CARNI DIGITALI: MORBIDEZZA,VULNERABILITÀ E DECOMPOSIZIONE DELLA PRESENZA ONLINE

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Superficie libidinale, passing nomadico, corpo disseminato, corpo invaso, entità postorganica, neutralità fisica, corpi-in-protesi, corpo bio-macchinico, identità multipla. Innumerevoli sono le definizioni – a volte molto fantasiose – attribuite dalla cultura cyborg, cyberpunk e postumana alla nostra corporeità, mentre è sottoposta a costante metamorfosi in virtù delle evoluzioni scientifiche, tecnologiche e mediche degli ultimi decenni del Novecento. In particolare, il concetto di cyborg, così come nasce e si sviluppa tra gli anni Sessanta e Novanta del secolo scorso, ha influenzato la creazione di svariati immaginari in cui il corpo viene pensato come strabordante dai propri confini, eccedente oltre i suoi contorni, rappresentando il punto di partenza fondamentale per svariate rivendicazioni di natura sociale, culturale e politica. Il corpo diventa, in altre parole, il luogo dell’umano per eccellenza, riferimento imprescindibile per ripensare il legame tra un interno e un esterno, tra ciò che appartiene all’essere umano e ciò che gli è estraneo. Le inedite rappresentazioni dei concetti di confine, limite, delimitazione e frontiera, a causa del rapporto sempre più stretto tra il naturale e l’artificiale, tra fisico e il tecnologico, articolano in modalità altrettanto inconsuete le relazioni tra la salute e la malattia, tra la vita e la morte, tra l’effusione sessuale e la sua sola fantasia. Da Donna Haraway al movimento femminista delle riot girl, da Hihab Hassan a Stelarc, da Mark Dery ad Antonio Caronia: l’universo della letteratura, della filosofia, dell’arte e della musica moltiplica all’infinito gli scenari in cui il corpo viene messo in vetrina e sezionato, mescolando insieme sangue, organi, cavi e protesi. Per spiegare i suoi esperimenti di body art estrema, Stelarc sostiene che la pelle sia “l’inizio del mondo e insieme il confine del sé. Ma ora stesa, forata e penetrata dalla tecnologia la pelle […] non significa più chiusura. La rottura della superficie della pelle significa l’eliminazione di dentro e di fuori” (cit. da Lorenzo Taiuti, Corpi sognanti. L’arte nell’epoca delle tecnologie digitali, 2001). Immagine, quella della pelle senza chiusura e dell’assenza di un limite tra il dentro e il fuori, messa magistralmente in musica dai Nine Inch Nails nell’epocale brano The Becoming, tratto dall’album The Downward Spiral (1994), capolavoro senza tempo di quell’industrial music che unisce insieme le chitarre rock ai campionamenti techno. The Becoming narra la metamorfosi dell’umano, progressivamente invaso da cavi, circuiti e strumenti artificiali. Tutto il dolore scompare, i sentimenti si attenuano, il sangue smette di pompare. Il divenire tecnologico del corpo diventa, pertanto, la metafora agrodolce dell’anestesia psico-emotiva prodotta dalle sostanze stupefacenti, all’interno di un progredire sonoro – in questo specifico caso – apocalittico in cui l’umano perde definitivamente il suo controllo razionale e il suo equilibrio.

Ora, l’epoca del cyborg, del cyberpunk e del postumano, fortemente influenzata dal pensiero postmoderno e dal desiderio di decretare la “morte dell’uomo” dopo quella di Dio (Foucault docet), si sviluppa all’interno di una cornice in cui le tecnologie digitali stanno ancora lentamente prendendo piede. Si è, in altre parole, ben lontani dall’universo dei social media – la cui data fondamentale è il 4 febbraio 2004, giorno della nascita di Facebook (anticipata, va detto, da svariati tentativi simili: SixDegrees, Friendster, MySpace, ecc.) – e quindi dalla piena integrazione tra l’offline e l’online. Oggi, con il passaggio dalla rivoluzione digitale al cosiddetto mondo “post-digitale”, nel quale non ha più senso porre barriere tra l’online e l’offline, il virtuale e il reale, ci stiamo abituando a vivere dentro un contesto socio-culturale basato totalmente sulle integrazioni e sulle fusioni tra quegli elementi che, almeno sulla carta, abbiamo pensato spesso come separati (appunto, il reale e virtuale ma anche il materiale e l’immateriale, il biologico e il tecnologico e via dicendo, sulla scia del dualismo platonico-cartesiano). Non è casuale la diffusione intergenerazionale di neologismi quali “onlife” (Floridi) o “OmO – Online merge Offline” (Kai-Fu Lee), i quali modernizzano la processualità insita in espressioni oramai antiquate come ubiquitous computing o ubicomp (Weiser) o nella dichiarata corrispondenza tra atomi e bit (Negroponte). Il corpo, nel passaggio dalla rivoluzione digitale al mondo post-digitale, come viene rappresentato? Mantiene le caratteristiche che lo hanno definito alla fine del Novecento? Ni. Ciò che viene oggi enfatizzato è soprattutto il suo passaggio – più o meno – metaforico attraverso gli schermi, rivestito con quei dati che, una volta prodotti, condivisi e registrati, garantiscono l’estensione dell’umano dall’offline all’online e viceversa. Tra le varie descrizioni del corpo umano nell’epoca odierna una mi pare particolarmente interessante: quella di carne digitale (Digital Flesh). Il concetto di carne digitale è stato elaborato a partire dall’uso di Second Life da Margaret Gibson e Clarissa Carden nel libro Living and Dying in a Virtual World. Digital Kinships, Nostalgia, and Mourning in Second Life (2018). Il termine viene utilizzato, nello specifico, per la descrizione di una vita “diversamente incarnata” ma non meno mortale. “Carne”, non “corpo”: il concetto di carne, infatti, evoca la morbidezza e la vulnerabilità, ma anche quella fragilità che, riguardo per esempio alle relazioni sessuali, richiama alla mente tanto la lussuria quanto il cannibalismo. Pensiamo, per stare nel campo della musica rock, al video di Sick Sick Sick dei Queens of The Stone Age in cui i primi piani della carne macellata si alternano all’ingordigia di una donna tanto sexy quanto cannibale, le cui labbra evocano passione e fame di carne umana. Oppure, spostandoci nel campo della letteratura contemporanea, pensiamo alla protagonista – altrettanto affamata di prelibatezze umane – del libro L’incanto del pesce luna di Ade Zeno con il “suono delle mandibole che iniziano a cigolare, la frizione degli incisivi, lo sciacquio della lingua che pregusta il sapore della carne fresca”. L’inglese Flesh assomiglia – d’altronde – al tedesco Fleisch, evocando anche la decomposizione. Questi significati permettono a Gibson e Carden di portare alla luce le articolate prerogative dei nostri movimenti attraverso gli schermi, sottolineando sia la vorace rumorosità dei profili social sia la creatività implicita nello sviluppo multi-identitario delle vite incarnate e narrate in cooperazione con gli altri utenti della Rete. Le due autrici, in particolare, ritengono che la carne digitale sia la metafora più adatta a mettere limpidamente in luce il contrasto tra la carne mortale e la presenza senza tempo dei dati che la riproducono nel mondo online. “È proprio da questa contraddizione e tensione che il termine trae la sua forza descrittiva”: i processi che ci impegnano costantemente nella dimensione online ci rendono, subito, vulnerabili in quanto esseri umani. La visceralità della nostra carne digitale, quando siamo vivi, si manifesta nelle conseguenze concrete – a volte positive, spesso negative – delle azioni prodotte nel mondo online. Quando invece moriamo, nella sopravvivenza ad libitum delle nostre vite online, i cui effetti possono richiamare alla mente la decomposizione, una volta che intercettano l’alienazione e non il ricordo in chi ha patito la perdita.

Patrick Stokes, nel libro Digital Souls (2021), si spinge oltre sostenendo che quella della carne digitale, teorizzata da Gibson e Carden, non è solo una metafora. Innanzitutto, per disporre di carne digitale non basta avere semplicemente un profilo social o un avatar corrispondente. Occorre, in altre parole, comporla e plasmarla pazientemente attraverso lo sviluppo di connessioni, ricordi e investimenti temporali ed emotivi. Questo tipo di impegno intercetta la decomposizione, che accomuna Flesh e Fleisch, in senso molto concreto: oltre a essere metafora della vulnerabilità prodotta dalla presenza imperitura del morto nei luoghi online, essa allude amaramente anche alla mancanza improvvisa di aggiornamento. A tale mancanza certamente si oppongono i dati registrati precedentemente (le immagini del volto, lo stile della scrittura, la voce registrata, ecc.), tuttavia il loro immobilismo – man mano che passa il tempo – li rende secondo Stokes simili molto più ai resti conservati nella bara che al libretto delle condoglianze presente all’ingresso delle agenzie di pompe funebri.

Ora, vivi o morti non importa: è innegabile che il mix di visceralità e decomposizione incluso nel concetto di carne digitale alluda a una presenza “alternativamente materiale” nel mondo online, una presenza che ci coinvolge pienamente. Basta un errore, un inciampo o un’incomprensione, dettati dalla scarsa cura per ciò che produciamo, condividiamo e registriamo, ed ecco che subiamo un immediato effetto negativo sulla nostra reputazione. Questo effetto incide in maniera radicale nella nostra vita quotidiana, come dimostrano – per esempio – i suicidi successivi a una shitstorm generata da un comportamento online forse censurabile. Al tempo stesso, la presenza post mortem del dato registrato risulta essere una traccia propriamente “carnale” per chi è in lutto, mantenendo un legame tra il mondo dei vivi e quello dei morti più complesso che mai. In definitiva, il concetto di carne digitale ha – a mio avviso – il merito di sottolineare con estrema forza quanto siano poco centrate quelle teorie che interpretano il passaggio attraverso gli schermi come una forma di smaterializzazione o disincarnazione. La presenza pulsante, morbida, fragile e viscerale, portata anche a decomporsi, delle nostre identità online genera conseguenze tali all’interno dello spazio pubblico da confermare in modo oggettivo il progresso avvenuto dalle immagini del cyborg di fine Novecento a quelle della multi-identità online di questi primi due decenni del XXI secolo.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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