KAFKA E IL XXI SECOLO: SIAMO TUTTI INSETTI?

BUGTOMMASO CICCARONE

FRANTUMAZIONE.

Su un tabellone delle Partenze/Arrivi nella stazione ferroviaria di Roma Termini, recentemente, è comparsa in tutta la sua assurdità la scritta “SIETE INSETTI”. L’ho trovato molto “kafkiano” ovvero: solo apparentemente insensato. Ciò che trovo sensato è lo stimolo argomentativo per cui la letteratura di Kafka è quanto mai attuale, quale diagnostica impietosa della contemporanea deriva del linguaggio, non solo nel tessuto della comunicazione sociale, ma soprattutto nell’ordito sfilacciato dell’esistenza nel XXI sec.

La frantumazione sociale indotta dal potere tecnocratico (o burocratico: ossessione kafkiana) ha innescato processi di atomizzazione, automazione, alienazione e implosione identitaria, riducendo l’uomo a ingranaggio del sistema (un Castello impalpabile); un automa simile ad un insetto, il destino di Gregor Samsa, il surreale antieroe de La Metamorfosi (1912).

Siamo tutti irreversibilmente automatizzati come insetti? In un’epoca di smisurata amplificazione di quel Nichilismo già preconizzato da Nietzsche o, in letteratura, da Dostoevskij, (autori amati sin dai tempi del liceo praghese) la dismisura implica la rassegnazione? Non credo, o meglio: credo che Kafka incarni, simbolicamente, nonostante il destino tragico da lui espresso nell’arte, come nella vita, una possibile risposta: la letteratura, come il cinema, può essere ancora lo scandaglio della realtà in cui viviamo, nel recupero di un barlume di senso (e non dico soluzione) negli abissi della crisi dell’uomo post-moderno, dato che la razionalità ha abdicato alla verità o alla comprensione della realtà.

LA SCRIVANIA

Il compito dello scrittore non è quello di essere desti, ma di obliare sé stessi. La prosa kafkiana è inzuppata dell’elemento notturno, non solare, in cui parole e vita vogliono fondersi ma non ci riusciranno mai. Kafka scriveva al suo amico e primo biografo Max Brod non, banalmente, di essere scrittore, ma del suo “essere scrittore”. In tedesco: “Schriftstellersein”. La parola Sein significa generalmente “essere”; ma significa anche “appartenere”, “appartenergli”.

Kafka appartiene alla scrittura nel senso che la scrittura gli appartiene come necessità ontologica (direi anche “biologica” e “patologica”) e per questo costituisce una prospettiva di rimedio che è al tempo stesso, in un corto-circuito assurdo, la sua condanna.

Condanna, cosi come il rimedio da…, è quella per cui Kafka rappresenta il negativo del proprio tempo, assunto come la propria “croce” o come il proprio assoluto. La croce, tuttavia, non gli ha impedito di cercare quel poco di positivo che il suo tempo poteva offrire.

Questo, per es., può essere il senso di un capolavoro incompiuto come Il Castello.

Kafka testimonia il negativo ma con la volontà disperata della guarigione, senza ergersi come un “superuomo” nietzscheano o come un Faust goetheano, perché per far ciò bisogna prima decifrarlo. Ma il punto è che la realtà è indecifrabile; il senso è sfuggente; l’Assoluto inattingibile (come il Castello, appunto).

SPERANZA E REALTA’

Questo confronto tra speranza e realtà smentisce una interpretazione teologica o, piuttosto, evidenzia che una supposta teologia in Kafka sia senza Dio. Siamo in pieno nichilismo alle soglie del XX secolo.

I Diari, infatti, sin dal 1910 lo esibiscono. Kafka ha 27 anni ed è ancora in buona salute (scoprirà di avere la tubercolosi nel 1919), ma da una pagina del 10 luglio emerge una espressione calma e disperata sulla condizione “miserabile” della vita. Poi, a titolo di ulteriore esempio, il 6 agosto 1914 scrive che è “disfatto anziché rimesso in salute; un vaso vuoto ancora intero e già fra cocci, oppure già coccio fra interi”.

La cifra dominante è l’estraneazione alla famiglia e all’amore (prospettiva terrorizzante del matrimonio) e alla realtà tout-court.

Per questo Kafka si identifica con la letteratura. Ama Flaubert, altro maniaco della scrittura, in continuo e irrequieto rifacimento per la tensione, anche questa disperata, alla compiutezza.

La letteratura si impone come surrogato alla vita, ma ciò non significa che essa risolva; piuttosto tiene viva, in una inesorabile agonia, la nostalgia e la disperazione per il radicale senso di esilio. È il conflitto interiore tra l’isolamento e il desiderio di comunione. L’estraneità è da intendersi persino rispetto al genere umano, come testimonia l’atmosfera surreale de La Metamorfosi. Di fronte all’Assurdo, la ragione non abdica (come in Kierkegaard, filosofo molto letto al Liceo), ma –peggio – si arrovella. Il sogno e il surreale sono l’alternativa alla ricerca di senso (assurdo) che rimane ineffabile.

Kafka ha scritto la diagnosi ma non ha prescritto una prognosi. Non c’è nemmeno la rassegnazione! Rimane l’aporia del circolo sogno-realtà, ovvero la disperazione che solo la scrittura, nel suo vincolo tragico e necessario, può edulcorare, ma non cicatrizzare.

TONALITA’ EMOTIVE FONDAMENTALI

L’ansia – non per l’ignoto, ma dell’essere ignoti -, incertezza, insicurezza, crisi e mistero di identità. Sono queste le categorie della crisi dell’eroe contemporaneo. C’è una distanza abissale con gli eroi moderni (come il Faust di Goethe) e, a maggior ragione, antichi. Teseo, per es., affronta l’ignoto del labirinto, ma non gli è ignota la ferma volontà, legittimata dal riconoscimento della sua missione, da parte della sua comunità di appartenenza. Lo stesso nemico, il Minotauro, conosce il suo avversario: la sua identità non è messa in discussione.

Nell’universo kafkiano (post-moderno ante litteram), l’identità e il riconoscimento scricchiolano, sconfinando nella indistinzione o addirittura nella spersonalizzazione anonima; il cognome, ne Il Processo, è ridotto ad una iniziale: K). Qui, infatti, Joseph K., non riesce a farsi identificare: esibisce solo la tessera di ciclista. O si pensi all’incipit de Il Castello: l’agrimensore K è veramente chi dice di essere? Ha veramente avuto un lavoro dal conte del Castello? Si tratta di registrare il nesso tra l’anonimato burocratico e quello esistenziale, motivo “espressionista” dell’uomo nudo.

Bisogna avere una divisa per essere riconosciuti, ma questo è anche il lato inquietante della “banalità del male” (H. Arendt) qui declinata come banalità/invisibilità del potere burocratico.

Per salvarsi dalla estraneità della vita l’uomo-Kafka deve restare in casa, isolato al suo scrittoio, mentre i genitori e le sorelle dormono, dopo “aver timbrato il cartellino” presso l’Ufficio delle Assicurazioni.

Kafka, attraverso i suoi personaggi (mitologici) si ritrova a “preferire morire di inedia piuttosto che morire avvelenato” (C. Magris, intro a IL Processo, p. XI).

Dunque: non esiste la Terra Promessa. Persino il messaggio messianico della cultura ebraica non appartiene all’ebreo Kafka. Egli è il poeta della procrastinazione, ovvero dell’intervallo/abisso tra sentenza e punizione: è in questo intervallo che si consuma il cortocircuito dell’esistenza (sua e) dei suoi personaggi. Ciò riflette il suo sradicamento di ebreo a Praga: una doppia separazione sia dalla comunità borghese di ceppo tedesco, occidentale, sia dalle sue radici ebraico-orientali, in una condizione di deserto o di esilio.

Praga, per inciso, ritorna in un altro grande poeta dell’esilio del ‘900, Albert Camus, che nell’opera teatrale Il Malinteso dipinge la città boema come simbolo metafisico della “nebbia esistenziale” in cui si nasconde l’assurdo.

ESILIO E SOTTRAZIONE.

Quella di Kafka non è arte di condanna o protesta. Piuttosto è l’arte di sottrarsi (invano) all’ineluttabilità dell’oggettivo e della legge; dell’assurdo, assurto a norma indecifrabile. È una partita a scacchi nella condizione inaggirabile dello scacco, senza vie d’uscita escatologiche. La sua arte, legata al rimedio per la vita, si rivela – come nel caso del rapporto drammatico con l’idea borghese del matrimonio – come “paziente costruzione autodistruttiva” (C. Magris, op. cit.). Si tratta di tematizzare la caduta dell’uomo nell’ordito sfilacciato del non-senso dell’esistenza del singolo, nella terra di nessuno.

Non è solo lo sradicamento dell’ebreo, ma la alienazione dell’uomo contemporaneo, fagocitato nell’ingranaggio surreale della apparente razionalità del moderno. Ma ciò che è razionale non è detto che sia ragionevole! In questo senso i personaggi di Kafka, al di là dell’essere banalmente kafkiani, sono radicalmente degli anti-eroi e post-moderni per eccellenza.

Ritornando alla questione del contesto, è interessante ricordare che Praga era un crogiolo di etnie, lingue e contraddizioni. Vi era la minoranza tedesca borghese, più produttiva, e tra questi gli ebrei tedeschi; poi c’erano i Cechi, la maggioranza, più poveri e identificati in un forte nazionalismo di emancipazione dal dominio austro-asburgico; infine il pluriverso ebraico, assimilato al ceto tedesco e paradossalmente distante dalle radici dell’ebraismo orientale, sortendo un atteggiamento di servilismo e sindrome della inferiorità (nel migliore dei casi aderenza di facciata)

Questo idealtipo dell’ebreo emancipato, occidentalizzato, è incarnato proprio da Hermann Kafka, descritto nella celebre Lettera al padre, dal carattere autoreferenziale e meschino; preda dell’ossessione per il successo sociale, rinnegando le sue origini ceche di povertà e stenti.

INADEGUATEZZA LINGUISTICA

All’Università Kafka aveva studiato prima chimica, poi germanistica e infine giurisprudenza, laureandosi nel 1906. L’importanza della lingua credo sia decisiva per il senso della sua letteratura.

Sulla lingua tedesca, per esempio, nel contesto mitteleuropeo di fine secolo, è acclarata la crisi del rapporto linguaggio-realtà. Si impone il drammatico scollamento tra significato e significante, pervenendo alla condizione di incertezza linguistica. Forse non è un caso che nel 1918 Ludwig Wittgenstein comporrà il Tractatus Logico-Philosophicus quale disperato, ma fallimentare, tentativo di strutturare geometricamente il senso del linguaggio sulla oggettività dei fatti.

Come già aveva detto Nietzsche, non ci sono le cose e i fatti, ma solo le loro interpretazioni!

Il tedesco, lingua ufficiale dell’impero, appare insufficiente per esprimere la realtà complessa e composita, fatta di una pluralità di idiomi e sensibilità diversificate del grande ricettacolo boemo e austro-ungarico. Basti pensare che solo a Praga coesistevano elementi cechi, slavi, germanici e jiddish.

La reazione alla crisi, sospensione e incertezza del linguaggio, nella scrittura di Kafka si contrae nel suo tipico linguaggio asciutto e “unidimensionale”.

Nella scrittura la verità, inoltre, può essere solo vissuta, ma mai descritta appieno, se non per simboli, allusioni, “parabole”, come nei racconti. Nei romanzi, invece, sono i tentativi di descrizione e rigore razionale che fanno slittare quella unidimensionalità nella sospensione e incompiutezza…oppure: apparente compiutezza. Per questo la letteratura kafkiana si carica della potenza del mito.

Venendo meno il paradigma della determinatezza, ciò che si impone è l’assurdo nella sua costitutiva incomprensibilità.

La crisi del linguaggio consiste nell’effetto di spaesamento: l’assurdità è accentuata dall’ossessione dell’indagine razionale (l’unidimensionalità di cui ho fatto cenno) e ricerca della verità. Ma, come diceva Kafka in una pagina dei suoi Diari, “se si cerca, non si trova. Quando non si cerca, si è trovati dalla verità”.

Per questo è molto più credibile la “parabola”, come strumento più efficace per alludere alla verità, spesso presente nei racconti brevi, come p.es. ne La colonia penale e Un medico di campagna, entrambi scritti nel 1914, e in cui la verità trionfa come inganno e come enigma. È anche questo il messaggio de Il Castello: la scissione tra il vivere la verità (la comunità dei contadini del villaggio del castello) e l’allontanandosene, proprio cercandola ma mai raggiungendola.

TRA ASSURDO E SENSATEZZA

Anche Dostoevskij e poi Camus hanno tematizzato, a loro modo, l’assurdo e il nichilismo della modernità, ma a mio avviso Kafka se ne differenzia in modo esclusivo. La letteratura del russo e del franco-algerino è “filosofica”, seppure sul terreno instabile della tragedia e anch’essa carica dei propri miti (penso a Camus, con il romanzo La Peste) nel senso che tematizzano l’assurdo all’insegna di una rivolta consapevole, che non è una fuga, seppur nello scacco.

O ancora: Raskolnikov, personaggio di Delitto e Castigo, non è schiacciato dal sistema giudiziario della società (come invece è per Joseph K., ne Il Processo), ma dal proprio sottosuolo di scissioni e ipertrofia della coscienza. Joseph K. è spaesato tra l’essere innocente e l’essere colpevole, ma non si sa per quale colpa, Raskolnikov è solo lucidamente colpevole. “Raskol’”, in russo, significa “scissione”, “frattura” (dagli altri e dalla società). Il personaggio di Dostoevskij è in cerca della autolegittimazione di tale diversità, come un Lucifero o angelo caduto. Il tribunale non è quello anonimo della burocrazia ma è quello della sua stessa coscienza che naufraga nella incapacità di autoassolversi per il delitto commesso contro la vecchia usuraia, incarnazione della prepotenza sociale a cui rivoltarsi. Joseph K. – e direi Kafka – non naufraga ma rimane angosciosamente in sospeso.

Quella di Kafka, nella sua esclusività, è una tematizzazione che fallisce anche qui: non come una fuga ma in termini di collasso di sé; nella estraneazione o sospensione, appunto: la malattia e la letteratura, sono la sua salvezza nel segno della rinuncia.

Nelle sue ultime volontà, Kafka ha espresso a Max Brod, il desiderio che la sua opera fosse bruciata, a conferma della drammatica consapevolezza, da parte sua, della inadeguatezza della letteratura a dare senso alla realtà dell’Europa Fin de Siecle, in cui la vita e l’opera hanno comunque divampato, consumandolo.

Forse si dovrebbe imparare a considerare la letteratura come salvezza di questo mondo e antidoto contro i rischi di divenire tutti insetti e contro l’alternativa costituita dalle rinunce della ricerca di un senso e di una possibile lettura della e nella realtà.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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