EMANUELE SEVERINO E IL NEOPARMENIDISMO DI INTERSTELLAR

INTERESTELLARPIER MARRONE

Circa due anni fa moriva dopo una lunga esistenza Emanuele Severino. È stato una figura centrale della cultura filosofica internazionale e, in vita, forse il più importante filosofo italiano. Anche lui aveva dunque nel 2020 concluso la sua parabola esistenziale, almeno ai nostri occhi. Non è banale questa ultima notazione, perché per chi non la conoscesse la posizione filosofica centrale di Severino è davvero sconcertante.

Severino è stato professore di filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, la più importante università cattolica del nostro paese. Vi fu allontanato, dopo un processo avviato dalla Congregazione per la dottrina della fede, perché le sue posizioni erano incompatibili con il magistero della Chiesa. Queste posizioni erano emerse, immediatamente dopo che era diventato professore ordinario (come ricordava, non senza una qualche benevola malizia, il suo maestro Gustavo Bontadini), quando pubblicò un saggio sulla Rivista di filosofia neo-scolastica, intitolato “Ritornare a Parmenide”.

Parmenide è stato il profeta dell’eternità dell’essere, della negazione del divenire, della contraddittorietà della nostra esperienza quotidiana, che sembra attestare invece la realtà indubitabile del cambiamento, dove le cose e gli eventi si susseguono incessantemente.

Le persone nascono e muoiono, periscono e sorgono imperi, stati, imprese, città, stelle e forse interi universi, noi stessi cambiamo costantemente: terminiamo gli studi, ce ne andiamo di casa, formiamo una famiglia, rimaniamo single tutta la vita, conosciamo nuovi amori, tradiamo e siamo traditi. Nulla permane identico a sé stesso. Del resto, le persone che ci hanno fatto a un certo punto non ci sono più, allo stesso modo delle esperienze che ho fatto ieri. Sono cioè consegnate al passato. Non hanno più esistenza. Sono ritornate nel nulla dal quale erano emerse prima di esistere. Ora, Parmenide riteneva che addentrarsi sulla strada del divenire, che è quella che parrebbe attestata dalla nostra esperienza, equivalga a infilarsi in un vicolo cieco, perché equivale a ammettere che esista il non essere, quella cosa dalla quale tutte le cose e gli eventi emergerebbero e alla quale tutto ritorna. Ma il non essere non può essere qualcosa. Il non essere non esiste. Questo è quanto ci è attestato in maniera incontrovertibile, ossia che non può essere confutata, dalla ragione.

Affidarsi alla ragione, che è la stessa cosa che affidarsi all’essere, significa percorrere la strada della verità. Pensare invece che esista il non essere significa entrare in una strada dove nessuno può persuadersi di nulla. Il divenire è intrinsecamente contraddittorio e da una contraddizione non può mai essere derivata una verità. Anzi: se un sistema di proposizioni (ad esempio il nostro sistema di proposizioni che parla del nostro mondo in divenire) incorpora un enunciato contraddittorio (ad esempio che il non essere esiste) nulla può essere considerato vero in quel sistema.

Quale sia stata la soluzione di Parmenide per “salvare i fenomeni”, ossia per dare fondamento alla nostra esperienza che è in effetti indubitabile, almeno quanto al fatto di esistere come esperienza per noi, non è del tutto chiaro. Sembrerebbe che tra l’essere, che necessariamente deve essere, e il nostro mondo, si apra un abisso impossibile da colmare. Parmenide caratterizzava l’assoluta estraneità dell’essere (che non può non essere, che è impossibile che non sia) con la metafora della “sfera”, un solido geometrico che per i Greci era il simbolo stesso della perfezione. Ma esiste realmente questa differenza tra l’essere, che è increato e eterno, non può nascere né perire e il mondo come lo sperimentiamo noi, quel mondo degli essenti dove viviamo noi, quel mondo popolato di singoli oggetti, di singoli innumerevoli eventi che fanno la trama della nostra esperienza, soprattutto di soggetti diversi ognuno con la propria personale esperienza? Ecco, qui Severino si inserisce con la sua proposta radicale.

L’esperienza, si dice, ci attesta che le cose nascono e muoiono, escono dal nulla, si attestano momentaneamente nell’essere e poi svaniscono, ritornando nel nulla. Ma, realmente, l’esperienza ci attesta questo? Se fosse così, noi dovremmo fare esperienza del nulla, ma non è possibile fare esperienza di qualcosa che non esiste per definizione. E allora di che cosa noi facciamo esperienza, perché questa esperienza, quanto al fatto che la facciamo, è in effetti indubitabile. Noi non facciamo esperienza del nulla (questo non è possibile), dice Severino, bensì facciamo esperienza dell’apparire e dello scomparire di oggetti, persone, eventi, ossia di quanto è dentro all’orizzonte della mia esperienza. Il nulla non lo vediamo da nessuna parte. Noi non possiamo vedere il nulla del fiammifero acceso che diviene cenere. Noi facciamo esperienza dell’apparire di stati successivi che si concludono nell’apparire nel nostro orizzonte della cenere. Non facciamo esperienza dell’annichilirsi delle persone che abbiamo amato. Facciamo esperienza dell’apparire della loro malattia, della loro decadenza, dell’apparire della loro morte. Quindi, la nostra idea del divenire è fondata non sulla ragione, bensì su un’ermeneutica dell’apparire.

Tuttavia, questa ermeneutica dal momento che si basa su un’assunzione che non può che essere falsa, ossia che esiste il non essere, deve essere anch’essa falsa. Cos’è allora la nostra esperienza? È l’apparire e lo scomparire di essenti che sono eterni nel senso di Parmenide. Sono sempre stati parte dell’essere e come l’essere ne condividono l’eternità. Ci sono sempre stati. È eterno tutto l’essere. Qualsiasi cosa, anche la più insignificante, è eterna. Il mio gatto, l’esame di laurea, il mio mal di denti, quella volta che ho tradito una mia fidanzata, la volta che ho scoperto il tradimento di un’altra, quello che sto facendo in questo momento, quello che farò tra un decennio, se ancora ci sarà spazio per me nell’orizzonte dell’apparire di qualcuno. Capite anche come Severino abbia potuto dare un’interpretazione della storia a partire dalla rimozione di Parmenide dalla riflessione. Questa storia, soprattutto per quanto riguarda la filosofia, è la storia grandiosa di un errore. Di questa storia l’epilogo più coerente e inevitabile è il nichilismo, che è da intendere come la convinzione che le cose, gli eventi, quelli che abbiamo chiamato essenti, siano niente, ossia siano destinati alla nullificazione, che ne costituisce il tratto comune e quindi l’essenza comune. La religione medesima è una manifestazione del nichilismo, in particolare quella cristiana, con la sua idea della creazione ex nihilo.

Contro questa visione, Severino si incarica di delineare una “filosofia futura” dove le cose cambieranno radicalmente e non potranno non cambiare e noi verremmo liberati dall’angoscia della nullificazione, alla quale abbiamo tentato di porre argine in molti modi. Anzi: la vicenda umana è sostanzialmente cercare rimedio a questa angoscia che deriva da una errata ermeneutica. Anche chi crede nella vita eterna dopo la morte prova sofferenza per la perdita delle persone che ama. Eppure non dovrebbe essere così, se avesse certezza non di fede, ossia una credenza incontrovertibile, sull’esistenza della vita eterna. Potremmo provare sofferenza che un nostro caro abbia sofferto prima di morire, ma dal momento che avremmo certezza che lo rivedremo nell’eternità, non avremmo motivo di angosciarci troppo. Il fatto è che la fede è appunto fede e non una certezza incontrovertibile (come deve essere quella sull’eternità degli essenti, se noi la percorriamo seriamente).

Ma cosa può mai cambiare questa situazione di angoscia, dove identifichiamo la morte con l’annichilimento? I libri che pubblica un filosofo? Naturalmente no, perché questi sarebbero accessibili solo a filosofi o a persone attrezzate culturalmente su questi temi specifici. Nemmeno il fatto che questi libri avrebbero potuto influenzare vasti settori dell’opinione pubblica, magari in maniera indiretta, come è accaduto altre volte, poche a dire il vero, nella storia del pensiero (con lo stoicismo, l’illuminismo radicale, il marxismo), perché Severino è convinto che tutti verremo liberati da questa angoscia. Le notazioni di Severino vanno in una direzione diversa. Noi siamo già immortali, anche se non lo sappiamo, siamo degli dei che vivono e dimorano nell’eternità. Questo apparirà chiaro prima o poi con l’evidenza della verità incontrovertibile alla quale già da sempre apparteniamo, la verità che dice che tutto l’essere, tutti gli essenti sono eterni.

Poco prima di morire, Severino rilasciò un’intervista (che potete leggere qui: https://www.panorama.it/cultura/cerco-mia-moglie-tra-libri-dalle-donne-ho-ricevuto-piu-di-quanto-abbia-dato-intervista-emanuele-severino) dove alla fine risponde a questa domanda: “Ci ritroveremo?”. “Sicuramente. Tutti.” Che cosa intendeva e in che modo potremo ritrovarci “tutti”? Severino ha riflettuto a lungo sulla tecnica. La tecnica è da sempre una caratteristica essenziale dell’essere umano. Noi siamo costretti a ibridarci con la tecnica per la nostra debolezza fisica che si associa a una enorme potenza immaginativa. La tecnica intensifica le nostre capacità e, inscritto nel suo destino, che è anche il nostro, deve manifestarsi la “volontà di potenza” come dominio del mondo, come capacità di inventare quello che non c’è e di scoprire quello che non è manifesto. Certamente la tecnica ha un versante nichilistico, perché crede di intervenire con la sua potenza in quella che appare come un’oscillazione delle cose tra l’essere e il nulla e in questo senso è parte dell’alienazione essenziale della storia umana, che pensa che il non essere esista. Tuttavia, la tecnica è anche qualcosa di più, sia perché è partecipe dell’eternità di tutto l’essere sia perché è il movimento spirituale più potente che l’umanità abbia mai conosciuto. Più potente delle religioni, più potente del capitalismo, è capace di polverizzare tutti i valori esistenti che si frappongono alla sua autorealizzazione come volontà di potenza. “Diventeremo come dei”. “Ci ritroveremo tutti”. Cosa significa?

Per una possibile spiegazione di cosa avesse in mente Severino quando scriveva queste cose piuttosto misteriose e forse, per pudore, indeterminate, sebbene presenti in un filosofo che certo non amava né l’allusione né l’indeterminatezza, io credo che occorra fare ricorso alle risorse dell’immaginazione. Io, come la maggior parte delle persone, non sono dotato di grande creatività, ma fortunatamente credo di essere in grado di capire quando mi trovo di fronte a prodotti superiori dell’intelligenza umana, sia in campo filosofico sia in campo artistico. E in questo caso penso sia al secondo che dobbiamo chiedere soccorso per comprendere le sconcertanti dichiarazioni di Severino alla fine della sua esistenza. Credo di averlo compreso quando ho visto per la seconda volta il capolavoro di Cristopher Nolan, Interstellar. La vicenda narra della crisi climatica e alimentare che vive in un futuro molto prossimo il nostro pianeta. I campi si trasformano in dune sabbiose, l’ossigeno si sta consumando e il genere umano appare destinato a breve all’estinzione. La ricerca scientifica è bloccata da un’opinione pubblica sfiduciata nelle capacità della razionalità strumentale. La Terra appare inabitabile. La ricerca spaziale però è proseguita in segreto e alcune navicelle spaziali vengo inviate dentro a un wormhole per sondare regioni dell’universo dove potrebbero trovarsi dei pianeti alternativi sui quali trasferire il genere umano, garantendone la sopravvivenza.

Fin qui, a parte gli straordinari effetti speciali, per i quali Interstellar è stato premiato con un Oscar, nulla di nuovo sotto il nostro sole. Ma ci sono almeno tre elementi che ne consigliano una lettura più attenta:

1) la figlia del protagonista, destinata ad avere una funzione essenziale nel risolvere la crisi dell’umanità, si rende conto di ricevere dei messaggi in alfabeto Morse, attraverso dei libri che si spostano apparentemente mossi da nessuno in una libreria;

2) si viene a sapere che il wormhole è stato aperto da qualcuno;

3) infine nella scena epocale del film, Matthew McConaughey, il bravissimo protagonista, si ritrova proiettato in un dispositivo che trasforma la sua esperienza del tempo in una dimensione spaziale, che può essere percorsa semplicemente spostandosi all’interno di questo stesso dispositivo. Può così ritornare a vedere la sua esperienza passata e comprende di essere stato lui a inviare alla figlia gli importanti dati scientifici che permettono al genere umano di sopravvivere fuori dalla terra. Ma chi ha costruito il dispositivo? Chi ha piazzato il wormhole nel nostro sistema solare? Alla fine si capisce che siamo stati noi stessi a farlo. Come? Non lo si spiega, ma palesemente attraverso il progresso tecnico.

Il tempo è una dimensione dello spazio: questa la lezione di Interstellar. È, poi, così strano pensarlo? Rifletteteci. Dove vedete i cambiamenti temporali dei quali fate esperienza? Li vedete nello spazio: un’amante che non è più presso di noi, le lancette dell’orologio che si muovono nello spazio, lo spazio occupato dalla vostra fresca birra che si esaurisce. Se pensate al vostro passato, lo riferite a un’esperienza che era descritta proprio in quella dimensione spaziale e non in un’altra. Le rughe che si disegnano sui nostri volti, cosa altro sono se non alterazioni spaziali? Potresti pensare il tempo fuori dalla tua esperienza dello spazio? Sembra di no, mentre pare possibile pensare lo spazio fuori dal tempo, ad esempio per quanto riguarda le figure geometriche che dal tempo di certo non dipendono. Siamo noi a salvarci dal tempo, comprendendo la sua natura spaziale. In Interstellar non lo si dice, ma se il tempo può essere percorso spazialmente, sarà sempre percorribile spazialmente e chi lo può percorrere spazialmente sarà un essere che vive nelle dimensioni dello spazio, per il quale il tempo è una dimensione dello spazio, per il quale il passato coesiste tutto insieme a tutto il futuro e questo è un altro nome da dare all’eternità di tutti gli essenti, come voleva Severino.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

2 Comments Lascia un commento

  1. Bellissimo articolo, con il coraggio (che ti appartiene) di utilizzare Interstellar per spiegare l’ultimo Severino. Chissà che ne penseranno i tuoi paludati colleghi. Eresia?

    "Mi piace"

    • Grazie Andrea. Troppo buono. Mi verrebbe da dire che il coraggio è un’altra cosa. Forse io talvolta esercito una certa spregiudicatezza intellettuale, che però a me sembra il minimo sindacale per un professore universitario.

      "Mi piace"

Lascia un commento