ESITAZIONI BESTIALI: I DUE PETER E L’ARTE KAFKIANA (DI FINGERE) DI DIRE LA VERITÀ

funny-monkey-reading-bookFERDINANDO MENGA

1. Tra le risposte contenute in appendice al breve romanzo di John M. Coetzee, The Lives of the Animals – repliche raccolte quali parti integranti del volume stesso –, mi ha sempre colpito quella di Peter Singer. In particolar modo, la mia attenzione è stata catturata dalla strategia piuttosto insolita intrapresa dal filosofo australiano nel redigere la sua reazione al tema di fondo trattato nella narrazione: per dirla in termini assai generali, la vexata quaestio del rapporto umano/animale. Singer, in effetti, non propone un commento puntuale e diretto – come ci si attenderebbe da un filosofo esperto del tema quale lui è – sulle tesi sostenute dallo scrittore sudafricano. Piuttosto, egli assume la decisione spiazzante di redigere quello che potremmo definire un resoconto familiare. Se si legge il testo, difatti, ci si trova di fronte a una sorta di racconto che riporta l’interlocuzione effettivamente intrattenuta – o presumibilmente avvenuta (non lo sapremo mai per certo!)? – dall’autore con sua figlia Naomi con a tema l’opportunità o meno di affrontare la succitata questione attraverso il registro finzionale/poetico.

Ebbene, ciò che subito contribuisce a intensificare il tenore di perplessità or ora richiamato è il fatto che proprio tale resoconto non si rivela in alcun modo funzionale alla concessione di licenze finzionali da parte di Singer. Al contrario, la posizione di Singer all’interno del racconto va in direzione opposta e appare alquanto inequivoca: il filosofo non può che pronunciarsi restando fedele a un discorso epistemologico. Questa inclinazione è evidenziata da un’esclamazione piuttosto chiara rivolta alla figlia: “Di’ pure che sono antiquato, ma preferisco tenere verità e finzione ben separate”.

Ci si può chiedere, allora, trattenendo il carico di perplessità, per quale motivo Singer abbia bisogno d’imbastire un’intelaiatura finzionale per sostenere, in ultima istanza, un atteggiamento di chiara marca veritativa. Si potrebbe essere tentati di pensare che qui il filosofo si conceda un vezzo oppure incappi inavvertitamente in una contraddizione performativa. Eppure, sono convinto non si tratti né dell’una, né dell’altra cosa, ma piuttosto dell’intenzione esplicita di produrre – in modo necessariamente finzionale – un’incoerenza tale da mettere in gioco e in scena una forma d’esitazione decisiva. Esitazione, questa, che, a mio avviso, vale la pena di approfondire, poiché – questa è la mia tesi – si rivela inerente al tema stesso in oggetto: la (im)possibilità di dire la verità sul nesso o iato umano-animale.

Ma cosa c’entra in tutto questo Kafka, autore al cui gesto letterario questo volume è dedicato? Ebbene, c’entra e molto, dacché l’esitazione or ora evocata e messa in gioco da Peter Singer, a ben vedere, si articola non senza ramificazioni di senso e intrecci semantici, la cui pregnanza riesce a essere illuminata – in modo diretto o indiretto – proprio da un atteggiamento altrettanto esitante inscenato da Kafka. Atteggiamento, quest’ultimo, che, quasi per una fortuita coincidenza, vede quale protagonista un altro Peter: ovvero Pietro il Rosso – Rotpeter –, protagonista del celebre racconto Una relazione per un’Accademia.

Nella digressione che segue cercherò di mettere in luce alcune linee di questo interessante intreccio, con la speranza di evidenziare la significatività dell’atteggiamento d’esitazione in gioco.

2. Dobbiamo partire anzitutto dall’esclamazione di Singer. La connotazione di un atteggiamento “antiquato”, a cui si riferisce la dichiarazione sopra riportata è un elemento che non suscita sorpresa. “Antiquato”, in effetti, è aggettivo che richiama evidentemente quella posizione “inveterata” della tradizione filosofica che, da Platone in poi, inscrive il discorso razionale entro quel graduale cammino di chiarificazione che dal falso conduce al vero e dal fittizio giunge alla realtà “in carne ed ossa” (leibhaftig, direbbe Husserl). La separazione, a cui allude sempre Singer, pare ben rievocare, peraltro, l’aspirazione cartesiana che vede l’afferramento del nucleo di verità delle cose coincidere con il raggiungimento di idee chiare e distinte. “Dis-tinguere” richiama, per l’appunto, quella capacità di “punteggiare” e tratteggiare i confini distintivi tra le varie datità.

Tuttavia, che questa netta separazione fra verità e inganno, fra realtà e finzione, costituisca uno stato di grazia assai difficile da realizzare è già lo stesso Cartesio a metterlo in conto. Non a caso, nelle sue Meditazioni metafisiche, egli ipotizza l’intervento poderoso e pervasivo di un genio ingannatore capace di rendere indistinguibili i confini fra certezza e illusione. Ma questa complicazione, per Cartesio – come ben sappiamo –, incide fino a un certo punto. Essa, difatti, più che vanificare la possibilità di operare ogni distinzione, risulta piuttosto funzionale a esibire la necessità di un discernimento epistemologico davvero radicale, la cui meta si rivela, invero, tanto più ambita, quanto più se ne registra la difficile conquista.

Ma, di qui, un primo interrogativo può essere lanciato per scuotere una tale alleanza. È un interrogativo che, proprio prendendo l’abbrivio da quella che potremmo chiamare l’intromissione sintomatica dell’inganno – così come si desume dalla stessa scena cartesiana –, può contribuire a contemperare l’indiscusso valore di distinzione epistemica fra realtà e finzione attraverso l’introduzione di un’esitazione finzionale. Si tratta, però, di un’esitazione che – si badi bene – non intende, in alcun modo, capovolgere – o minare alle fondamenta – l’impalcatura epistemologica stessa, ma piuttosto suggerirne una sospensione al fine di produrne declinazioni diverse e, in qualche misura, promettenti.

È uno dei grandi maestri dell’ermeneutica del Novecento, Paul Ricoeur, a raccogliere appieno la consistenza di tale messa in questione e opportunità di determinare un atteggiamento esitante rispetto alla netta separazione tra verità e finzione. Uno dei meriti della sua proposta teorica è stato, in effetti, quello di abbandonare il primato di un accesso esclusivamente razionalistico-epistemico alla realtà. Alla caratteristica pretesa del soggetto conoscitore di cogliere e afferrare immediatamente l’esperienza, Ricoeur sostituisce, invece, la comprensione e significazione del mondo attraverso la strutturale mediazione del testo di finzione. Ma si tratta, per l’appunto, di una comprensione e liberazione del senso di carattere indiretto, ovvero veicolata esattamente attraverso la distanziazione che il testo medesimo produce con la sua consistenza finzionale.

In tal modo, per Ricoeur, il testo di finzione finisce per fungere da paradigma per una presa di distanza e d’esitazione rispetto alla tradizionale pretesa che intende consegnare alla comprensione epistemica il ruolo di afferramento diretto della realtà. Anzi, sempre secondo Ricoeur, il testo implica, a ben vedere, il luogo d’accesso più autentico all’esperienza stessa: ciò che noi siamo stati, siamo e possiamo essere è rivelato solo per suo mezzo. Interrogare la realtà vuol dire, in tal senso, interrogare la sua produzione mediante i testi che ne registrano la testimonianza e l’esistenza. Non vi è alcuna realtà nascosta dietro il testo, dato che, se di realtà passata siamo al corrente, questa si identifica sempre e soltanto con la trasmissione testuale che la veicola.

La conclusione che si evince da questa considerazione di Ricoeur è forte e precisa: il testo di finzione non si riduce a un ausilio secondario o mezzo straordinario mediante cui l’individuo si pone di fronte alla realtà, di contro, invece, a un rapporto privilegiato che si realizzerebbe con l’afferramento speculativo del nucleo di verità del reale. Al contrario, ponendosi proprio come entità trasversale e non funzionale di disvelamento e creazione della realtà, il testo debilita quella posizione di attivismo titanico assunta dall’essere umano, allorché pretende di avere accesso immediato all’esperienza. Al guardare e dire del soggetto si interpongono il guardare e dire del testo, in cui sono realtà ed esistenze individuali a essere custodite.

L’esitazione, di cui abbiamo detto in precedenza, si rivela, così, per Ricoeur, l’atteggiamento necessario per lasciare la parola alla consistenza finzionale che il testo stesso trasmette. Lo spiazzamento consiste in questo: la realtà non è rimessa alla nostra prensione diretta; siamo noi a essere rimessi, invece, alla realtà che il testo dispiega. Il testo crea questa distanza tra noi e la realtà. Ne consegue che, se sono i nostri occhi e la nostra mente a rappresentare e a giudicare l’esperienza è perché, secondo Ricoeur, è anzitutto lo sguardo del testo a fornircene la possibilità. Come egli stesso asserisce: “Cosa conosceremmo dell’amore e dell’odio, dei sentimenti etici e, in generale, di tutto ciò che chiamiamo l’io, se tutto ciò non fosse stato portato a parole e articolato attraverso la letteratura? Pertanto ciò che sembra maggiormente contrario alla soggettività, e che l’analisi strutturale fa apparire come l’orditura del testo, è il medium attraverso il quale solamente noi possiamo comprenderci”.

3. Provvisti di questa acquisizione ermeneutica, possiamo tornare, dunque, all’affermazione estratta dalla conversazione – o meglio, dal colloquio “finzionale” – di Singer con sua figlia Naomi. Ricordiamolo: l’esclamazione del filosofo australiano non si trova né in un’intervista filosofica da lui rilasciata e neppure all’interno di una divagazione didascalica ubicata in un suo saggio. È situata, invece, come sappiamo, in appendice al romanzo di Coetzee dal titolo La vita degli animali. Ho voluto ripercorrere qui l’intera serie di rinvii contestuali, poiché – come vedremo – tali rimandi non risultano per nulla estrinseci all’effetto d’esitazione di cui mi preme parlare.

Essendo a tema un rapporto di reciprocità fra registro di finzione e registro filosofico, vi sono da individuare, qui, quantomeno due versanti o direzioni che ineriscono all’esitazione.

La prima direzione può essere desunta proprio a partire dalla dimensione più ampia e contestuale: cioè il contenitore finzionale predisposto da Coetzee; o, più precisamente, il format letterario scelto per il suo scritto. È attraverso tale scelta, e nel modo in cui l’autore la declina ulteriormente, che si compone quella che mi piacerebbe chiamare una sorta d’esposizione ed esitazione finzionale nei confronti della filosofia.

Ciò che colpisce, in effetti, è il fatto che La vita degli animali, raccogliendo le due Tanner Lectures on Human Values tenute da Coetzee alla Princeton University sul tema del diritto degli animali, avrebbe potuto benissimo essere redatto – secondo la formula tradizionale di queste lectures – attraverso una prosa filosofica, cioè in forma di prolusioni di stampo squisitamente argomentativo. Per quanto riguarda, poi, eventuali inciampi teorici o metodologici, Coetzee avrebbe potuto senz’altro contare sulla tipica generosità di un pubblico esperto ben incline a riservare indulgenza all’ospite onorato, il quale si cimenta in aree tematiche su cui non vanta competenze specifiche.

Coetzee, invece, intraprende un’altra strada. Operando quella che oserei definire una sorta di presa di distanza, o dislocazione/differimento, attraverso una duplicazione finzionale, decide di redigere le due conferenze in forma di racconto; e cosa importantissima si tratta di un racconto che specularmente riflette la sua medesima situazione. Il suo racconto, in effetti, vede come protagonista Elisabeth Costello – anch’essa scrittrice –, che viene invitata dall’Appleton College a tenere due conferenze a sua scelta. Conferenze che, non a caso, Costello decide di incentrare non sulla letteratura, suo ambito di competenza, bensì sul tema dei crimini perpetrati contro gli animali. Per inciso, le due prolusioni, rivolgendosi precisamente agli argomenti “I filosofi e gli animali” e “I poeti e gli animali”, ben sottolineano la centralità del rapporto verità-finzione, a cui ci stiamo dedicando.

Ora, se indaghiamo i motivi per cui Coetzee, nell’articolazione del suo discorso, inceda con una tale serie di dislocazioni e differimenti finzionali a mo’ di un gioco di specchi, un ventaglio di risposte, tutte plausibili, ci si parano davanti. Tra le possibili chiavi di lettura, quella che ritengo più convincente inscrive una tale dinamica di dislocazione entro una strategia di performatività della finzione, talché quest’ultima finisce per costituire un’oscillazione di fronte all’atteggiamento filosofico-epistemologico attraverso un movimento di esposizione ed esitazione. Si tratta di un’esposizione composta dal tono assolutamente assertivo della protagonista. Costello, ad esempio, mette radicalmente in dubbio il tradizionale primato della comprensione esclusivamente umana del mondo. Così esclama: “‘Mi chiedo spesso che cosa sia mai il pensiero, che cosa sia la comprensione. Siamo sicuri di comprendere l’universo meglio degli animali?’”. Ma non solo: giunge addirittura a paragonare lo “sterminio […] senza fine” compiuto contro i viventi non-umani, in un clima di generalizzata indifferenza, con l’Olocausto commesso dal Terzo Reich ai danni degli ebrei. Nondimeno, però, una tale performatività non manca di esitare, giacché l’aspra critica alla sensibilità comune nei confronti delle violenze commesse contro gli animali, a ben vedere, si realizza mediante un retrocede rispetto a un confronto a viso aperto con l’argomentazione filosofica. L’atteggiamento di Costello si limita, infatti, ad assumere un tono prevalentemente esortativo, immaginativo e retorico. Si raccoglie attorno a una postura spiccatamente extra-argomentativa che riecheggia – giusto per citare qualche esempio – in affermazioni come: “‘Chiunque dica che della vita importa meno agli animali che a noi non ha mai stretto fra le mani un animale che lotta per la propria vita’”; oppure: “‘Se non riesco a convincerla è perché le mie parole, in questo caso, non hanno il potere di convogliare l’interezza, la natura non astratta e non intellettuale, di quell’essere animale. Ecco perché la esorto a leggere i poeti. […] e se i poeti non la toccano, la esorto a seguire fianco a fianco la bestia sospinta lungo la rampa che conduce dal suo carnefice’”.

Un tale retrocedere ed esitare di Coetzee di fronte alla pratica dell’argomentare filosofico si spinge fino al punto di organizzare una strenua difesa allestita mediante un incremento della distanziazione finzionale dell’autore di fronte alle deboli tesi proferite per bocca della protagonista. Questo incremento si produce nel momento stesso in cui, non direttamente a Costello, ma a sua nuora Norma viene fatto ammettere che la scrittrice davvero “‘non sa più che pesci pigliare’” di fronte alle confutazioni filosofiche sottopostele. Vale qui la pena di notare en passant quanto non sia affatto casuale che Coetzee assegni alla nuora, antagonista razionale di Costello, proprio il nome di Norma – evidente personificazione del registro del giudicare raziocinante e conforme all’ordine normato/normalizzato.

Si badi bene, però, una dislocazione del genere (che si realizza attraverso il rimbalzo dall’autore-Coetzee alla protagonista-Costello, fino al personaggio secondario-Norma) non va interpretata come indiretta ammissione d’imbarazzo e, quindi, conferma dello statuto, in ultima analisi, ancillare del registro finzionale rispetto a quello argomentativo. Al contrario, proprio seguendo l’indicazione di Ricoeur sul carattere di accesso primigenio alla realtà fornito dal racconto di finzione, una tale strategia si rivela piuttosto coerente con il tentativo d’istituire sospensioni radicali e genuine di quello che potremmo definire l’atteggiamento “normalizzato” di comprensione dell’esperienza. In tale linea, dunque, la messa tra parentesi finzionale – ricordiamolo nuovamente – rilascia possibilità profonde di ri-semantizzazione volte a produrre configurazioni inedite d’abitabilità dell’esperienza. Configurazioni che certamente non si sostituiscono, ma neppure soccombono, al dispositivo argomentativo-razionale. Appunto: oscillano tra esposizione ed esitazione.

Ed è esattamente qui che entra in scena Kafka. Coetzee, difatti, si mostra ben consapevole di quanto sia stato proprio questo grande autore del Novecento ad aver intrapreso strategie finzionali d’esposizione e d’esitazione nei confronti del discorso filosofico-argomentativo. In particolar modo, in La vita degli animali il rinvio di Coetzee è al racconto Una relazione per un’Accademia.

Com’è noto, in questo racconto – anche qui, sotto forma d’una inscenata conferenza – si assiste alla testimonianza di Pietro il Rosso, una scimmia ormai umanizzata, la quale ripercorre il suo cammino di trasfigurazione che, dallo stato animale – di bestia catturata e imprigionata – l’ha condotta alla condizione di quasi-essere umano. Il racconto rivela il suo climax proprio nel suo effetto spiazzante rispetto al discorso razionale tradizionale, campione di verità dell’/dall’/sull’umano. Così suona, a un certo punto, il resoconto della scimmia:

“Dopo quei colpi mi svegliai – e di qui hanno inizio poco a poco i miei ricordi – in una gabbia sotto coperta […]. Nel suo insieme la gabbia era troppo bassa per star diritti e troppo stretta per stare seduti. Me ne stavo perciò accoccolato con le ginocchia piegate e sempre tremanti […] mentre, dietro, le sbarre delle inferriate mi segavano la carne. Si ritiene che una tal maniera di trattare nei primissimi tempi le bestie feroci, sia utile, e oggi, dopo la mia esperienza, non posso negare che dal punto di vista dell’uomo, questa sia in fondo la verità”.

Questa relazione compiuta a partire dalla posizione della quasi-raggiunta umanità da parte di una scimmia evidentemente non va interpretata alla stregua di un bollettino che descrive il conseguimento di uno stato di piena autocoscienza, seppur ottenuto con la violenza. Invece, in modo simile a quanto accade nella prosa di Coetzee, mi sembra che anche qui, in Kafka, ne vada della conferma del potenziale estraniante della finzione, e ciò proprio nella misura in cui la prospettiva dell’animalità si rivela in grado d’interrogare e sconvolgere la sfera stessa della razionalità umana. In effetti, se ben leggiamo il tenore del racconto kafkiano, l’acquisito stato d’umanità e d’articolatezza linguistica non viene celebrato da Pietro il Rosso quale surplus di verità o di libertà, quanto piuttosto è descritto nei termini della sola possibilità di sopravvivenza. Si tratta di una sopravvivenza strappata esattamente al prezzo di una privazione di vissuti più autentici o di comprensioni più profonde – per evocare nuovamente il lessico di Costello. In tale prospettiva, non deve dunque sfuggirci il tenore con cui continua la relazione di colei che, un tempo, era stata pienamente una scimmia:

“Ma in tutto ciò un solo sentimento: nessuna via d’uscita. Naturalmente ciò che allora sentivo come scimmia posso descriverlo oggi solo con parole umane e perciò manco il bersaglio, ma anche se non posso più raggiungere l’antica verità di scimmia questa è per lo meno sulla linea della mia descrizione, su questo non ho dubbi. Fino ad allora avevo avuto tante vie d’uscita, e ora neppure una. […] No, non era la libertà che volevo. Solo una via d’uscita […]. Ora, in questi uomini di per sé non c’era nulla che mi attirasse molto. Se fossi un adepto di quella libertà di cui parlavo prima, avrei certo preferito l’oceano alla via d’uscita che mi si mostrava nel torbido sguardo di costoro. In ogni caso però io li osservavo già da molto tempo prima di pensare a queste cose, furono anzi solo le osservazioni accumulate a spingermi in quella definita direzione. Era così facile imitare la gente. […] E così, signori, ho imparato. Ah, si impara bene quando si è obbligati; si impara, quando si vuol trovare una via d’uscita; si impara senza riguardi per nessuno. […] Come sparata fuori, la natura di scimmia uscì da me e sparì, tanto che il mio primo istruttore finì per diventare lui stesso simile a una scimmia, e presto dovette abbandonare la mia istruzione e ricoverarsi in clinica. […] Con uno sforzo quale finora non si è ripresentato sulla terra, ho raggiunto il grado di istruzione medio di un europeo. Questo in sé sarebbe un nulla, ma è pur sempre qualcosa dato che mi ha liberato dalla gabbia e mi ha offerto questa particolare via d’uscita, questa via d’uscita umana”.

In questo lungo stralcio si presenta in forma alquanto chiara il modo in cui la finzionalità di marca ricoeuriana possa funzionare nei termini di una vera e propria sospensione e presa estraniante di contro alle possibilità d’accesso medio alla realtà. In effetti, attraverso lo sguardo spiazzante della scimmia, Kafka mette fortemente in crisi la tradizionale gerarchia uomo/animale. Tuttavia, non la capovolge nel suo semplice contrario, dal momento che Pietro il Rosso, per sua stessa ammissione, non si dichiara in grado di assumere una posizione di limpido giudizio. Altro non può fare, invece, che abitare uno stato d’esitazione costituito dallo sguardo straniante che oscilla in un’espressione di contaminazione tra prospettiva umana e animale.

È esattamente in questa piega che va letta anche l’esposizione/esitazione umano-animale trasmessa da Coetzee nella sua narrazione tra finzionale e veritativo. In effetti, la sua strategia che esorta, eppure non riesce a convincere attraverso percorsi argomentativi, non si dissipa in una mera abdicazione al registro filosofico, a cui sarebbe affidata la rappresentazione dominante e ultimativa della realtà, ma ne suggerisce invece una sorta di ribaltamento speculare.

4. Rovesciamento di cui, a mio avviso, volendo concludere, è precisamente l’appendice costituita dallo scritto di Singer a fornirci emblematica articolazione.

È qui che entra in gioco l’altro versante, quello filosofico, del rapporto. In effetti, è come se nella riflessione d’appendice di Singer, il discorso filosofico, proprio nel momento in cui, per sua bocca, avrebbe occasione di ribadire il suo primato, non potesse fare altro che riprodurre, invece, esso stesso, un effetto d’esposizione/esitazione. Esposizione/esitazione che conferma, a suo modo, quel plesso di senso contenuto nelle parole poc’anzi citate di Costello, volte a sottolineare l’impotenza del dispositivo argomentativo a “convogliare l’interezza, la natura non astratta e non intellettuale, [dell’]essere animale”; natura, invece, comunicabile in modo molto più adeguato attraverso il linguaggio immaginativo ed empatico – finzionale – della poesia.

Non è dovuto, dunque, né a un vezzo e neppure a una contraddizione performativa il fatto che Singer, nello spazio d’appendice deputato a ospitare la sua replica, non si sottragga al gioco finzionale predisposto da Coetzee. In quanto filosofo di professione, avrebbe potuto infatti trasferire e risolvere tutto sul piano epistemologico, armando il suo scritto di poderose argomentazioni volte presumibilmente a suffragare ancor più la posizione antispecista di Coetzee, di cui – come ben sappiamo – anch’egli condivide lo spirito di fondo. E, invece, permane nel registro della finzione e vi si espone dall’interno in qualità di filosofo. Per la precisione, lo fa mediante un racconto che riporta una conversazione con sua figlia e nel quale si esprime l’interrogativo su come poter adeguatamente replicare, in quanto filosofo “antiquato” e dedito “a tenere verità e finzione ben separate”, alle assai deboli tesi messe in campo dalla penna di Coetzee attraverso le dichiarazioni di Elisabeth Costello. Si noti, per inciso, proprio qui, l’identificazione e presa di distanza dell’autore-Coetzee rispetto al suo personaggio-Costello: doppio movimento che sortisce – secondo quel gioco di rinvii performativi che poc’anzi richiamavo – l’effetto di un’esitazione che può orientare tanto verso un accordo reale, ma disaccordo finzionale, quanto, viceversa, verso un accordo finzionale di contro a un disaccordo reale.

Ma andiamo al punto: perché mai Singer, in qualità di filosofo, si concederebbe al gioco finzionale orchestrato da Coetzee? A mio avviso, non a motivo di una mera predilezione di marca stilistica, ma piuttosto per lasciar affiorare qualcosa di più radicale, ovvero un altrettanto necessario, quanto inverso, movimento d’esposizione ed esitazione rispetto al precedente: l’esposizione/esitazione del discorso filosofico di fronte alla finzione. Come a voler (o non poter fare a meno di) dare conferma del fatto che anche il discorso filosofico, pur senza abdicare a quello della finzione, ne risulta inevitabilmente abitato. Cosa che accade, per esempio, nel momento in cui si rivela necessario ammettere il passaggio per il registro poetico-immaginativo al fine di cogliere in modo più genuino – “convogliare [nella sua] interezza”, per dirla con le parole di Costello – l’esperienza (con/de l’)animale.

Probabilmente, è esattamente per questo che al doppio smarcamento di Coetzee sopra riportato, Singer risponde, per riflesso, con un altrettanto doppio smarcamento: quello che si palesa nel momento in cui, in coda al suo racconto della conversazione con sua figlia, non fa dire a lui stesso, ma a quest’ultima quanto segue [e qui il riferimento è a come rispondere a Coetzee/Costello]: “‘Una replica non è facile. Ma perché non provi a rispondere usando lo stesso trucco?’”. A tale suggerimento segue l’ultimo periodo dello scritto, che raccoglie più che mai un’espressione d’esposizione/esitazione di Singer, incastonata nell’esposizione/esitazione stessa che ha solcato l’intero suo racconto: “‘Io? Quando mai ho scritto racconti?’”.

Qui il gioco finzionale dei rimandi e delle distanziazioni si moltiplica sin quasi a produrre un effetto di vertigine. In effetti, sulla base di quest’ultima frase, ci si può chiedere: quello di Singer è davvero il racconto di un colloquio di un filosofo avvenuto effettivamente con sua figlia – insomma, un resoconto –, che termina con un suggerimento, a cui potrebbe far seguito o meno la redazione di un racconto ancora di là da venire? Oppure, non costituisce già l’appendice stessa di Singer il racconto di finzione, alla cui incapacità di redazione nondimeno lui rimanda in chiusura? Detto altrimenti: non è, alla fine, quello di Singer il racconto di una conversazione fittizia con sua figlia, messa in scena per rispondere con la stessa moneta (“lo stesso trucco”) alla strategia di Coetzee? O, ancora, non è nessuna delle due cose: ma, al limite, rappresenta la semplice dichiarazione espressa – o, semplicemente, messa in scena finzionalmente – da Singer, che registra un’incapacità a replicare e, nello specifico, a replicare attraverso un racconto? Oppure, infine, questa dichiarazione o sua messa in scena non è Singer a produrla, ma – per un ulteriore effetto di rimbalzo – soltanto il suo io-personaggio (tant’è che con molta cautela andrebbe letto l’ultimo pronome personale soggetto messo, non a caso, in corsivo e accompagnato da un punto interrogativo)? Il cui autore, poi, chi sarebbe per davvero? Il Singer-filosofo che racconta (ma, se racconta soltanto, è possibile fidarsi fino in fondo?) oppure il Singer-narratore che sostiene la povertà di argomenti a cui non intende replicare (ma, anche qui, se parla in mera veste di scrittore, sta argomentando seriamente?)?

Come che stiano le cose, quandanche si fosse qui propensi ad assumere che Singer abbia redatto effettivamente il suo racconto, quanto credito si può “davvero” concedergli, visto che sconfessa contestualmente la capacità di scriverlo? In effetti, afferma lui stesso (ammesso che lo faccia “veramente”, trattandosi appunto di finzione): “‘Quando mai ho scritto racconti?’”.

Inseriti in quest’estenuante gioco di rinvii e dislocazioni “senza vie d’uscita”, si potrebbe allora ben esser tentati di cedere più saggiamente all’esitazione di una scimmia: proprio come quella di Rotpeter che, in ultima istanza, ci “racconta” di averla trovata la sua “via d’uscita” – o, se vogliamo, la sua “verità” (sull’umano).

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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