IL GIORNO DEL SUICIDIO DI MIOFIGLIO MI SONO PREPARATO DELLE UOVA AL POMODORO:MICHEL HOUELLEBECQ OLTRE L’UMANO IN LA POSSIBILITÀ DI UN’ISOLA

PERPIETROPAOLISTEFANO PIETROPAOLI

Riconosciuto come uno degli scrittori contemporanei più provocatori e controversi, Michel Houellebecq ha il pregio di essere sempre discutibile (nel senso letterale dell’espressione), mai banale, irrimediabilmente incapace di lasciare indifferenti.

A fronte di una produzione letteraria che si sviluppa sostanzialmente in cinque romanzi pubblicati nell’arco di quindici anni, il numero di studî dedicati alla sua opera testimonia la sua capacità di intercettare le tensioni e le ansie della cultura odierna, attraversando temi che vanno dalla sessualità al lavoro, dal viaggio al consumismo, dall’invecchiamento alla solitudine e alla depressione.

Per mezzo di narrazioni in cui spesso sfumano i confini tra saggio e romanzo, Houellebecq affronta dunque le maggiori contraddizioni dell’esistenza contemporanea, ma anche questioni fondamentali sull’evoluzione dell’umanità e sui limiti dell’esperienza umana. È, quest’ultimo, il caso di La possibilità di un’isola, in cui l’autore esplora il possibile significato dell’essere umani in un’era postumana: un’era in cui una forma di eugenetica disciplinata a livello globale ha soppiantato l’umanità non geneticamente modificata.

La storia, narrata in larga parte dai cloni del protagonista principale, esplora la frammentazione dell’identità e la perdita di senso dell’esperienza umana a fronte di un’esistenza privatizzata, a-sociale e senza passioni, che mette in discussione il concetto stesso di umanità.

Due consapevolezze, di segno opposto, sembrano animare il volume di Houellebecq. Da una parte, sempre più evidente è la (bestiale) somiglianza tra la specie umana e altre specie animali. Dall’altra, siamo di fronte all’inveramento del sogno (moderno: basti riprendere Bacone) di modificare geneticamente e di dotare di protesi tecnologiche il corpo dell’Homo sapiens, consentendogli di superare i limiti stabiliti dalla natura all’insegna del cosiddetto human enhancement.

Domesticazione umana e clonazione sono dunque due espressioni del nuovo stadio di sviluppo in cui è immerso l’essere umano. Entrambe producono effetti socio-politici ed etici di straordinaria rilevanza.

Sostenendo che il comportamento umano è largamente determinato da un insieme complesso di istinti geneticamente codificati, Houellebecq sembra mettere in dubbio l’esistenza stessa del libero arbitrio. Già in Le particelle elementari le azioni che si presumono “liberamente” compiute dagli esseri umani erano paragonate alla turbolenza di un fiume che scorre intorno al pilastro di sostegno di un ponte: movimenti forse imprevedibili, ma non veramente liberi. Occorre tracciare una distinzione tra gli esseri umani, che dimostrano differenze e desideri individuali, e le forze della natura, che obbediscono a leggi universali. La sofferenza dell’umanità è il risultato dell’animale appiattimento al desiderio individuale, solo apparentemente dissimile dalla brutale lotta evolutiva che accomuna gli altri animali.

L’uomo – così dice Daniel, il protagonista “ancora umano” del romanzo – è un “animaletto innocente, amorale, né buono né cattivo, semplicemente in cerca della sua razione di eccitamento e di piacere”. Solo il rifiuto dei desideri individuali (e in ultima analisi la rinuncia alla identità stessa: «Le moi est la synthèse de nos échecs») può condurre a un’accelerazione gestita del processo evolutivo capace di liberare l’umanità dalla sofferenza.

L’evoluzione umana – egocentrica e schiacciata sulla ricerca del piacere individuale – trova una battuta di arresto nel rifiuto di avere figli. Daniel registra non soltanto la sempre maggiore diffusione nella società umana di zone child-free, ma un più generale atteggiamento di rifiuto dei fastidî  e delle spese di allevamento della prole. Gli Elohimiti – la setta pseudo-religiosa le cui sperimentazioni creano i presupposti dei futuri “neo-umani” – hanno per slogan “JUST SAY NO”: espressione un tempo usata per la lotta contro le tossicodipendenze, e adesso impiegata nella lotta contro la procreazione. I neo-umani elimineranno del tutto l’infanzia. L’intero processo di embriogenesi e lo sviluppo infantile diventeranno obsoleti, inutili e “pericolosi” (in quanto soggetti a deformità ed errori). I cloni neo-umani saranno invece creati già come adulti completamente formati, dotati del corpo di un(a) diciottenne.

Daniel rivela che l’unico gesto nobile (e l’unico atto di autentica ribellione) compiuto nella propria – mediocre – esistenza è stato quello di non avere alcun rapporto con il figlio, in modo da rifiutare la catena, rompere il cerchio illimitato della riproduzione della sofferenza. “Il giorno del suicidio di mio figlio mi sono preparato delle uova al pomodoro”, dice Daniel. E prosegue: “Non avevo mai amato quel figlio: era stupido come la madre e cattivo come il padre. La sua scomparsa era lungi dal rappresentare una catastrofe; si può fare benissimo a meno di esseri umani del genere”.

Del resto – come racconterà in seguito il 24° clone di Daniel – il suicidio è destinato a diventare la regola per quasi la totalità degli esseri umani: eufemisticamente ribattezzati “partenze”, i suicidî si trasformano in una pratica sociale accettata (gli Elohimiti e alcune culture orientali sviluppano persino elaborate cerimonie pubbliche per questi rituali), comportando l’abbassamento dell’età media intorno ai sessant’anni (ma nelle nazioni più “sviluppate” anche inferiore).

In uno dei primi resoconti forniti dai cloni di Daniel viene spiegato che l’obiettivo di datificare e memorizzare digitalmente le personalità, per poi scaricarle nei circuiti neurali dei discendenti clonati, è stato abbandonato nel momento in cui  si è compreso che la personalità può essere ridotta a mera memoria. Di conseguenza, i cloni condividono l’identità del proprio antenato semplicemente apprendendo il “resoconto” della sua vita.

I cloni neo-umani osservano con commiserazione il comportamento dei “selvaggi”, i miseri resti della specie umana sopravvissuti a una lunga era di guerre, carestie e devastazioni ambientali, che condividono il pianeta con loro pur senza alcun contatto tra le due specie. I vecchi umani sono regrediti a uno stile di vita tribale, equiparabile a quello dei  cacciatori-raccoglitori preistorici. La rigida gerarchia sessuale delle loro comunità – in cui solo i maschi più forti e in forma hanno accesso alle femmine – è solo superficialmente diversa dalla mischia sessuale delle società tardo-umane. Una società organizzata intorno alla cieca ricerca evolutiva della perpetuazione della specie comporta la conseguenza che un corpo non più “sessualmente utile” non merita più di essere protetto, conservato, salvato dalla società.

L’ennesimo clone di Daniel osserva cerimonie in cui i due membri più anziani di una tribù di selvaggi combattono all’ultimo sangue, finché il più debole non viene sconfitto, fatto a pezzi e divorato. Nelle società (leggermente) più civilizzate, gli individui più anziani si autodistruggono invece di essere distrutti dalla comunità, ma il principio rimane il medesimo. Come osserva Daniel, il sesso è l’unico piacere sano e vivificante, mentre tutti gli altri – cibo e bevande abbondanti, tabacco e altre droghe – non sono in grado di dare un senso alla vita,  essendo finalizzati solo ad accelerare l’autodistruzione una volta che il sesso non è più un bene disponibile.

Questa opprimente visione dell’evoluzione come sopravvivenza del più adatto, che innerva La possibilità di un’isola, ricorda in qualche modo la critica di Nietzsche: l’umanità non è semplicisticamente soggetta alle leggi della natura, e qualsiasi tentativo di far derivare una “etica naturalistica” da queste leggi pecca di “antropomorfismo estremo”.

Daniel ammette di aver sempre evitato la politica perché “la radice di ogni male era biologica e indipendente da qualsiasi trasformazione sociale immaginabile”. Questo tipo di posizione implica una fede lamarckiana nell’ereditarietà morale, un punto di vista che nel romanzo viene messo in bocca al neo-umano Daniel25: “è naturale che siano gli individui più brutali e più crudeli, coloro che dispongono del potenziale di aggressività più elevato, a sopravvivere in maggior numero a una serie di conflitti di lunga durata e a trasmettere il loro carattere alla discendenza”.

Questo pessimismo evolutivo è apparentemente smentito dallo sviluppo narrativo de La possibilità di un’isola, in cui l’umanità rinuncia sia al suo passato atavico sia al suo futuro come specie e si consegna al suo successore post-umano (o neo-umano). Come commenta Daniel24 , il rapido declino dell’umanità “ha tutte le apparenze di un suicidio collettivo”. Daniel25 aggiunge che alcuni fenomeni della tarda umanità – come il movimento ambientalista – sono stati segnati da uno strano masochismo, da un certo “desiderio dell’umanità di rivoltarsi contro se stessa, di porre fine a un’esistenza che sentiva inadeguata”.

Questo esito appare paradossale: una specie così preoccupata dal raggiungimento di piaceri a breve termine, e per di più asservita a una logica evolutiva volta alla conservazione della specie, decide di propria iniziativa di abbandonare la posizione di padrone del pianeta e affida la successione a una specie radicalmente diversa. Non è difficile immaginare che una specie più avanzata possa soppiantare i suoi antenati attraverso la guerra o lo sfruttamento più efficiente delle risorse; ma è del tutto improbabile – paradossale, appunto – che una specie crei consapevolmente il proprio successore evolutivo per sottomettersi a esso. Sarebbe, questo, il trionfo della ragione sul desiderio?

Ipotizzando la transizione da un’umanità decadente ed egocentrica a una neo-umanità serena e saggia, La possibilità di un’isola solleva la questione che si situa al centro di tutte le narrazioni utopiche: l’utopia richiede una trasformazione radicale della soggettività, oppure vuole che le sue condizioni di realizzabilità siano già inscritte nella natura umana?

Houellebecq immagina una diversa organizzazione sociale in risposta al dolore causato da varie forme di disuguaglianza tra gli esseri umani. L’annullamento della proprietà privata del sé è solo il primo passo verso questa utopia. Ma c’è più di una sola utopia in LPI.

La prima – in realtà, come subito vedremo, una falsa utopia – è rappresentata dalla setta degli Elohimiti, che fondano una comunità alternativa basata su valori e principî diversi da quelli della società tradizionale. Sono loro che avviano le sperimentazioni sulla clonazione umana dalle quali sorgerà la specie neo-umana. Gli Elohimiti praticano uno stile di vita sano, connotato da una dieta attenta e dall’esercizio fisico, ma il nucleo della loro comunità è un’etica di liberazione sessuale paragonabile a quella degli anni Sessanta e Settanta del Novecento (già schernita da Houellebecq in Le particelle elementari). La loro sessualità è poligama e polimorfa, e incoraggia le donne a “far esplodere la propria femminilità e l’esibizionismo che è [loro] consustanziale attraverso tutti gli abiti scintillanti, trasparenti o aderenti che l’immaginazione dei sarti e dei creatori aveva messo a [loro] disposizione”. L’amore libero si rivela così solo la scusa di una minoranza di uomini per moltiplicare le proprie conquiste: quella degli Elohimiti è una falsa utopia, le cui fondamenta sono quell’individualismo e quell’edonismo egocentrico a cui solo apparentemente sembra voler rinunciare.

La vera utopia del romanzo, quindi, è costituita dalla specie postumana clonata. L’idea di questa comunità utopica era stata sviluppata dagli Elohimiti, che clonano il DNA dei loro adepti con la promessa di una futura resurrezione a vita eterna, partendo dal presupposto che, in un futuro, sarà possibile immagazzinare, copiare e scaricare gli elementi di una personalità in un corpo clonato, in modo che la coscienza individuale sia in grado di trascendere l’invecchiamento e la morte.

Tuttavia, questo programma viene successivamente  modificato dalle prime generazioni di cloni, con l’intento di creare una specie neo-umana deliberatamente distante dai suoi antenati umani. Esistono, infatti, alcune differenze fisiche significative tra gli esseri umani e i neo-umani. Come già ricordato, i cloni superano le fasi dello sviluppo infantile, nascendo come adulti pienamente formati di diciotto anni. Ai primi cloni vengono apportate alcune modifiche anatomiche significative: l’apparato digerente e l’ano vengono eliminati, per lasciare il posto  a un sistema che converte in maniera efficiente l’energia di cellule fotosintetizzanti. Ed è proprio questa modificazione genetica che permette ai neo-umani di sopravvivere al catastrofico cambiamento climatico che spazza via la popolazione umana.

In seguito, quando lo studio della storia umana porta i neo-umani a credere che la sensibilità della pelle umana sia in parte responsabile dell’angoscia provata per la mancanza di un tocco affettuoso, i cloni desensibilizzano deliberatamente le loro fibre nervose per spegnere questa sensazione. Queste differenze, benché ottenute con l’ingegneria genetica piuttosto che con la mutazione naturale, sono sufficienti a fare dei neo-umani una specie a sé stante, che non prova alcun senso di responsabilità nei confronti degli esseri umani e non è obbligata a salvarli dalla propria apocalisse autoimposta. Come profetizza Daniel1 , la nuova specie avrebbe avuto nei confronti degli esseri umani “gli stessi obblighi morali che costoro avevano nei confronti delle meduse o delle lucertole”.

Ogni neo-umano vive da solo in un complesso privato e sicuro che, in linea di principio, non lascia mai nel corso della sua esistenza. Nonostante le loro vite siano completamente separate, sono anche praticamente identiche: come commenta Daniele24: “ci riconosciamo isolati ma simili, e non abbiamo più voglia di unirci”.

I neo-umani hanno dunque completamente abbandonato la socievolezza: vivere in gruppi, tribù o famiglie può essere servito a uno scopo evolutivo utile nelle prime società umane, ma è diventato “un resto inutile e ingombrante”. Di conseguenza, il riso e le lacrime scompaiono rapidamente dalla vita neo-umana, poiché gli atteggiamenti di crudeltà o compassione che renderebbero possibili queste manifestazioni fisiche del sentimento non sono più immaginabili in questo stile di vita. Come afferma il clone che scrive il prologo del romanzo, le gioie della vita umana non sono conoscibili per i neo-umani, mentre i suoi dolori, invece, non possono distruggerli.

I neo-umani credono che il desiderio e l’appetito di procreazione siano il risultato di una sofferenza che si lega all’essere stesso. Essi cercano di superare questo destino infelice a favore di una situazione in cui l’essere è sufficiente a se stesso e tutto il resto è una questione di indifferenza: in breve, “la perfetta serenità”.

La vita di ogni clone è a tutti gli effetti identica a quella dei loro predecessori e successori clonati. Senza eventi significativi che segnino la loro vita, e senza il desiderio di diventare qualcosa di diverso da ciò che sono stati i loro precursori, non c’è alcuna possibilità per quella che Daniel25 chiama “fantasia individuale”. I fondatori di questa nuova vita hanno redatto un testo intitolato “Istruzioni per una vita tranquilla”: un vero e proprio manuale che illustra dettagliatamente la procedura da adottare per ogni evento immaginabile in una vita neo-umana, in modo che i cloni non siano mai chiamati a prendere decisioni individuali (e reprimendo, quindi, l’insorgere di qualsiasi desiderio).

Niente denaro, niente  sesso, nessuna scelta politica, dunque. Tuttavia,  queste precondizioni di ordine negativo non erano sufficienti a permettere alla neoumanità di raggiungere l’auspicata  “neutralità del reale”. Era necessario fornire un catalogo concreto di prescrizioni positive: indicazioni per dirigere il comportamento individuale in modo tale da renderlo “prevedibile quanto il funzionamento di un frigorifero”. In questa chiave, il massimo punto di riferimento “letterario” (!) prodotto dalla vecchia umanità   è rappresentato dalle “istruzioni per l’uso degli elettrodomestici di dimensioni e complessità medie, in particolare quelle del videoregistratore JVC HR- DV3S/ MS”.

I neo-umani non escono mai, non si vedono mai, non hanno piaceri di cui parlare e passano la loro vita a studiare la storia, mantenendo un’esistenza perfettamente statica per non ripetere gli errori dei loro selvaggi predecessori.

Rispetto alle comune percezioni della clonazione come strumento narcisistico teso prolungare o ripetere il proprio io e la propria vita, o come mezzo per creare individui “perfetti” privi di malattie e difetti, i cloni di Houellebecq sono “migliorati” (nella misura in cui hanno una salute migliore, una maggiore resistenza e una maggiore longevità), ma non narcisistici (non hanno alcun senso di coscienza individuale), e non aspirano all’immortalità  perché le loro vite sono rigorosamente identiche e ripetitive. Inoltre, la morte non li spaventa perché sanno che saranno sostituiti da qualcuno che avrà il loro medesimo aspetto e condurrà una vita identica alla loro.

Risulta quindi che le paure e i desideri che proiettiamo sulla clonazione – o sulla possibilità di una “umanità aumentata” – si basano interamente sulle nostre attuali preoccupazioni umanistiche, che nascono dal fatto di avere corpi mortali segnati da differenze individuali. Ciò che Houellebecq sottolinea è che, per una futura specie clonata, tali preoccupazioni – la mortalità, l’individualità, il narcisismo, la lotta sessuale, gli affari – cesseranno di avere qualsiasi significato.

In una visione propriamente postumanista la sofferenza è irrilevante. Ciò che conta è l’adattamento delle specie all’ambiente, e non la sofferenza provata dagli individui a causa della loro maggiore o minore conformità al modello adattativo. La distinzione tra un modo umanista (o antropocentrico) e un modo postumanista (non antropocentrico) di concepire queste questioni può essere ulteriormente chiarita se guardiamo di nuovo alle due utopie ricordate. La prima utopia, quella del culto elohimita, nascendo da desideri egoistici e fin troppo umani, si rivela incapace di cambiare davvero la vita umana. Il futuro deve essere pensato al di fuori di questa prospettiva antropocentrica: questo è ciò che ottengono i neo-umani, che eliminano tutto ciò che potremmo riconoscere quali tratti umanistici: individualismo, scopo, auto-nomia. La loro utopia ci appare gelida e senz’anima e, alla fine, forse non è più nemmeno un’utopia, che è un concetto legato alla fede nella perfettibilità umana.

Houellebecq ci costringe a riflettere sulle nostre aspirazioni e sui nostri limiti, ponendo interrogativi su ciò che può situarsi oltre l’umano in un mondo sempre più mediato dalla tecnologia. Nonostante la sua visione cinica, nel romanzo sembra a volte permanere un’aura di “nostalgia umanistica”. Alla fine del libro, Daniel 25 sogna la possibilità di un’isola dove l’amore, non solo il piacere sessuale, sia possibile. Ma il testo rimane tragico, e quindi non vi è lieto fine. Il tempo per la redenzione umana è finito.

BIOTECNOLOGIE ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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