HOUELLEBECQ: L’OCCIDENTE COME IMPOSSIBILITA’ DI VIVERE – EDITORIALE

17038581144114TOMMASO GAZZOLO

1. Houellebecq ha percorso fino in fondo l’idea che “dal primo all’ultimo, noi occidentali puzziamo di egoismo, di masochismo e di morte. Abbiamo creato un sistema in cui è diventato semplicemente impossibile vivere; e, come se non bastasse, continuiamo a esportarlo”. Egli ci fa strada nel provare ad ammettere che nelle nostre società occidentali è divenuto impossibile vivere, che il sesso è divenuto inappagante e fonte di perenne frustrazione e disagio, che uomini e donne non riescono più ad amarsi. Per certi versi, è innegabile che Houellebecq sia forse, tra gli scrittori, “l’unico che abbia capito l’epoca. L’unico che meriti davvero di essere letto. Antimoderno, antireazionario, irreversibile e irrecuperabile, postapocalittico, è l’uomo ferito ideale. In lui suppurano le nostre stimmate di uomini e di donne del XXI secolo, stanchi di vivere. Impotenza esistenziale, disgusto della vita, odio per la specie, deperimento sessuale, debolezze vergognose, stanchezza generale” (Cormary).

La riflessione è, certamente, cupa – e intrisa di un pessimismo radicale. Ma è soltanto accettando di interrogare sino alla fine questa tendenza del nostro tempo, la possibile scomparsa del sesso e dei rapporti uomo-donna, che, forse, si riuscirà a trovare la forza per cercare nuove soluzioni, nuove vie che consentano ai due sessi di desiderarsi ancora. Che si potrà, in ultima istanza, reinventare l’amore.

I temi dei suoi romanzi sono già tutti qui: la fine del desiderio sessuale e di ogni relazione possibili tra uomini e donne, l’estinzione del genere umano, le possibilità della tecnologia. Ci permettiamo, però, per una introduzione al presente numero, di alcune considerazioni minime, utili, speriamo, a inquadrare la scrittura di Houellebecq, e la sua posta in gioco.

2. Pornografia. Houellebecq è spesso considerato uno scrittore in fondo mediocre, privo di “stile” o dallo stile “piatto” e lugubre: lo è volutamente, certo, ma questo non basta a spiegare ciò che, qui, vi è in questione. Romanzo filosofico: in assenza di meglio, la definizione può andare. Ma con l’intesa che non si tratterà mai di raccontare una storia, per Houellebecq, perché la sua scrittura muove proprio da qui: dall’impossibilità del racconto, dall’inesistenza di “storie”, di qualcosa che valga la pena di essere narrato.

Questa impossibilità dipende, per Houellebecq, da ciò che oggi sono divenuti i rapporti umani: “I rapporti umani diventano progressivamente impossibili, e questo riduce in proporzione la quantità di aneddoti di cui si compone una vita […]. Questo progressivo stemperarsi dei rapporti umani non manca di creare qualche problema al romanzo. Come si potrà, infatti, perseguire la narrazione di passioni focose, sviluppate nel corso di diversi anni e talvolta in grado di far sentire i propri effetti su diverse generazioni? Il meno che si possa dire è che siamo lontani da Cime tempestose. La forma romanzesca non è concepita per ritrarre l’indifferenza, né il nulla; si dovrebbe invece inventare un’articolazione più piatta, più concisa e più dimessa” (Houellebecq).

Se non c’è più niente da raccontare, è perché non abbiamo più vite che meritino di esserlo, o che comunque si vivono come “storie” – i nostri rapporti con gli altri, e quindi con noi stessi, sono divenuti così miseri e sterili da aver perso ogni possibilità di essere narrati, di entrare nelle logiche e nei codici di una “storia” che conferirebbe loro un significato, un senso. Roland Barthes una volta ha detto che non esiste, non è mai esistito, un popolo senza racconti – e potremmo dire che la vita umana è tale proprio nel suo essersi costituita come vita che si racconta e può essere raccontata. Se, allora, Houellebecq è davvero lo scrittore più importante di questi ultimi quarant’anni, è per questa sola ragione.

Qui non si tratta più, infatti, della “crisi” del racconto o del “romanzo” – del raccontare, cioè, l’impossibilità di raccontare. Si tratta, più radicalmente, di scrivere a partire dalla fine della narrabilità, di scrivere, cioè, di vite di cui non c’è nulla da raccontare perché esse hanno perso la capacità di raccontare se stesse, perché non riescono più a far esperienza di se stesse sotto forma di narrazione. La scrittura di Houellebecq, in questo senso, è quanto di più distante da ciò che Brunner chiama il pensiero narrativo, e che è alla base del fatto che noi esprimiamo non solo le nostre credenze ma anche la nostra stessa esperienza quotidiana, immediata, in forma di storia, sotto forma di racconto.

Le polemiche circa lo “stile”, o persino la “volgarità” di Houellebecq, non andrebbero considerate che a partire da qui – compresa, naturalmente, l’insistenza con cui la sua scrittura indugia sulla descrizione del sesso. Per provare a capire il punto, possiamo mettere a confronto uno dei tipici brani di Houellebecq con la “lotta” tra il narratore e Gilberte descritta da Proust, che Houellebecq ha sempre considerato uno scrittore del XIX secolo, l’ultimo scrittore dell’Ottocento. Gilberte nasconde dietro la schiena la lettera che il narratore intende riprendere, e i due cominciano, scherzosamente, a lottare: “io cercavo di attirarla, lei resisteva; i suoi pomelli infiammati dallo sforzo erano rossi e tondi come ciliegie: rideva come se le facessi il solletico; la tenevo stretta fra le gambe come un arbusto sul quale volessi arrampicarmi; e nel mezzo di questa ginnastica, senza che ne venisse accresciuto l’affanno provocatomi dall’esercizio muscolare e dall’ardore del gioco, sparsi, come poche gocce di sudore spremute dalla fatica, il mio piacere, sul quale non potei indugiare nemmeno il tempo necessario ad assaporarlo; immediatamente, mi impadronii della lettera”. Il brano prosegue, con l’ambigua frase di Gilberte: “Sapete, se volete possiamo lottare ancora un po’”.

Il narratore, e noi, non sa se Gilberte si sia accorta di quanto successo, o se invece lo ignori – non sa se ella abbia intuito che il gioco cui stanno giocando non è quello apertamente dichiarato, o un altro. Vediamo Houellebecq: “Dopo una breve pausa, Bruno le introdusse un dito nell’ano e un altro nella vagina, e tornò a dedicare al clitoride piccoli e rapidissimi colpi di lingua. Christiane godette in silenzio, a lunghi fremiti”.

Dobbiamo chiederci, ora: cosa cambia realmente, dove sta la vera differenza tra questi passi, così diversi tra loro? Non basta certo opporre una certa allusività, delicatezza, presente in Proust, ad un tentativo, da parte di Houellebecq, di rendere la scrittura “aderente” alla realtà, una sorta di “verosimiglianza” rispetto a quel che, di fatto, accade – in che altro modo “raccontare” che Bruno che infila un dito nella vagina di Christiane, se non, semplicemente, “riportandolo”? Non credo però che le cose stiano così. E ciò perché Houellebecq, qui, non racconta nulla: la sua scrittura non narra alcunché. A differenza di Proust: la “lotta” con Gilberte, infatti, è racconto, ed è racconto perché è una lotta fatta anzitutto di segni, più che dei loro corpi. Basterebbe, a dimostrarlo, il fatto che è una lettera, qui, a circolare, a passare da una mano all’altra, ad essere nascosta, e a rendere così possibile al narratore di venire. Più in generale, il sesso, la sessualità, qui, è narrabile perché interna ad un sistema – quello del segno, dello stare di ogni cosa per un’altra – che non smette di produrre significazione, di trasformare un significato in un altro, di produrre senso. Per questo non c’è goccia di sperma che non sia come una goccia di sudore, non c’è niente che non faccia segno ad un possibile significato: stavamo solo giocando o no? Lei lo sa, e cosa ha voluto dire?

Rispetto a tutto questo, Houellebecq non è, semplicemente, più “volgare” – qualsiasi cosa ciò voglia dire. È che, diversamente, queste descrizioni continue di gente che scopa, che gode, non sono dei “racconti”, non dicono nulla, né riescono a significare nulla. Per questo esse, nei romanzi di Houellebecq, non cessano di succedersi l’una all’altra, di “slittare”, scorrere – sono metonimiche, non metaforiche: non si fa che passare dall’una all’altra, senza che mai si arrivi a quello che Lacan chiamava point de capiton, punto di “annodamento”, in cui finalmente una di queste scene riesca ad “ancorarsi” a qualcosa che le dia un senso, un significato. Se tali scene sono essenzialmente disperate, è proprio perché è chiarissimo come il loro succedersi non sia spinto che dall’illusione – destinata sempre a cadere – che, prima o poi, qualcosa, l’amore, giunga a dare un significato ad esse, a dare un senso al sesso. Ma è, come si è visto, esattamente ciò che non può più accadere, nelle nostre società.

3. Padri e figli. In una società come quella odierna, si può constatare – senza che ciò implichi alcun giudizio di valore – come sempre di più le donne finiscano, osserva Houellebecq, per “decidere su tutto”. Decidere, ad esempio, se avere un figlio oppure no. Il che significa, come nota Soler, che oggi molte donne “cercano un padre … per il bambino che nascerà”. Esse, cioè, decidono che avranno un bambino, e poi cercano, eventualmente, il padre che possa essere a loro gradito. Con tutta la costellazione di problemi: “cerco un padre, ma non sopporto di vivere con un uomo; cerco un padre, ma colui che incontro non vuole figli; cerco un padre, ma non ne trovo; lo amo ma non lo vedo come padre; senza dimenticare: ho subito pensato che sarebbe stato un buon padre!”.

Dal momento che il desiderio di un figlio viene oggi inteso come desiderio su cui solo la donna decide, esso implica al contempo che le donne si pongano nella posizione di essere loro i giudici e la misura di chi possa essere un padre. A decidere, cioè, se un uomo possa essere un “buon” padre, un padre soltanto, o non esserlo affatto, sono le donne – sulla base dell’assunzione che solo esse detengano un sapere circa l’essere padri. Gli uomini tacciono. Osserva Houellebecq: “decidono in merito all’inizio di una relazione, in merito alla sua fine, decidono se avere un bambino o no. L’uomo rimane inspiegabilmente inerte. C’è una sorta di dissoluzione del punto di vista maschile che è comunque inquietante. Il punto di vista maschile, avendo così poche occasioni di esprimersi, è diventato sconosciuto. Una specie di segreto”. L’essere padri, la “paternità”, cambia profondamente di significato: essa è ora una funzione del desiderio femminile, del desiderio delle donne; non più, come voleva Lacan, uno dei modi della causa del desiderio maschile (per Lacan, un “padre” è il “sintomo” di quegli uomini il cui oggetto che causa il loro desiderio è il fare della propria donna una madre).

Ma se gli uomini tacciono, nota Houellebecq, non è perché sarebbero cambiati, perché avrebbero capito le “ragioni” delle donne: l’uomo “non è cambiato, in nessun modo”. Il che significa: la maggior parte degli uomini restano non-padri anche quando lo sono, quando accettano di essere il padre che la donna cerca. Ma significa anche che, non esistendo più le condizioni che, una volta, permettevano al maschio di desiderare di essere un padre, il rapporto padri-figli diviene, definitivamente, impossibile. Per capire il punto, occorre muovere da qui: che l’uomo non desidera, naturalmente, di essere padre. Non c’è, cioè, nulla, nel maschio, nella sua “natura”, come un “istinto” di paternità, o un desiderio di fare dei figli: “in realtà i maschi non si sono mai interessati ai propri figli, non hanno mai provato affetto per essi, e più in generale sono incapaci di provare affetto per chicchessia: per loro l’affetto è un sentimento completamente estraneo. Quello che non gli è estraneo è il desiderio, il desiderio sessuale allo stato bruto e la competizione tra maschi”.

La paternità, in tal senso, non è nulla di “naturale”: per darsi un legame tra padre e figlio, occorrono delle condizioni – e storicamente, esse sono state rappresentate, scrive Houellebecq, dal fatto che “i figli erano la trasmissione di uno stato, di regole e di un patrimonio”. In Occidente, tutto questo è crollato: i “padri” di oggi hanno la sensazione di non aver più nulla da trasmettere – non un mestiere da insegnare, non dei valori o delle regole da preservare, in una società in cui non possiamo avere alcuna idea di quali “mestieri” esisteranno ancora tra solo vent’anni, quali “regole” potrà mai essere ancora valide. Per questo “oggi per un uomo avere un figlio non ha più alcun senso”. Non per le donne: “non hanno mai smesso di provare il bisogno di avere un essere da amare”, scrive Houellebecq – e lo può scrivere, direi, perché Freud lo aveva già scritto: perché il bisogno di amare un figlio de-cide la posizione femminile, perché definisce, per equivalente, il passaggio dal desiderio di “avere” il fallo a quello di “riceverlo”. Gli uomini, invece, non provano, di per sé, alcun bisogno di amare un bambino: “basta pensare a cosa succede quando un uomo divorzia: distrutto l’ambito familiare, i suoi rapporti con i figli perdono qualsiasi senso. Il figlio è la trappola che è scattata, è il nemico che sei costretto a continuare a frequentare, e che ti sopravvivrà”.

4. Il desiderio maschile. Ciò che vi è di sgradevole, nella scrittura di Houellebecq, non è allora – come talora si dice – una concezione “pornografica” del sesso. Queste sono stupidaggini. Quel che, in realtà, risulta essenzialmente difficile da accettare, per un lettore di oggi, è piuttosto il suo non smettere di insistere nel tentativo di de-costruire il desiderio maschile, di dirlo nella sua verità più cruda. A partire da questa convinzione, che si è ricordata: che, a differenza delle donne, gli uomini non siano affatto cambiati.

Il loro desiderio è rimasto, cioè, lo stesso, essenzialmente lo stesso di quello di un secolo fa. Non è altro da quello che si legge in Strano viaggio di Drieu La Rochelle – altro scrittore “estremo”, come Houellebecq: quello di un desiderio costantemente scisso tra il “sogno sentimentale del matrimonio”, la “nostalgia sociale all’idea di stabilità” – desiderio di fare della donna una moglie – e l’inquietudine che spinge a collezionare una donna dopo l’altra, questi “oggetti, frammenti dell’universo i quali vivono soltanto sotto lo sguardo dell’uomo” (La Rochelle). È la stessa scissione che, in Freud, rende quello maschile un desiderio essenzialmente impotente: incapace di amare le donne che desidera, e di desiderare le donne che ama. Perché l’oggetto del desiderio maschile è sempre, da sempre, perduto, mancante – ed è intorno a questo oggetto, questa “creatura perfetta”, donna che il protagonista, in Strano Viaggio, non riesce a pensare che come insieme di “pezzi” presi da donne diverse (“Sognavo belle ragazze senza la testa, magari anche senza braccia e senza gambe, tronchi. Oh, le donne-tronco!”), che il desiderio maschile gira a vuoto.

Ma queste cose, dette un secolo dopo, fanno molto più male. Per Houellebecq, il desiderio maschile non è cambiato, scisso tra il non poter godere se non di donne adolescenti, giovani, con le quali, tuttavia, il rapporto sembra non poter essere che quello della loro “degradazione” oggettuale, e la ricerca di un “amore” stabile, duraturo, che, tuttavia, non sembra che implicare la fine di ogni godimento. È vero, dunque, per Houellebecq, che “molti uomini hanno paura delle donne moderne, perché in realtà vorrebbero soltanto una brava moglie capace di occuparsi dei figli e della casa. È un antico sogno dell’uomo, ed è ancora attualissimo, ma in Occidente è diventato quasi impossibile confessarlo”. Ma è al contempo vero che il matrimonio si rivela essere sempre insoddisfacente, inappagante, perché l’uomo continua, invecchiando, a desiderare di poter godere di donne giovani.

Ancora una volta, assistiamo alla dissociazione, alla disgiunzione tra “amore” e “desiderio sessuale” – tra quelle che Freud chiamava corrente, Strömung, tenera, e corrente sensuale. Per questo la vera “provocazione” di Sottomissione riguarda l’Islam come soluzione offerta al desiderio maschile: sposare una donna matura ed una donna adolescente – “è la sottomissione […] l’idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta. È un concetto che esiterei a esporre davanti ai miei correligionari, potrebbero giudicarlo blasfemo, ma per me c’è un rapporto tra la sottomissione della donna all’uomo come la descrive Histoire d’O e la sottomissione dell’uomo a Dio come la contempla l’islam”. Questa corrispondenza tra islam ed un’erotica della schiavitù tipica della letteratura occidentale è ciò che, per Houellebecq, mette a “nudo”, diremmo, il fantasma ultimo del desiderio maschile: quello di una sottomissione della donna attraverso cui poter unire tenerezza e degradazione, amore e godimento. “Islam” – esattamente come era stato il “cristianesimo” – allora, non è in Houellebecq che uno dei nomi di questo fantasma maschile.

5. La famiglia. Non c’è romanzo di Houellebecq in cui la famiglia, il suo disfacimento, non siano costantemente interrogati – e rimpianti: perché se, da una parte, la sessualità contemporanea rende impossibile la famiglia, quest’ultima resta pensata come l’unico spazio in cui l’amore può nascere. La famiglia e la vita coniugale: “questi erano i due poli residui attorno a cui si organizzava l’esistenza degli ultimi occidentali, in quella prima metà del ventunesimo secolo. Altre formule erano state contemplate invano, da persone che avevano avuto il merito di intuire il logoramento delle formule tradizionali, senza tuttavia riuscire a concepirne di nuove, e il cui ruolo storico era dunque stato interamente negativo”. Houellebecq “reazionario”, dunque? Può darsi, ma ciò non può costituire la ragione per non assumere che la “disgregazione della famiglia” è certamente “in se stessa radicalmente nuova. Non abbiamo alcuna testimonianza di società umana precedentemente esistita senza il principio che ci si sia, alla base della stessa società, il gruppo familiare” (Melman).

S’intenda: non si tratta, qui, né di adottare una posizione conservatrice, né di negare la legittimità a nuove forme di unione. La famiglia può certamente scomparire – Freud stesso lo ammetteva, già un secolo fa, sapendo che a quel punto la civiltà avrebbe imboccato nuove vie, vie che avrebbe prima o poi trovato per poter andare comunque avanti. Più interessante è chiedersi perché questa disgregazione, e che cosa vi sia, realmente, qui in questione. Si tralascino, pertanto, tutti quegli “argomenti” che, anziché spiegare, vengono di volta in volta portati a favore o contro questa “cellula germinale della civiltà”, per dirla ancora con Freud. Perché germinale? È qui che la risposta si fa interessante.

La famiglia – e, con essa, il matrimonio – non è altro che quell’istituzione, quel luogo e quell’insieme di pratiche che lo costituiscono, che hanno reso possibile la convivenza tra i due sessi. Certo che essa è un’istituzione dell’eterosessualità: ma non certo perché esprimerebbe una qualche forma di desiderio reciproco “naturale” tra i due sessi. Freud, nel Disagio della civiltà, dà alcune indicazioni essenziali, chiedendosi perché l’uomo abbia preso l’abitudine di formare delle famiglie. Occorrono, anche qui, delle condizioni – il che significa: non c’è nulla di naturale nel “desiderio” di formare una famiglia. La prima è la continuità dell’eccitamento sessuale. L’uomo deve, cioè, costituirsi come quell’animale che, a differenza degli altri, non ha nel soddisfacimento genitale un bisogno, regolato dai cicli naturali, dall’istinto, dalla biologica: esso deve, cioè, cessare di “comportarsi come un ospite che arriva all’improvviso e dopo che se ne è andato non da più notizie di sé per lungo tempo”.

Da “ciclo biologico”, come quella animale, la sessualità umana si costituisce come permanente. Freud suggerisce più volte che questo processo – che, come tale, è storico – ha avuto nel passaggio alla posizione eretta il suo momento determinante: ciò, infatti, avrebbe progressivamente determinato la svalutazione degli impulsi olfattivi, la diminuzione del loro stimolo, a scapito della vista, che avrebbe preso il loro posto. E mentre i primi sono legati alla “natura”, al ciclo biologico della donna, e sono pertanto intermittenti, gli eccitamenti visivi sono, invece, permanenti.

Tralasciamo pure, per ora, di discutere il punto, perché non è esso che, ora, ci interessa. La questione è un’altra: ed è che, secondo Freud, questa trasformazione è ciò che è alla base del formarsi della famiglia. Non, si noti, del reciproco desiderio tra i due sessi: essi, in ultima istanza, come Freud non ha smesso di ripetere, non si desiderano. Perchè i loro oggetti del desiderio non sono reciproci, simmetrici. La famiglia, osserva Freud, soddisfa certamente il desiderio dell’uomo di avere a sua disposizione, presso di sé, l’oggetto sessuale (solitamente, appunto, la donna). Ma se la donna rimane presso l’uomo, è perché non desidera “separarsi dai piccoli privi di aiuto”, ed anche nel loro interesse opta per ricevere la protezione del maschio, più forte. Come si vede, i desideri che qui si incrociano sono radicalmente eterogenei: “la potenza dell’amore”, osserva Freud, “provocò nel maschio il desiderio di non essere privato dell’oggetto sessuale, cioè della femmina, e nella femmina quello di non essere privata della parte da lei separatasi, cioè del figlio”. L’ipotesi “nietzscheana” di Houellebecq, è, nel suo fondo, un’ipotesi freudiana: la donna non ama l’uomo perché lo desidera, ma in quanto è in grado di proteggerla e di permetterle di non separarsi dal suo oggetto d’amore, che è il figlio.

Se così stanno le cose, è chiaro che la famiglia, per Freud, non è affatto fondata sull’ “incontro” tra due desideri simmetrici: lui che desidera lei, lei che desidera lui. Al contrario, essa è l’invenzione di una relazione, di un rapporto che consente di soddisfare – certo al solito prezzo che la Kultur richiede –  due desideri radicalmente diversi: quello dell’uomo di poter – diciamolo pure senza remore – scopare quando ne ha voglia, e quello della donna di potersi non separare dai propri figli.

Non c’è allora più “famiglia” – per ciò che storicamente ha significato, nei millenni – laddove questi due desideri, che sono alla base del rapporto che la costituisce, giungono infine a poter trovare il proprio soddisfacimento in altro modo. Non è questo che Houellebecq, infine, intuisce? La “liberazione sessuale” promette, in fondo, all’uomo che non mancherà mai una donna con cui poter scopare, ed alla donna di non aver più bisogno dell’uomo per crescere e proteggere i figli. Ma ciò significa che dietro la disgregazione della famiglia non c’è altro se non il fatto che vengono a mancare le condizioni – come tali storicamente determinate – che avevano reso possibile il “rapporto” tra i due sessi, la convivenza dei loro rispettivi desideri. Tutta la “nostalgia” reazionaria di Houellbecq per la famiglia non è allora altra che la nostalgia per qualcosa che non è mai stato, che non è esistito: il reciproco desiderarsi dei due sessi, o quel che chiamiamo “amore”.

6. Clonazione. In Houellebecq, la disparition progressive du sexe segna la problematica della sua scrittura, ossia il sistema di domande che ne sono alla base. Ma “sparizione”, estinzione del sesso significa, qui, che le nostre società occidentali, presto o tardi, non saranno più in grado di assicurare le condizioni alle quali è possibile, per un uomo, desiderare una donna, e viceversa. Questo è il nodo centrale del discorso di Houellebecq sull’amore: i due sessi si separeranno, e cesseranno di desiderarsi.

Il “paradosso”, se così lo si può chiamare, che è interno alla “fosca prognosi”, per come Houellebecq l’ha di fatto ripresa e riformulata, è questo: che la “liberazione sessuale” si è rivelata, nelle sue conseguenze ultime – che sono quelle prodotte dall’aver innestato nel sesso la logica del mercato – ciò che conduce alla fine del desiderio sessuale (a cominciare, in particolare, dalla fine del desiderio etero-sessuale). Conduce alla generalizzazione di quella che Freud chiamava impotenza psichica, incapacità di provare piacere nel rapporto con l’altro sesso – e quindi, se seguiamo Houellebecq, di passare dal piacere all’amore. La frustrazione e l’aggressività che, oggi, sembrano essere in aumento nel rapporto tra uomini e donne, ne sono la spia. E tuttavia, per Houellebecq, la fine non sarà, in ultima istanza, violenta: “ecco come muore una civiltà, senza seccature, senza pericoli né drammi e con pochissimo spargimento di sangue, una civiltà muore semplicemente per stanchezza, per disgusto di sé”.

Più di recente, Houellebecq ha ripreso Nietzsche e Freud: “penso che assistiamo all’avanzare di una sorta di nichilismo, che è – e mi spiace davvero ammetterlo, perché sono sempre stato critico nei confronti di Nietzsche – uno sviluppo del nichilismo europeo definito da Nietzsche. Potremmo anche, e probabilmente in modo più appropriato, parlare dell’ascesa della pulsione di morte evocata da Freud, del trionfo finale di Thanatos su Eros. In una parola, l’Occidente è messo male”.

È chiaro come, qui, non si tratti di rintracciare delle corrispondenze, né di dare alla scrittura di Houellebecq una coerenza filosofica che essa non ha. Ma che Freud ritorni, come un punto di riferimento, è certo indicativo. Questo riferimento alla “pulsione di morte”, poi, va letto in modo appropriato: la pulsione di morte non è infatti, si noti, che quella stessa sessualità che è “eros”, ma nella sua funzione opposta – quella di disfare i legami, anziché crearli, cercarli. Nei termini di Houellebecq, ciò sembra voler dire: non è il sesso che sta scomparendo, ma l’amore, il sesso, cioè, come spinta a creare legami tra le persone, mentre ad affermarsi sempre di più è una ricerca mortifera del godimento, fine a se stesso, il quale non richiede più alcun rapporto con l’altro, con gli altri. La fine della possibilità dell’amore, implica, cioè, la distruzione progressiva di ogni legame sociale, e l’affermazione di un sesso come godimento solitario – interamente controllato dalla logica del mercato e dalla sua offerta di prodotti “personalizzati” (sesso virtuale, escort, sex toys, etc.): non pericoloso, innocuo, e che permette una infinita diversificazione dell’offerta.

La clonazione, in quest’ottica, non è altro che ciò che consente di interrogare non tanto la possibilità, da parte dei due sessi, di riprodursi separatamente – di separarsi, cioè, una volta per tutte, dal momento che la riproduzione non li lega più l’uno all’altro, non li rende dipendenti l’uno dall’altro. Essa, più radicalmente, rende possibile pensare l’estinzione del maschio, l’inutilità dell’essere uomo, oggi. Se c’è clonazione, infatti, la donna resta – e resta perché serve, perché resta “indispensabile” per una tecnologia che richiede, comunque, la gravidanza. Ma gli uomini, a cosa servono? Dopo la pecora Dolly – dopo, cioè, che la clonazione è divenuta reale (anche se, per il momento, non ancora una realtà effettiva, non ancora praticata) – gli uomini, a rigore, non servono più a nulla. Perché oggi un mondo composto esclusivamente di donne potrebbe benissimo esistere, senza essere destinato a scomparire, in quanto sarebbe in grado di assicurare la propria riproduzione.

Le possibilità tecnologiche odierne, offrono inoltre la possibilità di compiere definitivamente la “liberazione sessuale” come liberazione dal sesso. Se il ’68 l’aveva presentata, cioè, come una liberazione del sesso – la possibilità, finalmente, di godere e di amare senza ostacoli, limiti, imposti dalla morale, dal potere, dal sociale – questa “liberazione” si è progressivamente rivelata essere, invece, una liberazione dal sesso, dalle sue difficoltà che implica, dalla sofferenza che provoca, dalle impasse che genera. Siamo liberati sessualmente, allora, anzitutto nel senso che siamo ormai “virtualmente “sgravati” dalla funzione della sessualità” (Baudrillard): svincolando il sesso dall’atto riproduttivo, rendendo possibile la riproduzione per una via asessuale, e biotecnologica, siano finalmente in grado di vivere come asessuati. Questo movimento di liberazione dal sesso, va inoltre notato, inverte il rapporto con le regole, la regolamentazione.

La “liberazione del sesso” era, infatti, una lotta contro la regolamentazione di esso – sostenuta dall’illusione che, una volta tolti i divieti, le regole, gli ostacoli, avremmo avuto finalmente accesso ad un sesso “libero”. Oggi, questa stessa libertà che viene rivendicata, finisce, invece, per richiedere sempre più regole, per esigere sempre più regolamentazione: la critica di Houellebecq al “politicamente corretto”, è esattamente critica a questa costante richiesta di regolamentare sempre di più il rapporto sessuale e tutto ciò che riguarda la sessualità. Stiamo usando la tecnologia, e le regole, per liberarci dunque dal sesso, ormai considerato “fonte e territorio di ogni tipo di problema (nei nostri rapporti sociali)”, tanto che la stessa parola, “sesso”, è diventata inappropriata in molti contesti, e spesso suona semplicemente come un sinonimo di “abuso” (Zupančič). È l’utopia, questa, che Michel, in Le particelle elementari, finisce per sognare: “l’umanità deve scomparire; l’umanità deve dar vita a una specie nuova, asessuata e immortale, una specie al di là dell’individualità, della separazione e del divenire”. Liberazione dalla morte, liberazione dal sesso, liberazione dal desiderio: la clonazione non è la “riproduzione” dell’uomo, ma la nascita di una nuova “umanità”.

7. L’abolizione del cogito. Accolto dalla critica come un libro “scandaloso”, “islamofobo”, Sottomissione è divenuto presto un caso editoriale anche per la coincidenza che ha voluto che la sua uscita fosse prevista lo stesso giorno dell’attentato alla sede di Charlie Hebdo. Esso si presenta come un romanzo “distopico”, il quale immagina che in Francia, alla fine del secondo mandato di Hollande, le elezioni presidenziali vengano vinte dal partito islamico moderato della “Fratellanza Musulmana”, il quale progressivamente riesce ad assorbire l’élite culturale francese al suo interno. Il protagonista del romanzo, François, segue questo destino: professore di letteratura alla Sorbona, specialista di Huysmans, in crisi e deluso dalla sua vita professionale e sentimentale, finisce per convertirsi all’Islam, proseguendo così la propria carriera universitaria. In realtà, come ha osservato in una bella recensione del libro Agathe Novak-Lechevalier, il punto nevralgico del romanzo è l’identità individuale, personale, condannata a disintegrarsi dalla solitudine del protagonista: “Il cogito cartesiano, che fonda il razionalismo occidentale, subisce nel romanzo un’inversione: “poiché non sono, che senso ha pensare?”“. La conversione all’Islam del protagonista si spiega esattamente in questi termini: certo, si tratta di rinunciare a essere “se stessi”, ma … “se stessi” chi? Non c’è nulla da rimpiangere, nulla da abbandonare.

L’ abolizione del cogito è il procedimento che Houellebecq dispiega: si tratta di spogliare, progressivamente, i suoi personaggi di ogni cosa – la propria compagna, poi il lavoro, i familiari, i propri interessi, le passioni – fino a che diventa possibile formulare, a questo punto, la domanda: questo personaggio esiste ancora? È qui che Cartesio viene “invertito”. Perché questi risponderebbe: dopotutto, penso, e quindi ancora sono. Per Houellebecq avviene il contrario: io non sono più, e quindi non penso neppure. Tale movimento presiede alla costruzione di Sottomissione: se il protagonista ha perso tutto – Myriam, il lavoro, la possibilità di leggere Huysmans, il suo autore di riferimento –, egli non esiste più, perché, come dice Houellebecq “essere è essere in relazione”. Ma allora, se non esiste, perché mai dovrebbe avere “una libertà di pensiero”? Per quale motivo non dovrebbe “semplicemente aderire a ciò che gli viene proposto”? Che senso ha – dovremo dire – rivendicare i diritti alla libertà di pensiero, di espressione, di poter “essere se stessi”, alla propria identità, se non si è più, se non esistiamo più in relazione agli altri, ma come individui isolati e soli? Esistiamo forse ancora, a quel punto? Se “non sono” più, a che cosa mi serve essere “me stesso”?

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA LETTERATURA

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