CHE ESSO È

Phrenology1ROBERTO MERCADINI

Sembrava tutto tranquillo. Era una mattina d’estate come tante, me ne stavo in cucina, in piedi, assorto nella lettura di un post su Facebook. Poi, improvvisamente, è successo qualcosa; sebbene non sia successo assolutamente nulla. Ho alzato gli occhi dallo schermo dello smartphone e mi sono guardato attorno. Il tavolo, le sedie, il lampadario, il frigorifero, i fornelli, i quadri alle pareti: cosa ci facevano lì? – mi sono chiesto. Perché esistevano? Perché esisteva qualcosa, e non piuttosto il nulla? E perché esistevo io, fra le cose? Tutto questo, ciò che chiamiamo mondo – avevo pensato – come può avere avuto origine? Come può essersi strappato via dal niente? Compresi che a quell’interrogativo neppure Dio poteva rappresentare una riposta soddisfacente. Perché, anche se Dio esistesse e avesse creato il mondo, come giustificare l’esistenza di Dio? Dove trovare la sua origine, la sua sorgente, la sua causa? In un Creatore del Creatore, una sorta di Dio di Dio? Ma saremmo al punto di partenza: anche ad esso mancherebbe la possibilità di un’origine, una sorgente, una causa. E così via all’infinito. Certo, si potrebbe tentare di aggirare l’ostacolo dicendo che Dio è causa sui, causa di sé medesimo. Ma non se ne uscirebbe comunque. Anche il nulla, infatti, è causa sui. Ma allora, di nuovo, perché esiste un Dio causa sui e non piuttosto il nulla?

Quel mattino, nella mia cucina, tutto il mondo (compreso un eventuale Dio Creatore, e persino un Creatore del Creatore) mi è apparso irrimediabilmente privo di giustificazione, semplicemente impossibile. Le cose divampavano di fronte a me come un brulicare di assurdità, escrescenze tumorali dell’infondato, angeli urlanti del senza-senso. Ciò che provavo somigliava al momento in cui riceviamo la notizia che una persona a noi molto cara è improvvisamente scomparsa. In quell’attimo per noi tutto cambia: d’ora in poi toccherà vivere senza di lui (o lei), anche se la cosa ci sembra impossibile. Ci si guarda attorno smarriti; si passa lo sguardo sugli oggetti più banali. Tutto è al suo posto; eppure ogni cosa è fuori posto. Tutto ha il suo solito aspetto; eppure nulla ha un aspetto famigliare, perché nulla più è in grado di rassicurarci. Ecco, provavo qualcosa di simile, ma senza il dolore del lutto. Puro straniamento, privo di angoscia.

Non era la prima volta che mi attraversavano pensieri simili. Altre volte gli oggetti che componevano il mondo, proprio perché la loro presenza risultava irragionevole, mi sono sembrati altrettanti doni del tutto inaspettati; avevo sentito il cuore gonfiarsi nel petto in un moto immenso di gratitudine verso…nessuno. Sì, mi era successo ancora, in diverse forme, di percepire l’assurdità del fatto che il mondo fosse, ma mai con quella intensità e quella persistenza. Ed è stato in quel momento, guardando attonito il mobilio della cucina, con lo smartphone in mano, che ho pensato alla proposizione 6.44 del Tractatus Logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein: “Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è”.

Interpretavo l’espressione “che esso è” come “(il fatto) che esso è”. Vale a dire, il fatto stesso che il mondo esista, anziché il nulla, è il mistero, è l’assurdo, è l’inspiegabile, è il miracolo. Il passo, così inteso, si allineava perfettamente a quelli di altri filosofi contemporanei o precedenti a Wittgenstein. Qualche esempio. Martin Heidegger nella conclusione di Che cos’è metafisica? indica la seguente come – niente meno! – la domanda fondamentale della Metafisica: “Perché è in generale l’ente e non piuttosto il Niente?”. Sartre ne’ La Nausea: “Il mondo…questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente”. Kant della Critica della ragion pura che immagina il Creatore Supremo il quale dice a sé stesso: “io sono il Creatore Supremo, senza il quale nulla esiste; ma io da dove vengo?”. Non solo. Lo stesso sgomento, la stessa meraviglia sembrava riecheggiare in passi di remoti maestri dello zen. Hakuin Ekaku: “Cento miliardi di mondi agonizzanti: tutto per niente”. Layman Pang, che si sorprende del fatto stesso di esistere e poter compiere le azioni più banali: “Che meraviglia soprannaturale” Che miracolo è questo! Io attingo acqua dal pozzo! Io porto la legna!”.

Questa mirabile ghirlanda di citazioni, va detto, non è farina del mio sacco. La devo ad un amico che stimo immensamente. Si chiama Franco Bertossa, è un profugo istriano che vive a Bologna, pratica la meditazione zen, si definisce “un buddhista di frontiera”, conosce profondamente sia la filosofia occidentale sia la sapienza orientale ed è in grado di tracciare notevoli collegamenti fra le due. Erano sue le parole che stavo leggendo sullo smartphone, prima di alzare gli occhi attonito (strano uso dei social, bisogna riconoscerlo: parlare di filosofia e di zen). Poco dopo Bertossa ed io ci siamo scritti. Lui mi ha chiesto di descrivergli l’esperienza che avevo vissuto. L’ho fatto con parole simili a quelle che stanno all’inizio di questo articolo. Mi ha riposto che “risvegli” (ha usato proprio questa parola) come quello erano, a suo giudizio, il vero senso della vita. E che, grazie alle mie parole, quella notte sarebbe andato a coricarsi con il cuore felice. Il senso profondo della vita: comprendere (il fatto stesso) che il mondo è. Grazie Wittgenstein! Tutto chiaro, dunque? Sì. Almeno in apparenza.

Perché io, strano ma verissimo, per oltre vent’anni, avevo inteso la frase di Wittgestein in un modo completamente diverso. Per me “che il mondo è” aveva significato “che (cosa) il mondo è”. Ossia, come lo dobbiamo considerare, come dobbiamo interpretarlo. In altre parole: Che senso ha che esista? Cosa dobbiamo farci? Considero queste due domande perfettamente equivalenti. Allo stesso modo, mi sembra, chiedersi “Qual è il senso della vita?” equivale a “Cosa dobbiamo farci?”. Chi non trova risposta alla prima domanda, non sa che farsene della vita. E può decidere di gettarla via, di porgli fine con il suicidio.

Questa seconda interpretazione, “che (cosa) esso è”, oltretutto, mi era sembrata perfettamente allineata con alcune proposizioni che precedono di poco la 6.44 nel Tractatus. Prendiamo, per esempio, la 6.4312: “L’immortalità temporale dell’anima dell’uomo, dunque l’eterno suo sopravvivere anche dopo la morte, non solo non è per nulla garantita, ma, a supporla, non si consegue affatto ciò che, supponendola, si è sempre perseguìto. Forse è sciolto un enigma perciò che io sopravviva in eterno? Non è forse questa vita eterna così enigmatica come la presente? La risoluzione della vita nello spazio e ne tempo è fuori dallo spazio e dal tempo.”. Proprio così. Anche chi beneficia della vita eterna potrebbe chiedersi “che senso ha la vita?” e non trovare risposta. Anche lui potrebbe chiedersi “cosa debbo farci?” e rispondersi “niente”. Anche chi sta in Paradiso potrebbe bramare il suicidio.

Ma il passo più chiaro, per me, è la proposizione 6.41: “Il senso del mondo deve essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore”. Ho familiarità con questo pensiero per il mio mestiere di narratore. Una delle operazioni che un narratore è abituato a fare quotidianamente, infatti, è quella di prendere una storia, cioè i nudi (e spesso caotici) fatti del mondo e attribuire a ciò un significato, una “morale delle favola”, un insegnamento etico, ossia rendere una storia ragione della condotta. Così quella storia può diventare un’allegoria. E, al suo interno, un personaggio o un oggetto può diventare un simbolo. Si tratta di un atto creativo, di un’operazione artistica. Nessun narratore si illude (per lo meno non dovrebbe farlo) che la morale della favola sia già nella storia, che una persona realmente esistita sia di per sé un simbolo. No; il senso delle storie è sempre fuori di esse. E lo stesso vale per l’oggetto-storia più grande di tutti: il Mondo. Non ha alcun senso, ma, da narratore, posso donargliene uno; dando uno scopo alla mia vita. Mi è accaduto di fare così e di diventare un uomo felice. Il senso profondo della vita: saper dire che (cosa) il mondo è. Grazie Wittgenstein! Tutto chiaro, dunque? Direi di no.

Cos’è il Mistico, allora? Dire “che (cosa) il mondo è” o vedere “(il fatto) che il mondo è”?

Sono due questioni molto diverse, ovviamente. Un conto è chiedersi cosa un martello sia; e rispondersi che si tratta di un attrezzo atto a piantare chiodi. Un altro è chiedersi come mai il martello, in quanto ente (e alla pari di qualsiasi altro ente), esista, e non piuttosto il nulla; rispondersi che non c’è risposta, che la sua esistenza è assurda e infondata; e raggiungere così una sorta di illuminazione.

Quale delle due interpretazioni è quella corretta? Non conosco il tedesco e non ho modo di fare personalmente una verifica degna di questo nome. Né posso escludere a priori che il testo originale sia meno ambiguo della sua traduzione in italiano e di quel fatidico “che esso è”.

Mi risulta inevitabile, però, notare la sublime ironia di un fatto. Io che ho imboccato e percorso entrambe le strade interpretative, dovrò pur essermi sbagliato in almeno uno dei due casi. E ciò mi avvenuto studiando il filosofo che più di ogni altro tenta, disperatamente, di metterci in guardia contro l’ambiguità del linguaggio, di istruirci ad evitarne le insidie. Wittgenstein scrive: “Il linguaggio ha pronti per tutti le stesse trappole; l’enorme rete di strade sbagliate ben praticabili. E così vediamo l’uno dopo l’altro percorrere le stesse strade e sappiamo già dove adesso devierà, dove proseguirà diritto senza notare la biforcazione, ecc. ecc. Ovunque si dipartono strade sbagliate” (Pensieri diversi). E ancora: “Il linguaggio è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un’altra parte e non ti raccapezzi più” (Ricerche filosofiche). E di nuovo: “La filosofia è una battaglia contro l’incantamento del nostro intelletto per mezzo del nostro linguaggio” (Ricerche filosofiche). E: “Noi lottiamo contro il linguaggio. Siamo in lotta con il linguaggio”.

“Che esso è”. “Che (cosa) esso è”? “(Il fatto) che esso è”? Sublime ironia, davvero.

ENDOXA - BIMESTRALE LETTERATURA

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