“È TRISTE IL NAUFRAGIO DI UNA CIVILTÀ”: LA POSSIBILITÀ DI UN’ISOLA

PERCORIGLIANOFABIO CORIGLIANO

Il faudrait traverser un univers lyrique

Comme on traverse un corps qu’on a beaucoup aimé

Il faudrait réveiller les puissances opprimées

La soif d’éternité, douteuse et pathétique.

(Configuration du dernier rivage)

In giorni estremamente densi di violenza e brutalità, di guerre apparentemente senza fine, e anzi in continua tragica espansione, inaspriti dalla più volte paventata minaccia atomica, e infine, ma non da ultimo, da una crisi che non riguarda solamente le frontiere – come parrebbe di credere stando a certa isterica propaganda elettorale, in Europa e non solo – ma proprio quegli ordinamenti territoriali che si supponevano perennemente salvaguardati dalla loro ‘cultura’ e dalla storia delle idee che l’hanno prodotta, può essere utile rileggere Michel Houellebecq. Non in quanto profeta, ma osservatore partecipe di tensioni che caratterizzano la nostra realtà. La sua intera produzione, infatti, pare rispondere ai caratteri che lui stesso si autoattribuisce ne La possibilità di un’isola (2005): ‘pungente osservatore della realtà contemporanea’.

Al netto delle pagine volutamente morbose e scandalose, sessualmente esplicite – che non fanno altro, in realtà, se non descrivere il tormento esibizionista che caratterizza una delle molteplici derive dell’attualità – l’opera di Houellebecq è equiparabile a un termometro, certo nichilista, delle tendenze fondamentali del nostro tempo. Com’è noto, queste tendenze sono state studiate, tra gli altri, da Emanuele Severino, che ne ha descritto in questi termini l’essenza: «in crisi non è la civiltà della tecnica, ma le forme della civiltà occidentale, che da tale civiltà sono portate al tramonto. Non solo la creazione di nuove tecnologie distrugge le tecnologie obsolete, ma la civiltà della tecnica, nel suo insieme, distrugge le forme tradizionali nelle quali si è via via presentata la ‘tecnica’ occidentale: la religione, la morale, la politica, l’arte, la filosofia. Esse sono distrutte non nel senso che sono bandite, ma nel senso che vien negata la loro pretesa di guidare l’umanità, e questa negazione non consiste in un semplice atto teorico, ma nella maggior potenza della razionalità scientifico-tecnologica rispetto ad ogni altra forma di razionalità» (La tendenza fondamentale del nostro tempo, 1988).

Si tratta di un’analisi certamente non isolata né nuova, come dimostra la storia della filosofia del Novecento e forse anche quella precedente, se solo si pensi a tutta la critica antipositivista di fine Ottocento, ma che è in grado di incorporare in un’unica riflessione molto chiara e perspicua alcuni tratti primari della crisi che stiamo attraversando e nella quale siamo completamente immersi, a quanto pare. (Houellebecq direbbe: sommersi).

Seguendo l’indicazione di Severino, le forme attraverso le quali si è storicamente presentata la ‘tecnica’ occidentale, da più di duemila anni a questa parte, si trovano del tutto annientate e incapaci di segnare una rotta, di fornire una guida valida – la politica, la religione, la morale, l’arte, la filosofia stessa, tutto ciò che prevede un utilizzo comunitario del logos, perché la loro nascita è assolutamente coeva a quella tensione alla socialità che si è manifestata all’interno di uno stesso contesto culturale, all’alba di un movimento che, con le parole di Werner Jaeger, avrebbe portato ad uno sviluppo tale da nobilitare «tutto il genere umano, offrendogli il programma di una più alta forma di vita, la vita della ragione» (Paideia. La formazione dell’uomo greco, 1934).

Ora, quella più alta forma di vita non è più in grado di svilupparsi nella direzione di una nobilitazione dell’umanità, e lascia il posto ad un indefinito tramonto regressivo di cui non sappiamo nulla, ma che deve essere obbligatoriamente esaminato, scomposto e interrogato.

La nottola di Minerva, ancora una volta, non può che spiccare il suo volo sul fare del crepuscolo, quando un’epoca della storia – questa epoca – è già passata, giungendo, per l’appunto, sempre troppo tardi. Si sarebbe quasi tentati di dire che quel tempo iniziato con la celebre esplosiva tesi marxiana su Feuerbach, che rovesciava secoli (millenni) di filosofia, ingiungendo all’umanità di cambiare il mondo prima che sia troppo tardi, prima che ci si debba limitare a dipingere grigio su grigio, sia anch’esso terminato, e che abbia rappresentato solamente una parentesi, obbligandoci a tornare ai criteri interpretativi hegeliani, e quindi all’irrilevanza della politica in quanto motore della trasformazione e dell’emancipazione dell’umanità.

Il cogito che aveva come propria definita missione (o destino?) quella di modificare e cambiare il pianeta, inaugurando l’epoca dell’antropocene, è stato sopraffatto dalla trasformazione, ne è risultato vittima, e come paventava Goethe nel Faust, ha desiderato e ottenuto, attraverso la sua indomabile industria, l’annientamento del mondo, provocando la sua stessa sparizione. La civiltà dei neoumani ne La possibilità di un’isola è il sogno di Faust: dominio, possesso e sfruttamento sono stati portati alle loro estreme tragiche conseguenze. Houellebecq sembra ripartire proprio dai progetti distruttivi che caratterizzano la seconda parte del Faust (Zum Augenblicke dürft ich sagen:/ Verweile doch, du bist so schön). Fermare il tempo, prosciugare il mare, annientare le ultime figure comunitarie della vita umana (con Aristotele: Filemone e Bauci rappresentano la famiglia, la cellula costitutiva della politica). Come si legge in Daniel24,11, «l’intelligenza consente il dominio del mondo: essa non poteva apparire che all’interno di una specie sociale, e tramite il linguaggio. La stessa socialità che aveva permesso l’apparizione dell’intelligenza doveva in seguito ostacolarne lo sviluppo – una volta che furono messe a punto le tecnologie della trasmissione artificiale».

Le parole che Manuela Ceretta ha da ultimo dedicate all’analisi di Sottomissione potrebbero rappresentare, per certi aspetti, un’analisi della nostra attualità e altresì del suo racconto, descritto dall’intera produzione letteraria di Houellebecq: «ci restituisce il senso della irrilevanza della politica, così come era stata tradizionalmente concepita, in una società disgregata, rimandandoci l’impressione che essa abbia perso per sempre la sua capacità di modificare il mondo. Una perdita che è sia sintomo del declino della politica sia indice del venir meno della capacità umana di immaginare un mondo altro» (Storia del Pensiero Politico, 1/2022).

E non solo; continuando nell’analisi, Ceretta aggiunge che «la fatica di cui ci parla Houellebecq non è solo legata all’impossibilità di agire di concerto lungo i tradizionali canali politici, è una fatica che attraversa la società da cima a fondo e che penetra nell’individuo, è una fatica interiore, che coincide con il rifiuto di un mondo che obbliga a reinventarsi così rapidamente da sospingere gli individui a cercare in qualche ‘retropia’ del passato le consolazioni negate dal presente, e una fatica esteriore, che nasce dalla percezione di essere sprofondati in una società dove il determinismo ha tolto ogni ruolo all’azione personale e umana, come se a nessuno fosse data la possibilità di incidere su di esso».

Ne La possibilità di un’isola, assistiamo al venir meno di una società, la nostra, che si è sbarazzata della parola – nel senso aristotelico, come mezzo per esprimere speranza, sogni e immaginazione, e quindi per vivere pienamente, in quanto esseri umani, nella politica – che decade ed elabora la sua stessa sparizione, il suo suicidio di massa. Le subentra una civiltà di tipo completamente nuovo, senza contatti, che cerca viceversa di fondarsi sulla parola (il racconto di vita) per provare a ricostruire l’essenza dell’umanità che verrà, i Futuri.

Daniel25 e Marie23, protagonisti delle ultimissime pagine del romanzo, sono già dei Futuri, in attesa non tanto degli Elohim che non verranno mai, e in cui non crede più nessuno, ma di salvarsi con le loro forze, attraverso i ricordi di ciò che caratterizzava l’umanità, i suoi tratti originali, positivi e imperituri, ciò che avrebbe potuto durare per sempre: l’ingegno e l’amore.

Basterebbero queste poche e insufficienti righe per comprendere come (anche) questo lavoro di Houellebecq vada a restituirci uno scorcio di quella crisi cui ci si riferiva in apertura.

Il tratto più originale di questo libro, tuttavia, risiede proprio nel collegamento tra la crisi e la parola, la scrittura, il racconto, e quindi i sentimenti, in quanto elementi essenziali e mirabili dell’umanità.

Ciò deriva anzitutto dalla scelta di affiancare ai capitoli numerati dei racconti di vita di Daniel1 i commenti, prima di Daniel24 e poi di Daniel25: la nuova civiltà di neoumani deve ripartire dalla parola, dalla sua analisi, e attraverso la stessa deve ricercare il significato della vita sulla terra.

In questo senso, infatti, la struttura di potere che ha presidiato e favorito, accelerandone l’andamento, gli ultimi giorni dell’umanità, ha sollecitato ogni essere umano pronto ad eternarsi (suicidandosi), a impegnarsi nel progetto di scrittura della propria vita e dei sentimenti che la caratterizzavano, per lasciare un documento ai neoumani, per permettere loro di creare le condizioni di possibilità  dell’avvento dei Futuri, ovvero di quelle creature che avrebbero sostituito i neoumani e probabilmente costituito una nuova civiltà, questa sì, imperitura, in grado di coniugare l’efficienza genetica dei neoumani stessi e i sentimenti caratteristici dell’umanità. Lo dice molto chiaramente Daniel25,1: «se volevamo preparare l’avvento dei Futuri, dovevamo innanzitutto seguire l’umanità nelle sue debolezze, nei suoi dubbi, nelle sue nevrosi; dovevamo farli interamente nostri per superarli».

Come afferma Daniel24 nel descrivere il comportamento gioioso del cagnolino Fox (anch’egli generato attraverso la clonazione), «io sono solo un neoumano e la mia natura non include alcuna possibilità di quest’ordine. Che l’amore incondizionato sia il presupposto che rende possibile la felicità, gli umani lo sapevano già, perlomeno i più progrediti tra loro». E ancora: «la bontà, la compassione, la fedeltà, l’altruismo rimangono dunque accanto a noi come misteri impenetrabili, racchiusi tuttavia nello spazio limitato della realtà corporea di un cane. Dalla soluzione di questo problema dipende l’avvento, o no, dei Futuri» (Daniel24,6). È Daniel25 ad evidenziare l’importanza inossidabile dell’amore: «nessun soggetto è trattato più dell’amore, nei racconti di vita umani come nel corpus letterario che ci hanno lasciato. Vengono affrontati l’amore omosessuale come quello eterosessuale, senza che si sia potuta rilevare finora una differenza significativa; nessun soggetto è stato pure così discusso, così dibattuto, soprattutto durante il periodo finale della storia umana, in cui le oscillazioni ciclotimiche riguardanti la credenza nell’amore divennero costanti e vertiginose. Nessun soggetto sembra insomma aver ossessionato tanto gli uomini; persino il denaro nei racconti di vita umani, persino le soddisfazioni della lotta e della gloria, in confronto, perdono di potenza drammatica. Per gli esseri umani del periodo estremo l’amore sembra essere stato l’acme e l’impossibile, il rimpianto e la grazia, il punto focale in cui potevano concentrarsi ogni sofferenza e ogni gioia».

L’acme e l’impossibile, il rimpianto e la grazia.

L’amore (incondizionato) è il problema: non si può spiegare, non si riesce a capire attraverso la ragione ma solamente per il tramite dell’esperienza diretta. Daniel24 lo intende solamente dopo la morte di Fox. Solo amando si può comprendere l’amore. Gli esseri umani che ci circondano, a volte non riescono a contemplare tale possibilità nemmeno nel corso di un’intera vita, pur potendo godere di esempi talmente potenti intorno a loro, ma è proprio questo il punto: l’esempio non basta. Ed è proprio questa la diagnosi di Houellebecq: una civiltà che non sa più amare, non è più in grado di esercitare appieno la sua cittadinanza politica, non può che essere votata alla sconfitta e all’autoannientamento. E ha la responsabilità di dichiarare il suo completo fallimento.

Autoannientamento, fallimento, suicidio programmato, ricerca di anticipare la fine della civiltà umana: «è nel fallimento, e tramite il fallimento, che si costituisce il soggetto, e il passaggio dagli umani ai neoumani, con la sparizione conseguente di ogni contatto fisico, non ha modificato affatto questo dato ontologico di base. Proprio come gli umani, non siamo liberati dalla condizione d’individuo, e dal sordo stato di abbandono che l’accompagna; ma, contrariamente a loro, noi sappiamo che tale condizione non è che la conseguenza di un fallimento percettivo, l’altro nome del nulla, l’assenza del Verbo» (Daniel24,10).

Amare significa creare le condizioni per la pluralità e l’incontro, che sono allo stesso tempo i presupposti inevitabili della politica. Parola e azione, emancipazione e trasformazione sono le parole della politica e dell’amore e ne indicano l’inscindibile necessità.

Nell’epoca dell’estensione dell’ambito della lotta (come si legge nel romanzo di esordio di Houellebecq), la tendenza all’individualismo e all’egoismo contagiano l’economia e altresì l’amore, creando una società di vincitori e vinti che s’indebolisce proprio per effetto della competizione e del narcisismo che le sono connaturati.

Se pare oramai del tutto inevitabile e naturale, si direbbe connaturato alla nostra società, il ricorso a forme di produzione capitalistiche (con tutto ciò che comporta), ciò non significa che non si possa ripensare a forme di vita associata in grado di accettare la gratuità e intrinseca necessità dell’amore. Questo pare affermare da ultimo Houellebecq.

La rinuncia al sentimento, al desiderio, all’immaginazione, all’altruismo è l’indice di una devastante crisi che può potenzialmente produrre molti più danni di un’economia lasciata a sé stessa, alla sua rapacità, ai suoi rigurgiti di solipsismo, dal momento che porterebbe ad una distruzione dell’umanità e della sua ragion d’essere che coincide con le sue istanze aggregative, e quindi politiche.

E la rinuncia alla politica significa rinuncia all’umanità.

Ho dovuto conoscere

ciò che la vita ha di migliore,

quando due corpi gioiscono nella loro felicità

e si uniscono e rinascono senza fine.

 

Divenuto totalmente dipendente,

conosco il tremito dell’essere,

l’esitazione a sparire,

il sole che colpisce al limitare

 

e l’amore, in cui tutto è facile,

in cui tutto è dato nell’attimo;

esiste in mezzo al tempo

la possibilità di un’isola.

 

In questa composizione poetica che rappresenta il lascito testamentario di Daniel1, vi è un anelito universale che celebra attraverso la parola la potenza dell’amore, in cui tutto è facile, in cui tutto è dato nell’attimo.

Quell’attimo è movimento, e non stasi, ricerca dell’altro e non chiusura nella propria individualistica indolenza. L’isola possibile non è uno squarcio del tempo e nel tempo, ma esiste in mezzo al tempo, consente l’incontro, ed è anzi l’unica, l’ultima immagine pensabile della gratuità, che significa libertà, garantire all’altro di essere, di vivere spensieratamente la sua propria felicità, che nell’ottica di Houellebecq non può essere solitaria, non può significare un’estensione dell’ambito della lotta, ma condivisione e quindi emancipazione – ovvero il fondamento della categoria della politica, che è immaginazione di un mondo altro, della possibilità di un’isola, pel tramite di una parola che è pluralità e generosità. Una parola umana.

 

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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