel Normand, il cui subito famoso film Barney Oldfield’s Race for a Life (1913) era stato distribuito in Europa- Qui Mabel (così la chiamavano i suoi fans) offriva la sua bellezza e innocenza in abiti piccolo-borghesi, alla luce del sole, nei pressi di una campagna appena fuori città (proprio come nel racconto kafkiano). Inoltre il film contiene la rapidamente celebre scena – il pubblico in sala gridava – del vano tentativo del bruto Ford Sterling che, respinto dalla ragazza, la incatena ponendola di traverso sui binari della ferrovia per poi tentare di ucciderla passandoci sopra con la locomotiva sottratta alla stazione).

La breve ed esaustiva descrizione kafkiana della giovane sorella che alzandosi dal sedile nel tram si “stira”, anticipa gesti del corpo simili codificate poi nella recitazione del cinema degli anni Venti: dalla bella Ljudmila Semënova, capelli alla maschietta, di L’amore a tre (1927) di Michail Romm, sino alle perfette protagoniste, Christl e Brigitte, della scampagnata fuori Berlino, in riva al lago, di Uomini di domenica (1929, Robert Siodmak e Edgar G. Ulmer).

Nel 1924, poco prima della morte, Kafka vive a Berlino-Stegliz, con Dora Diamant. Ormai esce poco, non ha più interesse per il cinema, quel cinema muto del primo periodo, 1902-1913, che lo faceva divertire e ridere come un ragazzo. In una lettera (in ceco) alla signorina Werner, la domestica di Praga, scrive: “[…] ormai sono un perfetto animale d’interni. Non so quali film vi siano in programmazione. A Berlino, negli ultimi tempi, il cinema è stato poco interessante, ora da alcuni mesi stanno proiettando The Kid”. Peccato che su questo capolavoro di Chaplin, che stava portando al cinema milioni di persone, Kafka non abbia lasciato due righe di commento. Se fosse vissuto un po’ più a lungo avrebbe visto anche il capolavoro di Buster Keaton, Sherlock junior che usciva a New York il 14 aprile 2024. Il tema del doppio, del meta-cinema, della finzione e della realtà, lo avrebbe sicuramente intrigato.

CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE

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