LA SCRITTURA NARRATIVA COME CAMERA A BOLLE: HOUELLEBECQ AL DI LÀ DI SCHOPENHAUER

PERKIRCHMAYRRAOUL KIRCHMAYR

Spesso accade che, agli occhi dei critici, la letteratura non basti a se stessa, scontando un debito che è tale solamente se ci si pone dal punto di vista del “contenuto”, del “messaggio”, del “significato” di una scrittura. Nella prospettiva di una volontà di verità capace di cogliere la verità in ciò che non è dell’ordine del logos, la letteratura non potrà che apparire come la sorella minore di un logos argomentativo che, pur nelle sue molteplici vesti, pretenderà di farle dire ciò che la ragione vi avrà trovato. A posteriori, la filosofia si occupa di ciò che la letteratura avrebbe dovuto dire perché forse non lo ha detto, o non lo ha detto come si sarebbe voluto che dicesse. Nondimeno, la letteratura comporta sempre un’eccedenza rispetto al discorso supposto razionale. La storia stessa del tormentato ma vitale rapporto tra ciò che chiamiamo filosofia e la letteratura rifugge riduzionismi, semplificazioni, schematismi ecc., in nome di un debordamento – o perfino di un delirio, come avrebbe detto Deleuze (in Critica e clinica) – che mette a repentaglio più lo statuto della filosofia che quello della letteratura. Qual è, per esempio, il grado di ambiguità, di paradossalità, di finzione che il logos è in grado di sopportare? E qual è il livello di tolleranza che il buon senso – ipotizzando che ne esista – è in grado di reggere rispetto alla vocazione della letteratura, che è di dire tutto?

Nel caso di scrittori scomodi e disturbanti, come Michel Houellebecq, l’ancoraggio della letteratura alla filosofia potrebbe svolgere quella funzione di protezione che a questa talvolta viene chiesto quando l’eccesso della scrittura diventa incandescente e il disagio si muta in rifiuto, sovente morale o di gusto. Alla filosofia, in questo modo, si attribuisce il compito di addomesticare il selvaggio, di smorzare i sapori aspri e di fare della letteratura un brodino caldo, buono per un palato d’infermo. Non c’è dubbio che nella scrittura di Houellebecq ci sia qualcosa di malato, ma questo perché la malattia è nel quotidiano delle nostre esistenze, là dove la possiamo ritrovare, oppure disconoscere per conservare quell’apparenza di normalità che, pur non credendoci o non credendoci più, pur tuttavia ci sforziamo di conservare.

Houellebecq mette in scena gli spigoli vivi della normalità apparente della vita ai tempi del nichilismo o, ancora, della società neoliberale. Per questo dà fastidio. Ch’egli sia fastidioso, disgustoso importa poco, è materia di biografi. Che sia uno scrittore schiettamente o ambiguamente reazionario è forse secondario rispetto a ciò che descrive e come lo descrive, rispetto a ciò che è mobilitato dalla sua scrittura. Quel che importa, piuttosto, è il modo in cui manovra la scrittura per mostrarci ciò che della nostra condizione non vorremmo vedere e preferiremmo non riconoscere. Così, per converso, trovare qualcosa di filosoficamente noto nelle sue opere o nel suo approccio all’arte dà l’impressione di ritornare a un porto sicuro quando si naviga in mezzo ai marosi. Ma è, appunto, una sorta di riflesso condizionato volto alla ricerca di una consolazione filosofica di fronte alla descrizione dell’intollerabilità del reale, ciò in cui riconoscerei la cifra della scrittura di Houellebecq.

Lo scrittore francese fece uscire alcuni anni fa, nel 2017, un volumetto intitolato In presenza di Schopenhauer. Ben poca meraviglia desta la prefazione di Agathe Novak-Lechevalier, la quale, maneggiando con incertezza tanto Nietzsche quanto Schopenhauer, non ha trovato di meglio che richiamarsi al prolifico quanto assai discutibile Michel Onfray per attestare la decisiva influenza del grande pessimista tedesco su Houellebecq. Secondo Onfray, infatti, tutta l’opera di Houellebecq sarebbe leggibile “attraverso il filtro della filosofia di Schopenhauer”. È di per sé evidente che giudizi del genere, nella loro grossolanità da tabloid popolare, non servono né alla comprensione dell’autore in questione né della sua opera perché, se possiedono una qualche validità ermeneutica, essa consiste tutt’al più nel ricondurre una scrittura nell’alveo dell’eredità di un pensatore, ma niente più di questo. E, francamente, non si capisce in cosa consista il guadagno critico, dal momento che lo stesso discorso potrebbe essere fatto per molti altri scrittori contemporanei. Mentre si capisce bene che un’operazione siffatta ha lo scopo di smussare gli angoli, di eliminare le asperità, di rendere accettabile l’inaccettabile riconducendo la supposta Weltanschauung di uno scrittore al tepore delle formulette manualistiche con cui si crede di aver capito una filosofia.

Un succedaneo di Schopenhauer – guarda caso il pensatore del dolore e del pessimismo, della compassione e della contemplazione estetica – produce un succedaneo di Houellebecq, dal momento che la scrittura di quest’ultimo viene depurata dalla massa lutulenta che compone il paesaggio in cui abita l’ultimo uomo dell’Occidente contemporaneo, di cui lo scrittore francese non si fa osservatore quanto piuttosto anatomo-patologo o, come vedremo tra poco, fisico sperimentale. La metafora del filtro, sottratta al luogo comune in cui Onfray e Novak-Lechelier l’hanno precipitata, dice così molto di più sull’intento di depurare Houellebecq tramite la filosofia rispetto a ciò che dovremmo scoprire di Houellebecq per tramite del pensiero di Schopenhauer. Grazie al filtraggio della filosofia, le acque nere e torbide del reale in cui si abbevera Houellebecq sono pertanto rese trasparenti e potabili. Il risultato della depurazione non è che una stolida presunta analogia d’orientamento, che parrebbe fornire una qualche spiegazione dell’opera di Houellebecq. Un pessimista, certo. Come Schopenhauer, d’altronde. Ciò detto, poco altro ci sarebbe da aggiungere.

Ma non ci accontentiamo dell’acqua pulita della critica alla buona. Perché, altrettanto evidentemente, ricondurre Houellebecq a Schopenhauer non serve a nulla, a meno che non si decida di tracciare con chiarezza alcuni punti di distanza tra questo e quello, per poter dare un senso a un termine come “sofferenza” (souffrance), che connota la scrittura di Houellebecq e che non pare semanticamente sovrapponibile al “dolore” (Schmerz) di cui parla Schopenhauer, se non per vizio di superficialità. Analogamente, il tema schopenhaueriano della “noia” (Überdruss), che assume apertamente il valore del rifiuto della società borghese da parte del poeta e dello spirito libero, non trova dimora nello scrittore francese, dal momento che il mondo contemporaneo ha annientato anche ciò che la modernità aveva prodotto come suo sintomo. La noia non è più la Stimmung dei nostri tempi perché non vi sono più “tonalità emotive” che, come l’angoscia in Heidegger, aprono dimensioni di senso. Non è rimasto che un brusio indistinto, che è il tessuto sonoro della stessa sofferenza: su di essa si modulano i discorsi dei personaggi di Houellebecq. Ogni discorso si fa dunque sintomo. Per non accennare neppure alla questione dell’arte come tappa consolatoria verso quella saggezza che consiste, in Schopenhauer, nel comprendere la natura profonda della volontà di vivere. Per esempio, in Piattaforma, all’inizio del romanzo, Houellebecq fa tirare all’io narrante quella che gli appare come “una conclusione incontrovertibile: l’arte non può cambiare la vita”. Con una postilla rapida ed essenziale che tramuta un’apparente legge universale nella descrizione più limitata di un destino individuale: “Di sicuro non la mia”.

Tra Schopenhauer e Houellebecq emerge un altro punto di massima distanza o di vertigine, che fa dello scrittore francese non certo una gemmazione tardiva del pensiero del tedesco, quanto piuttosto un’estrema spoliazione di tutto ciò che ancora in questi è consolazione dell’esistere. L’opera di Houellebecq, cioè, non appare più come un rimedio rispetto al fondo tragico della vita e neppure si attribuisce più quella finalità, perché non c’è più alcun romanticismo generatore – per quanto in modo paradossale – di filosofemi che portino ad argomentare a proposito della necessità delle illusioni e dell’altrettanto necessaria loro distruzione.

La scrittura di Houellebecq, invece, riproduce la scarna silhouette del reale all’epoca in cui questo si è reso nudo agli occhi di chi è in grado di tollerarne la visione. Nessuna forma o nessun ornamento potrà mai rendere sopportabile la condizione di noi contemporanei, e sarebbe sbagliato scambiare l’erosione di ogni significato con il cinismo dell’autore. A differenza di Schopenhauer, per il quale ancora le belle forme rappresentano la meta sicura in cui porre l’esistenza al riparo dell’eterno, il paesaggio dipinto da Houellebecq è scarno, brullo, vulcanico e aspro, come quello di Lanzarote, isola che diventa metafora di una condizione che non è più l’avventura dell’attraversamento del deserto, ma che si è scoperta, con sgomento, come deserto essa stessa, il punto terminale della modernità. Questo deserto è comune a tutti, perché comune è l’essiccamento dell’anima finché questa non diventa roccia vulcanica, dura e scabra, da sottoporre alla luce fredda dell’analisi e all’occhio dell’osservatore sperimentale, del microfisico che, grazie alla finzione letteraria, ne scruta i rilievi in quanto prodotti dall’azione di forze esterne.

Le forze esterne sono quelle della società, della storia, dell’economia, che non plasmano l’anima, ma la sfaccettano violentemente secondo geometrie caotiche, frutto di combinazioni casuali che lasciano sì tracce leggibili ma che, purtuttavia, non compongono mai un disegno unitario. Ogni esistenza, nel suo farsi, è sempre ciò che resta di innumerevoli scalfitture e abrasioni. In ogni personaggio di Houellebecq c’è qualcosa di respingente se non di ripugnante, quella stessa roccia aspra che ne costituisce il nucleo più intimo di cui è possibile ormai riconoscere i rilievi non come proprietà che le appartengono, ma come tratti induriti che le circostanze hanno inciso, casualmente e senza scopo.

La prosa di Houellebecq è resoconto del deserto che si mostra come permanenza e saturazione dell’esistenza, ed è un resoconto lucido fino a quella allucinazione o a quell’incubo che coincide con il procedere di una quotidianità prosastica e grigia. Se vogliamo capire cosa resta del progetto della modernità dopo la fine delle “grandi narrazioni” – secondo la diagnosi lungimirante di Lyotard – i romanzi di Houellebecq ne mostrano gli effetti, cioè la sparizione del senso del futuro, l’estendersi di un presente anestetizzato, e per questo insopportabile, fin nei gangli più minuti dell’esistenza, un desiderio che è alimentato da un altrove ormai colonizzato e mercificato, se possibile ancor più cinico e deprimente del mondo da cui provengono i protagonisti dei romanzi (maschi, francesi de souche, dunque bianchi, borghesi, con una posizione sociale, risorse economiche, simboliche, culturali: è il baricentro della società a essere imploso, sembra dire Houellebecq, quanto basta per aver spinto Carole Sweeney a definire l’opera di Houellebecq una “letteratura della disperazione”.

Il secondo punto di distanza massima riconoscibile tra Schopenhauer e Houellebecq concerne lo scacco della compassione. Se Schopenhauer indica nel cammino che dalla contemplazione estetica conduce alla vita etica la scoperta della comune tragicità del vivere in cui ogni essere è immerso, per converso in Houellebecq non c’è alcun serio investimento nella pietas verso il dolore patito dagli altri esseri perché la solitudine dei nostri tempi non può essere scalfita da alcuna tiepida forza d’affetto, ma unicamente dalla violenza dell’amore che unisce e stringe gli esseri, sottraendoli alla chiusura solipsistica.

Infatti, come afferma il narratore di Estensione del dominio della lotta, “in verità non c’è nulla che riesca a impedire il sempre più ravvicinato ritorno di quei momenti in cui la tua solitudine assoluta, la percezione della vacuità universale, il presentimento che la tua esistenza stia approssimandosi a un disastro doloroso e definitivo, si combinano per sprofondarti in uno stato di vera e propria sofferenza”. La solitudine assoluta non è che una componente della humana conditio contemporanea e, a differenza di Schopenhauer, non c’è nessun modo per forzare una vita sigillata nella solitudine. Se per Schopenhauer, cioè, il principium individuationis è metafisicamente superabile, di modo che la volontà di vita possa essere reperita nel suo sgorgare comune, per Houellebecq l’amore è l’ultima ed estrema risorsa, in ogni caso neppure essa indenne, dinnanzi all’annichilimento di tutte le altre. La “combinazione” nichilistica multifattoriale di solitudine, vuoto, disastro (cioè, oscurità) non apre nessuno scrigno metafisico né tanto meno segue alcuna logica: è un accavallarsi di linee di tendenza o di fuga, un intrecciarsi di motivi in cui risuona la stessa nota ripetuta di un esaurirsi di senso che, per quanto ancora brilli in alcuni significanti (solitudine, vacuità, disastro), si spegne precipitando in uno solo, che è “sofferenza”. Ma il narratore aggiunge anche una clausola decisiva, quasi una coda di riflessione che non si apre su alcuna speranza, ma che sigilla l’identità tra l’esistenza e la sofferenza: “E tuttavia continui a non aver voglia di morire”. Si badi: ciò che Houellebecq lascia intendere circa una non-volontà di morire, non coincide affatto con quel trionfo della vita come cieca forza trascendente e generatrice di cui Il mondo come volontà e rappresentazione è il Baedeker speculativo.

Al contrario, un’affermazione come quella del narratore dell’Estensione del dominio della lotta fornisce la scorata constatazione che la vita non è che un residuo che permane, seppure nella sua insignificanza. Il grande motivo sinfonico schopenhaueriano della volontà di vita, forza oscura e priva di scopo se non quello di ritornare a se stessa quale generatrice d’innumerevoli forme, si trova così svuotato. La vita non è creazione incessante di forme, ma è un trascinarsi di esistenze estenuate, alle quali è sottratto pure il desiderio del suicidio. Se c’è una magnificenza della vita creatrice e delle sue illusioni, nulla è più lontano di Houellebecq di una qualche idea di élan vital. La vita è sempre mortificata, lesa, violata e lo sguardo dello scrittore è quello di colui che racconta la desolazione di un paesaggio vulcanico senza magma né incandescenze.

La scrittura non è rimedio alla sofferenza, ma strumento d’analisi e di procrastinazione, argine momentaneo al caos, che “è rinviato di qualche metro” e, al tempo stesso, è tracciatura del caos. Del movimento delle esistenze in un mondo non più retto dalle presunte certezze del determinismo, in un mondo che non può che essere post-newtoniano, non restano che le traiettorie luminose di “particelle elementari”. Se, infatti, consideriamo le pagine d’apertura del romanzo omonimo, il primo grande lavoro di Houellebecq, le esistenze dei protagonisti sono scomposte e portate alla visibilità (e dunque alla leggibilità) grazie un dispositivo che permette di riconoscere delle linee nel caos, perché le linee sono generate del caos. Questo dispositivo è appunto la scrittura come metafora non tanto della vita in generale, ma di quel concetto di vita che risulterebbe da un mutamento di sguardo su di essa di cui la scienza si sarebbe resa capace. La vita al tempo di un’altra scienza è infatti il filo conduttore del romanzo, quando l’altra scienza è la biologia dopo la rivoluzione della fisica quantistica: “appena si fossero abbordate le basi atomiche della vita, i fondamenti dell’attuale biologia sarebbero andati in pezzi”, afferma il narratore.

In fondo, se il narratore anonimo de Le particelle elementari è in grado di ricostruire la sequenza di vicende che segnano l’avvento della mutazione genetica dell’umanità per opera delle ricerche del protagonista, cioè di Michel Djerzinski, è unicamente perché egli racconta il dipanarsi degli eventi da una prospettiva che è fuori dalla storia dell’uomo e che appartiene, invece, alla storia di un’umanità trasfigurata, di una post-umanità prodotta bio-tecnologicamente che non conosce più né declino né morte. Anche in questo caso siamo distanti da una visione schopenhaueriana, nella quale la dimensione della storia è relegata al teatro delle illusioni rincorse dagli uomini. Invece, come giustamente ha notato Peter Sloterdijk, è uno schema di filosofia della storia hegeliana ciò che occorre riconoscere come criterio-guida che regola la finzione narrativa de Le particelle elementari. È dalla prospettiva della fine della storia che la storia acquisisce un senso e una direzione, seppur risultanti non unicamente dall’opera della scienza, ma da quella di una scrittura la cui condizione finzionale di possibilità è data dalla scomparsa dell’umanità e dall’avvento del post-uomo: “[…] questo libro andrà considerato più come una fiction, ovvero come una ricostruzione credibile basata su ricordi parziali, che come il riflesso di una verità univoca e inconfutabile”. E, di nuovo, le ultimissime righe del romanzo fanno risuonare un discorso che mima, ripetendola, la celebre chiusura di Le parole e le cose di Foucault, sostituendo l’“uomo” come concetto con l’“uomo” come specie e cancellando ogni differenza nello stesso significante di “uomo”, l’ultima parola del romanzo.

Così, l’opera di finzione non è altro che un omaggio funebre non per l’ultimo uomo nietzschiano, ma per una specie che ha posto da sé la base del proprio superamento biologico e genetico. Rovesciamento parodistico delle distopie novecentesche – si pensi al Mondo nuovo di Huxley, autore che compare citato, appunto, in Le Particelle elementari, a sua volta rovesciamento sintomatico delle angosce generate dal dispiegarsi della tecnica contemporanea – le Particelle e, di nuovo, il romanzo che ne è la continuazione e lo sviluppo, cioè La possibilità di un’isola (Houellebecq 2005), presentano la tesi estremistica e sconcertante secondo la quale il rimedio allo spegnersi del senso dell’esistenza è visto in quella scienza-tecnica la cui affermazione coincide con il tramonto dell’umano e, assieme, con l’avvento di una specie asessuata.

Sotto il profilo narratologico, è nel tempo del post, cioè all’epoca dell’avvenuta “mutazione metafisica” di paradigma – il foucaultiano “cambiamento delle disposizioni fondamentali del sapere” –, che le linee si chiariscono e diventano dunque traiettorie, è solo a posteriori che può emergere una configurazione di senso complessiva delle vicende umane, ma ormai e soltanto come di figure in via di scomparsa. Con la scomparsa dell’uomo come specie biologica scompare anche l’ancoraggio etico schopenhaueriano nella compassione. In Ennemis publics, dopo aver preso partito per Schopenhauer contro Nietzsche, ma anche dopo aver sottolineato come Schopenhauer avesse provato un “vago terrore” in merito all’origine del sentimento della compassione, Houellebecq si è chiesto retoricamente cosa succederebbe se sparisse la compassione. Aderendo alle tesi del narratore de Le particelle elementari – con un’identificazione che è quantomeno ambigua e problematica, se non la volessimo semplificare dicendo che il narratore ha il ruolo di portavoce dell’autore – lo scrittore si risponde in questo modo: “Penso che in questo caso l’umanità sparirebbe […]. E che la scomparsa dell’umanità sarebbe una buona cosa” (ibidem). Tralasciando il complesso filo conduttore delle implicazioni etiche contenute nella scrittura di Houellebecq, torniamo alla metafora della camera a bolle, perché anche qui troviamo un’altra differenza notevole rispetto alla filosofia di Schopenhauer. Infatti, le osservazioni condotte dai protagonisti dei romanzi – ovvero dai narratori – con esprit de géométrie non implicano affatto il riconoscimento della genesi delle forme molteplici in cui la vita si dispiega.

Infatti, se consideriamo gli esempi morfologici che compaiono in Il mondo come volontà e rappresentazione e, soprattutto, la funzione di camera oscura che l’arte gioca in relazione alla visibilizzazione della volontà di vita (per es. Schopenhauer 1818: pp. 385), allora la principale preoccupazione filosofica consiste nel rendere ragione del molteplice fenomenico – descritto dal discorso scientifico – mediante la tesi metafisica dell’unità della natura.

Ma in Houellebecq non c’è nessun monismo metafisico che fondi il piano fenomenico né una rivendicazione di un qualche ruolo specifico dell’arte per la vita. Invece, tutto si gioca nell’immanenza, a patto che si riconosca che l’immanenza è solo parzialmente visibile nelle sue configurazioni attuali. Se ci può essere un futuro, esso non può dipendere che da una trasformazione dello stesso piano. Così, posto che le esistenze sono delle traiettorie di particelle che appaiono grazie alla camera a bolle come apparato di visibilizzazione del caos, la letteratura diventa lo strumento di osservazione di ciò che c’è realmente e di ciò che c’è virtualmente in quanto possibile mutamento plastico della realtà. Così, la scrittura narrativa è una camera a bolle. Sulle sue lastre una qualche forma si delinea, ma senza che un significato sia associato a essa. Nella fisica delle particelle i tracciati sono il risultato visibile dell’operare di forze invisibili a livello atomico e subatomico. Grazie a questo apparato, da un lato lo scrittore è un osservatore sperimentale della realtà e, dall’altro, è un visionario che nella finzione prefigura future e ancora sconosciute configurazioni di forze, da cui trae i suoi auspici.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA LETTERATURA

Lascia un commento