L’ULTIMA LANZAROTE

lanzaroteXENIA CHIARAMONTE

Lanzarote è il nome di un tenace sogno, di una fantasia, di una conquista realizzata, di un desiderio che non accenna a sopirsi, ma anche della fine di un mondo che c’è già stata, di una perdita che è già avvenuta, di una catastrofe che ancora si offre agli occhi e che non smette di interrogarci. Questo è un puzzle dei sogni che hanno affastellato le menti di coloro hanno fantasticato sulle magiche e fortunate terre dell’Atlantico, che hanno costruito le rotte per raggiungerle e che sono stati divorati dal desiderio di appropriarsene, e che una volta raggiunta la “pace” della conquista, hanno visto e testimoniato la catastrofe del mondo, le viscere della terra che si aprono e che emergono dando forma ad altra vita e dando vita a nuove forme. L’ultima Lanzarote è quella di Houellebecq.

Prima era, forse, Atlantide, “che allora era più grande della Libia e dell’Asia unite insieme. Oggi, dopo i terremoti che l’hanno sommersa, altro non ne resta che insormontabili bassifondi, ostacolo ai naviganti che di qui fanno vela verso il mare aperto, sì che non è più possibile passare” – scriveva Platone.

E poi come in sogno “apparve Atlantide, immenso, isole e montagne, canali simili a orbite celesti” (Battiato). Terra sommersa, mito, leggenda, che da Gibraltar verso ovest supera le colonne d’Ercole, sfida la giusta misura, e viene spazzata via dall’ira degli dei.

Lanzarote è il nome del sogno di Plinio che nella Storia naturale riconduce le isole atlantiche all’arcipelago delle Isole Fortunate, conosciute anche come Isole Felici. Sono quelle non trovate, sommerse, tanto più misteriose quanto più invisibili. Almeno fino a quando il sogno dell’esplorazione non si materializza nella spedizione dei fratelli Vivaldi, non andando a buon fine, per poi riuscire come esito di una formidabile impresa che parte da Varazze.

1312: Il suo eponimo è Lanzarotto Malocello, il quale pare fu sì lo scopritore di Lanzarote, e delle Isole Canarie, ma non il loro conquistatore. Per quello ci pensò Jean de Bethencourt che battezzò l’isola con nome latino in onore del Malocello. Di alcuni anni dopo, datata 1341, è De Canaria et insulis reliquis ultra hispaniam in Oceano noviter repertis di Messer Giovanni Boccaccio, all’apparenza solo un’asciutta relazione mercantile, che procede in verità come una guida fantastica, racconto dei racconti delle avventure e delle violenze di amici naviganti.

Pare che Lanzarotto si sia trattenuto per venti lunghi anni e che sia stato infine cacciato dall’isola da una rivolta dei nativi Guanches. Dopo un secolo di strenua resistenza alla colonizzazione e allo sterminio, lotte sanguinose fra spagnoli e portoghesi, isola dopo isola, alla fine i conquistadores usurparono il potere e si appropriarono delle terre fortunate. Racconta Boccaccio:

“A novembre, infine, tornarono alle loro basi, recando questo insieme di cose: in primo luogo quattro uomini, indigeni di quelle isole, e poi velli di becchi e di capre in quantità, sego, olio di pesce, pelli di foca, legnami rossi che tingono proprio come il verzino (sebbene gli esperti in materia dicano che non si tratta del verzino), inoltre cortecce d’alberi che ugualmente tingono in rosso, e così una terra rossa, e simili. […] Lui e i compagni […] videro una grandissima moltitudine di gente che veniva loro incontro sul lido, uomini e donne ugualmente nudi quasi tutti, sebbene alcuni, che sembravano avere una particolare autorità, fossero coperti di pelli caprine tinte di giallo e di rosso e, a quanto si poteva capire di lontano, molto fini e morbide, cucite insieme piuttosto abilmente con fili di budello. Come si poteva capire dal loro comportamento, avevano a quanto pare un principe cui tutti prestavano rispetto e obbedienza. Tutta questa gente mostrava di voler commerciare e intrattenersi con l’equipaggio delle navi. Pure, per quanto alcune scialuppe dalle navi si fossero spinte verso la spiaggia, i marinai, non intendendo in alcun modo la loro lingua, non osarono affatto sbarcare. Del resto il loro idioma, a quanto riferiscono, suona piuttosto elegante, e sciolto al modo dell’italiano. Vedendo che quelli delle navi non sbarcavano, alcuni di loro cercarono di raggiungerli a nuoto, e così ne fu catturato qualcuno: si tratta di quelli portati al ritorno.

Alla fine, visto che in quel luogo non v’era nulla che valesse la pena, i marinai si allontanarono. Nel circumnavigare l’isola si accorsero però che a settentrione essa è ben più civilizzata che a mezzogiorno, poiché da quel lato videro moltissime capanne, fichi, alberi, palme (sebbene siano palme sterili) e orti, cavoli, verdure. Perciò vi sbarcarono venticinque marinai armati, i quali, cercando di scoprire che cosa vi fosse in quelle abitazioni, vi trovarono una trentina di uomini, tutti nudi, che, atterriti alla vista degli armati, fuggirono precipitosamente. Addentrandosi fra le abitazioni, le trovarono costruite con mirabile artifizio di pietre squadrate, e coperte di tronchi robusti e molto ben lavorati; e poiché desideravano vederne l’interno e ne trovarono chiuse le porte, si misero a spezzare gli usci con dei sassi, al che i fuggitivi si misero in furore e si diedero a empire il luogo di grida altissime.

Rotti finalmente i serramenti, entrarono in quasi tutte le case, ma non vi trovarono altro che fichi secchi in cestini di palma, buoni come quelli di Cesena, e frumento di gran lunga più bello del nostro, perché aveva i chicchi più lunghi e grossi del nostro ed era molto bianco; inoltre orzo e altre biade di cui, come giudicarono, quegli indigeni si nutrivano. Le case poi, oltre ad essere bellissime e coperte di bellissimi legnami, erano tutte così candide all’interno da sembrare imbiancate a gesso. Trovarono inoltre un oratorio ovvero tempio in cui non vi era proprio alcuna pittura né altro ornamento, tranne una sola statua scolpita in pietra, raffigurante un uomo con una palla in mano, nudo, coperto le vergogne con un perizoma di palma alla loro foggia. La presero e, caricatala sulle navi, la portarono a Lisbona. Quest’isola insomma è piena di abitatori, è coltivata e gli indigeni ne raccolgono il grano, cereali, frutta e specialmente fichi. Frumento e cereali o li mangiano come fanno gli uccelli o ne fanno farina che consumano così, senza confezionarne pane, bevendoci su dell’acqua.

Del resto trovarono molte altre cose che questo tal Niccolò non volle riferire”.

Nel 1402 Tyterogaka è conquistata, e illuminata di luce cristiana. È l’estrazione del lichene Roccella canariensis a dare senso finanziario all’impresa. E vi è di più perché la rotta delle Canarie, che anticipa di novant’anni la conquista dell’America, è la prova generale che consentirà l’approdo e il genocidio delle popolazioni del “nuovo” continente.

Per certuni Lanzarote è il luogo della morte e delle sue intermittenze, un luogo dove questa può essere rinviata e sostare a mezza via fra l’assurdo e la logicità più stringente, l’irrealtà più sarcastica e la realtà più nitida: “la morte, qualora finalmente si incontrasse, sarebbe stata una donna sui trentasei anni di età e bella come poche” (Saramago). Per altri è il nome di un’isola tanto materica quanto fatta della stessa materia del sogno.

1966: La casa editrice Destino pubblica, come parte della collezione Guías de España, Las Canarias Orientales. Gran Canaria, Fuerteventura, Lanzarote. È l’antologia di un sogno, il sogno di un mondo che si scandisce in foto, album, indirizzi, percorsi, mappe, strade, lagune, charcos, saline, oasi, cactus, terra, oceano, e soprattutto il vulcano, il Timanfaya.

Lanzarote è l’archeologia della catastrofe, della fine di un mondo più che del mondo. Lo sa così bene Michel Houellebecq che non a caso ci conduce verso l’ultima Lanzarote. Un’isola che prende forma mentre il bug del Millennio si annuncia alle porte, messaggero di morte, e palingenesi forse. Ma Lanzarote è di più di questo, di più del simbolo che assurge a forma della catastrofe perché l’isola è catastrofe, ha conosciuto già la fine del mondo, come fine del suo mondo.

L’ultima Lanzarote termina, allora, con una fine di Lanzarote. Il testo può essere letto così a ritroso, a partire dalla sua fine. Fantastichiamo di un Houellebecq come Boccaccio, che anche se non raddoppia il racconto, lo fa finire con due pagine di cronache del parroco di Yaiza, ancora oggi municipalità dell’isola che porta lo stesso nome (ci si riferisce alla traduzione italiana. La cronaca del parroco di Yaiza non è riportata nella edizione francese). È Don Andrés Lorenzo Curbelo, che, salito sulla collina El Lomo del Cura, annota con perizia notarile tutto quanto avviene dinanzi ai suoi occhi turbati. Le viscere della terra si aprono davanti a lui, è un cataclisma spaventoso, e dura per interminabili giorni e poi settimane, e poi anni. La fine non avviene una volta soltanto. La fine si ripete.

“Il 1° di settembre dell’anno 1730, tra le nove e le dieci di sera, la terra si aprì di colpo a Lanzarote, nella località detta Timanfaya. […] Fino al 28 ottobre l’azione vulcanica proseguì in questa forma, con gli armenti che cadevano di colpo al suolo, fulminati dai vapori pestilenziali che si condensavano in nubi e cadevano su tutta l’isola come una pioggia di morte. Dal 1° al 10 novembre il fumo e la cenere avvelenarono l’aria rendendo quasi impossibile la vita degli umani e delle bestie; fu allora che un nuovo flusso di lava venne ad aggiungersi allo spesso strato che non aveva ancora avuto il tempo di raffreddarsi sulle plaghe già devastate. E, il 27, il medesimo fenomeno si riprodusse. […] Tutta la costa occidentale dell’isola era coperta di pesci morti, e tra di essi si trovavano specie rare e sorprendenti, che nessun isolano conosceva. Durante i mesi di ottobre e novembre le eruzioni si susseguirono un po’ ovunque, e il 25 dicembre 1731, infausto giorno di Natale, l’isola intera venne scossa dal sisma più violento dall’inizio di quel lungo disastro”.

Al diavolo ogni tentativo di rendere vivibile un’isola come Lanzarote! Houellebecq ci ha abituati a ben pochi mezzi termini, e qui non addolcisce di certo la prosa. Così come un tempo davanti alla catastrofe più impensabile apparvero “specie rare e sorprendenti, che nessun isolano conosceva” così adesso, per Houellebecq questa “riserva mondiale della biosfera” è uno spazio protetto la cui bellezza e biodiversità è in realtà sconosciuta ai suoi stessi abitanti.

“Gli abitanti di Lanzarote, ripresi allora con brio, sul piano del rapporto con la bellezza hanno esattamente lo stesso comportamento degli altri autoctoni. Totalmente insensibile allo splendore del proprio ambiente naturale, l’autoctono si dedica in genere a distruggerlo, con grande scorno del turista, anima sensibile in cerca di felicità. Una volta che il turista gli abbia rivelato la bellezza del suo habitat, l’autoctono diventa capace di vederla, di preservarla e di organizzarne lo sfruttamento commerciale in forma di escursioni”.

È, d’altronde, nuovamente l’antologia, che va affinandosi dal ’66 a oggi, ed è l’agenzia viaggi che consente a Houellebecq di accarezzare per la prima volta la fantasia di Lanzarote. Lo scrittore richiama la Guida per antonomasia,

Guide Michelin, che, con il suo ingegnoso sistema di punteggio a stelle, ha per la prima volta creato le condizioni per una classificazione sistematica del pianeta in base al suo potenziale di gradimento”.

Di dieci anni dopo, 1976, è la patrimonializzazione UNESCO dell’isola, e tutte le implicazioni discendenti dall’istituire Lanzarote come

“riserva mondiale della biosfera ed enumerava una lunga serie di divieti. Lessi con incredulità che raccogliere anche un solo ciottolo poteva comportare un’ammenda di ventimila pesetas più sei mesi di reclusione. Figuriamoci poi portarsi via qualche pianta – anche se di piante non se ne vedeva neppure l’ombra. L’eccezionalità mondiale di quel luogo non trovava il minimo riscontro nel suo aspetto, ancor più desolato e triste dei paesaggi che avevamo visto il giorno prima”.

L’adagio che vorrebbe la “natura” come soggetto, e in più come soggetto capace di fare ampiamente a meno dell’umano, della cui assenza anzi, a ogni buon conto, beneficerebbe, è contraddetto sistematicamente nella prosa houellebecquiana: “L’atto di nascita di Lanzarote era una catastrofe geologica totale, ma lì, in quella valle e per qualche chilometro, ci si trovava davanti a una natura astratta ricostruita a uso dell’uomo”.

“Il silenzio era totale. Ecco, mi dissi, a cosa somiglierà il mondo quando sarà morto.

Forse in seguito potrebbe esserci una resurrezione. Il vento e il mare aggredirebbero le rocce, le decomporrebbero in polvere e sabbia; lentamente la terra perderebbe la propria sterilità. Nascerebbero piante – e poi, molto più tardi, animali. Ma in quel momento c’erano solo rocce – e una strada, tracciata dall’uomo”.

C’è tutta una dovizia disgustata con cui qui Houellebecq interpella il non-umano: “Enfi come sono, e pieni di spine, i cactus rappresentano alla perfezione l’abiezione della vita vegetale.” Nelle peregrinazioni fra giardini, “passeggiai per qualche minuto tra le piante – che potevano effettivamente essere delle bougainvillee, per quel che me ne fotteva”. Ma a Houellebecq non interessa in realtà mostrare una superiorità di specie, anzi si beffa anche di chi crede in quella. Quanto a sé stesso: “‘Povero fesso!’ Mi voltai: era proprio il pappagallo, che adesso ripeteva: ‘Povero fesso! Povero fesso!’ con crescente eccitazione”.

Houellebecq sente la catastrofe e qui la ambienta nell’ultima Lanzarote, un “western metafisico” che galleggia fra sentimento oceanico e frontiera. Ma come disporsi dinanzi alla catastrofe? “Anche quando la vita non ti dà più niente da sperare, ti dà comunque qualcosa da temere” – sostiene Houellebecq – e “tuttavia in quell’atmosfera desolata non c’era nulla che smorzasse il mio buonumore; fu allora che mi resi conto che l’isola cominciava a piacermi”.

“Releo lo anterior y compruebo con una suerte de agridulce melancolía que todas las cosas del mundo me llevan a una cita o a un libro” (Borges). “Qualcuno forse troverà queste parole, forse capirà cosa è accaduto. Saprà che già una volta tutto è andato a fuoco, che queste parole sono state già trascritte” (Pugno).

ENDOXA - BIMESTRALE LETTERATURA

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