SENZA RADICI

PERMARRONEPIER MARRONE

La libertà è per noi principalmente un ideale che si applica agli individui. Possiamo certo parlare di libertà, ad esempio delle istituzioni accademiche, ma solo nel senso che all’interno di queste istituzioni dovrebbe essere garantita la libertà di ricerca, di espressione, di insegnamento di coloro che formano quell’istituzioni. Senza individui liberi non può esserci un’istituzione libera. Esiste un apparente controesempio a quanto sto dicendo. Si potrebbe, cioè, sostenere che una nazione può essere libera, ma non esserlo i suoi cittadini, come accade nei regimi autoritari, nelle dittature, nelle autocrazie. Si tratterebbe, tuttavia, di un abuso linguistico, perché in questi regimi la libertà individuale certamente esiste, ma è limitata a pochi individui. Anzi: questa libertà di pochi è probabilmente maggiore della libertà dei molti nei regimi democratici.

Dire semplicemente “libertà” in effetti non significa molto, se non si specifica di quali libertà si gode e a quali condizioni queste possono essere limitate. È, però, vero che almeno nei paesi liberal-democratici, gli individui non hanno mai goduto di un sistema totale così ampio di libertà. La libertà di esprimere le proprie opinioni, di professare la propria fede, se ne hanno una, di non professarla, se non ne hanno alcuna, di scegliere i propri governanti, attraverso elezioni periodiche, di leggere e guardare quello che si vuole, di dire che la liberal-democrazia è un sistema orribile che dovrebbe essere abbattuto e che noi, occidentali (e si può anche aggiungere “maschi e bianchi”), dovremmo indossare il cilicio per quanto i nostri antenati (vissuti non certo dentro un sistema liberal-democratico), non noi, hanno fatto a molti altri individui. La libertà intesa nel senso che ho detto (e, in realtà, sarebbe allora meglio parlare di libertà al plurale) è per noi che abitiamo l’occidente fortemente desiderabile e pensiamo sia un ideale fondativo sia delle nostre società politiche sia delle nostre personalità individuali. Anzi: la funzione delle prime è di tutelare le seconde.

Tutto bene? Ovviamente no e per molte ragioni, delle quali mi interessa una in particolare. La parola “individuo” significa “non diviso”. È facile pensare a questo ente non diviso come a qualcosa che non si mischia ad altro, che rimane sé stesso, che magari lotta per il diritto di esserlo. Dietro queste convinzioni si è installata una intera metafisica, quella dell’individualismo metodologico (che, tuttavia, non è appunto, soltanto un metodo). L’individuo è l’individuo e il mondo è fatto di individui. È l’individuo a essere importante e non invece i gruppi, le comunità, i partiti, le nazioni, che se non ci fossero gli individui non esisterebbero affatto. Ci sono prima gli individui e poi le relazioni, non invece il contrario. Il fatto che tutti noi siamo individui ci mette in una situazione di sostanziale eguaglianza. Ci mette, però, con questa enfasi sulla unicità dell’individualità, anche in una situazione di isolamento degli individui rispetto a altri invidivui, a meno che non siamo noi a voler stabilire delle relazioni, che, lo sappiamo, senza di noi non esisterebbero.

Eppure non facciamo fatica a pensare a relazioni che pre-esistono a noi. Sono quelle impresse nella lingua che parliamo, nella cultura locale e nazionale nella quale siamo cresciuti (e che magari vogliamo abbandonare e criticare), sono impresse nelle nostre relazioni di parentela. È però vero che queste relazioni si stanno facendo sempre più labili, o come si direbbe con un termine oggi alla moda, liquide, pronte a evaporare o ad assumere la forma di qualsiasi contenitore le accolga. Quanti di noi si percepiscono con un passato del tutto labile, pronto a scomparire in maniera istantanea una volta che noi non ci saremo più? Molti, ritengo. La categoria che per prima mi viene in mente è quella dei single, coloro che non hanno saputo cogliere l’opportunità di avere una famiglia, di fare dei figli o forse non lo hanno mai voluto. Non che ovviamente questa opportunità, che alla maggior parte di noi che siamo single si è presentata in una forma o nell’altra, sia di per sé un’occasione da non perdere a tutti i costi. Anche rimanere single ha dei suoi innegabili vantaggi, soprattutto se non si ha nessun problema con la solitudine e non ci si annoia in compagnia di sé stessi. Ma occorre riconoscere che essere dotati di empatia verso sé stessi e simpatia per il valore e l’originalità dei propri interessi è sicuramente un patrimonio che pochi riescono a coltivare. Coloro che sentono di essere effettivamente individui perché privi di relazioni stabili, familiari, lavorative, affettive, possono con notevole facilità percepirsi come sradicati, ossia come se fluttuassero in una corrente che non si sa quale direzione potrebbe prendere, senza avere un solido ancoraggio da nessuna parte.

Credo che la maggior parte dell’opera di Michel Houellebecq sia dedicata a questo problema, il problema dell’individualismo, e alle difficoltà o impossibilità di individuare delle vie di uscita dalle sue conseguenze: la solitudine, la noia, la disperazione, la futilità delle relazioni episodiche che promettono un’impossibile ricerca della felicità. Il primo libro che lessi di Houellebecq è stato Piattaforma, forse perché ero stato di recente a visitare Cuba, dove mi sarei recato successivamente come visiting professor al Dipartimento di Filosofia dell’Università dell’Avana e avevo sentito vagamente che in questo romanzo si parlava di Cuba. Ovviamente, nel libro non c’è la minima traccia di nostalgie tropicali e tanto meno di nostalgie per il fallimentare socialismo caraibico, in realtà una dittatura militare dedita a consolidare una generalizzata cleptocrazia.

Il protagonista è Michel (un’omonimia con l’autore del tutto palese), un funzionario di medio livello del ministero della cultura, impegnato nella promozione statale di artisti contemporanei per lo più sconosciuti e spesso sgradevoli, nutriti dai contribuenti e assistiti da strutture burocratiche che non creano nessun valore generale. Privo di legami, improvvisamente elevato da un reddito da ceto medio a un patrimonio da benestante dalla morte del padre, trascina la sua vita dal lavoro a qualche piccolo piacere mercenario, alla propria casa senza nessun vero interesse. “Non mi sentivo infelice, avevo centoventotto canali”. Naturalmente, Michel sa che esistono rapporti umani e relazioni, ma fatica a credere siano di qualche interesse, per il fatto che stenta a credere che gli esseri umani, soprattutto in Occidente, siano fonte di un qualche interesse autentico per qualcun altro. Così quando scopre che il padre aveva una relazione con una donna musulmana molto giovane il suo stupore si palesa nella considerazione che non riesce a immaginare il padre nel ruolo di seduttore e anzi: non riesce nemmeno a ricordarne bene i lineamenti. “Gli uomini vivomo gli uni accanto agli altri come buoi; è già molto se riescono, di tanto in tanto, a condividere una bottiglia di vino.”

La vita in Occidente è anestetizzata e infelice, quando dal torpore del consumo si riesce a guadagnare una momentanea consapevolezza, alla quale, tuttavia, è meglio rinunciare, perché fonte di dolore. Il dolore della propria solitudine Michel non lo può eliminare, al massimo può limitarlo con il torpore del consumo immateriale, che ci permette di acquistare, ad esempio l’emozione di un viaggio. “Appena hanno qualche giorno di libertà, gli abitanti dell’Europa occidentale si precipitano all’altro capo del mondo, attraversano in volo metà globo, si comportano letteralmente come evasi dalla galera. Non posso biasimarli: mi preparo ad agire come loro”. È quello che Rachid Amirou ha chiamato l’immaginario turistico, una forma di rassicurazione, poiché concepisce il viaggio come una produzione di immagini e attività ludiche per produrre un meccanismo di comprensione graduale e non traumatica di quanto è destinato a rimanerci estraneo e che nemmeno vogliamo più incorporare nella nostra storia. Per gli occidentali “la coscienza innocente del loro diritto di dominare il mondo e di orientarne la storia era scomparsa. In seguito agli sforzi accumulati, l’Europa rimaneva un continente ricco; quelle qualità di intelligenza e tenacia manifestate dai miei antenati, io le avevo chiaramente perdute. Europeo benestante, per pochi soldi potevo acquistare in paese stranieri cibo, servizi, donne; europeo decadente, conscio dell’imminenza della mia morte, e da sempre nutrito di egoismo, non vedevo alcuna ragione per negarmi tale opportunità.”

Quella di Michel è realmente una vita senza relazioni significative, destinata a consolidarsi in un vuoto privo di passioni (ma il seguito del romanzo mostrerà che questo non è un destino inevitabile). Del resto, Michel ha anche ben presente che parte di questo vuoto è provocato dalla fine della trascendenza, dalla ritirata del divino dal nostro mondo, ossia quanto in maniera icastica e letterariamente efficace Nietzsche ha chiamato “morte di dio”. Questa morte non è un evento puntuale, ma è la progressiva perdita di punti di riferimento che la religione assicurava tanto con le sue credenze, anche le più assurde, quanto con i suoi riti e le sue celebrazioni comunitarie. Dopo la religione, si è ritratta dal mondo anche la famiglia, ultima cellula comunitaria. I riti di senso di religione e famiglia sono stati sostituiti dai fragili riti dei consumi emotivi. Naturalmente, si potrebbe obiettare che tutto questo vale solo per l’Occidente, che in realtà la religione è viva e vegeta e addirittura aggressiva nelle varianti che ha assunto nell’islam sia in quello radicale sia nelle varianti separatiste che sono ben presenti anche nei paesi europei. Ma l’islam è destinato a soccombere perché non possiede la forza spirituale del capitalismo e della sua ultima incarnazione occidentale, il regno dei consumi, quello che la storica Victoria De Grazia ha chiamato “l’impero irresistibile”. Houellebecq lo esemplifica nella conversazione tra Michel e un loquace banchiere giordano in un coffee-shop thailandese: “il problema dei musulmani era che il paradiso promesso dal Profeta esisteva già nella vita terrena: lì in Thailandia , per esempio, c’erano posti dove femmine lascive e disponibili ballavano per il piacere dei maschi, posti dove ci si poteva inebriare di nettari prelibati ascoltando musiche celestiali – di posti del genere […] ce n’erano una ventina già nel raggio di mezzo chilometro dall’albergo.” Per guadagnarsi il paradiso carnale promesso dai suoi testi sacri il buon musulmano deve adempiere ai cinque pilastri della sua religione: la professione pubblica di fede, l’elemosina, la preghiera, il digiuno, il pellegrinaggio alla Mecca. Ma per farne esperienza già qui non era necessario adempiere a nessuno di questi né votarsi alla guerra santa: “bastava pagare qualche dollaro. E per rendersi conto dell’esistenza di quel paradiso non c’era neanche bisogno di viaggiare: bastava avere un’antenna parabolica.” Queste considerazioni esemplificano bene perché il consumo, l’ingresso completo delle emozioni nel mercato come beni immateriali significhino molto altro, al di là della fruizione che gli individui possono farne. Sono un succedaneo del senso che la trascendenza offriva.

Una volta, mi pare in un’intervista, Houllebecq profetizzò che l’islam a Gaza sarebbe stato sconfitto dalle rivendicazioni delle donne, che attraverso internet si sarebbero rese conto della vita da schiave che conducevano sotto la dittatura di Hamas. La considerazione appare oggi ingenua, a fronte dell’entusiasmo popolare che il pogrom del 7 ottobre ha suscitato nella popolazione araba a Gaza e in altri posti. Effettivamente le donne si sono ribellate in vari altri posti dominati dall’islam, ad esempio in Iran, dove qualche studiosa, troppo entusiasta, ha addirittura parlato di rivoluzione. Anche questa è una generosa ingenuità, perché per fare le rivoluzioni è necessario avere le armi e le donne iraniane, ammazzate e stuprate dalla polizia religiosa, non le hanno. Saranno le donne a salvare sé stesse dalla dittatura maschile nell’islam? C’è da dubitarne.

Un’amica tempo fa mi scriveva della sensualità dell’espressione degli occhi di un viso di donna musulmana completamente velato. Verrebbe da chiedersi perché non girasse lei nella mia laica città, Trieste, bardata con il velo, se si stratta di una cosa tanto sensuale. Anni fa mi trovavo a fare una vacanza in Thailandia con un’amica. A causa di un mio errore prenotai un albergo a Bangkok, che poi scopersi essere di proprietà di un fondo sovrano del Qatar. Una sera, uscendo per andare a cena, ci ritrovammo in ascensore con tre donne musulmane e i loro figli, completamente ricoperte da vestiti neri, tranne che per una fessura per gli occhi. Nessuno ci salutò, tranne i ragazzini. La mia amica, magra, altissima, era vestita sobriamente con una minigonna. A un certo punto, una delle tre dopo aver fissato a lungo la mia compagna, cominciò a tremare, schiacciò furiosamente un tasto della pulsantiera e appena fermo a un piano qualsiasi, si precipitò fuori dall’ascensore. Le stesse donne le vedevo a colazione che si rimpinzavano, già obese, di carboidrati, mentre i loro mariti non le degnavano di uno straccio di conversazione. “Povere donne. Povere schiave” pensavo. Forse, però, una via d’uscita per la distruzione dell’islam fondamentalista e anti-occidentale, per la sua neutralizzazione (analoga alla neutralizzazione politica della religione in Occidente) non è affatto la guerra, bensì lo scontro culturale, che secondo il banchiere giordano che appare in Piattaforma è già vinto. “Secondo lui il sistema musulmano era spacciato: il capitalismo lo avrebbe schiacciato. Già i giovani arabi cominciavano a sognare sesso e consumismo. Nonostante si affannassero a sostenere il contrario il loro sogno segreto era di integrarsi al modello americano: l’aggressività di alcuni di loro non era altro che l’inequivocabile sfogo di un’invidia impotente.” Ossia: anche il dio del Profeta è morto. Molti musulmani già lo sanno, come sanno che la scarsa flessibilità della loro cultura li condannerebbe a un’arretratezza tecnologica e scientifica incolmabile, se non fosse per i petrodollari con i quali comprano tecnologie che non sono in grado di produrre.

Tuttavia, l’islam è anche una promessa, come emerge compiutamente dal romanzo più controverso di Houllebecq, Sottomissione, che è appunto la parola che traduce ‘islam’. Quel romanzo è uscito il giorno del massacro islamista di Charlie Hebdo, dove venne ucciso anche un amico di Houellebecq, Bernard Maris, un professore di economia, autore di un curioso libretto intitolato Houellebecq economista. Non sono mancate le interpretazioni che hanno messo in relazione la strage con l’uscita del suo nuovo romanzo. Ma su questo romanzo c’è stato forse un equivoco, ossia il fatto di averlo presentato come un romanzo dal contenuto anti-islamico. In realtà, può essere letto in tutt’altra maniera, vale a dire come uno spot a favore dell’islam. Il protagonista, un professore universitario sradicato e disilluso, in una Francia avviata a una islamizzazione tranquilla, si converte all’islam perché gli permette di sottrarsi alle responsabilità della libertà, procurandogli quei vincoli familiari e sessuali e amicali che proteggono la sua vita e alla vita sembrano dare un senso.

Si sa che la vicenda di Piattaforma si conclude in un disastro: un attentato di estremisti musulmani forse malesi, in un resort thailandese dove si pratica il sesso libero, provoca numerosi morti e uccide Valérie, la donna della quale Michel alla fine si innamora e con la quale si prefigura un futuro pacificato. Questa pace è ancora molto lontana per noi, come suggerisce profeticamente Houellebecq, il quale pare aver abbracciato il paradigma dello scontro delle civiltà, reso popolare da Samuel Huntington, dove i conflitti sono tra visioni del mondo e non tra potenze economiche e ideologiche. Questo paradigma mi pare una chiave interpretativa efficace. A una cultura dove dio, un dio combattente, un dio che vuole espandersi tra gli infedeli, è un ricettacolo potente di senso, anche se certamente non l’unico, che cosa abbiamo da opporre? La risposta positiva di Houellebecq non c’è, ma c’è una risposta negativa: quello che abbiamo da proporre è troppo poco, è troppo debole.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA LETTERATURA

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