CARNE – EDITORIALE

imagesMAURIZIO BALISTRERI

Quanto è importante la carne? Siamo vulnerabili soprattutto perché abbiamo un corpo, perché le ferite possono farci sanguinare, perché le nostre cellule invecchiano e i nostri organi smettono di funzionare. Naturalmente la sofferenza può essere anche soltanto psicologica, ma il dolore che percepiamo fisicamente è più particolare, perché gli altri possono fare molta più fatica a prendervi parte. Adam Smith osservava che il nostro atteggiamento verso la sofferenza fisica degli altri è duplice. Da una parte, questa sofferenza suscita molta simpatia e “se vedo che una gamba o un braccio di un’altra persona stanno per essere colpiti, istintivamente mi contraggo e ritiro la mia gamba o il mio braccio; e quando il colpo si abbatte, in qualche misura lo sento e ne sono ferito come la vera vittima.” Dall’altra, è vero che il dolore fisico appare sempre indegno di un uomo e disdicevole, in quanto è difficile simpatizzare ovvero sia prendere parte pienamente alle sue sofferenze. “È indecente – scriveva ancora Smith in Teoria dei sentimenti morali – esprimere a un livello alto le passioni che derivano da una certa situazione o disposizione del corpo, perché non ci si può aspettare che la compagnia simpatizzi con esse, non trovandosi nella stessa disposizione fisica. Un forte appetito, ad esempio, per quanto in molte occasioni sia non solo naturale, ma anche inevitabile, è sempre indecente, e mangiare con voracità è universalmente considerato esempio di cattive maniere.” Se, pertanto, desideriamo che gli altri continuino ad amarci, non abbiamo altra scelta, dobbiamo essere capaci di controllare i nostri sentimenti e temperare sia il dolore che il piacere. La conclusione di Smith, pertanto, è che, nel caso delle passioni del corpo, la persona ‘virtuosa’ si riconoscerà dalla sua capacità di coltivare la temperanza: “Nella padronanza di tali appetiti del corpo consiste la virtù propriamente detta temperanza. Spetta alla prudenza limitarli all’interno dei confini prescritti dal riguardo per la salute e la fortuna. Ma confinarli all’interno dei limiti richiesti dalla grazia, dall’appropriatezza, dalla delicatezza e dalla modestia è compito della temperanza.” Alla luce di queste considerazioni che mettono in evidenza non soltanto la fragilità e vulnerabilità, ma anche la pericolosità sociale della carne (nel senso che le passioni che dipendono strettamente dal corpo, sia quelle dolorose che quelle piacevoli, possono allontanarci dalle altre persone) è legittimo chiedersi da dove mai provenga questa venerazione profonda per il nostro corpo. In fondo, non sarebbe meglio liberarsi piano piano della carne, dei pezzi di carne che ci compongono? E attraverso la liberazione dalla carne, non realizzeremmo un miglioramento importante? In fondo quello che propongono i transumanisti quando parlano di sostituzione del corpo umano con parti artificiali (dalle protesi agli impianti) o di uploading della mente in un dispositivo elettronico vuole essere proprio la soluzione definitiva al problema di cui stiamo parlando. Per non urtare troppo le sensibilità, si potrebbe incominciare lentamente, con le protesi. Le protesi sono dispositivi artificiali progettati per sostituire un organo o una parte del corpo, e generalmente vengono impiegati per correggere e ripristinare almeno parzialmente le funzioni “naturali”. Possono sostituire intere parti mancanti o parti specifiche come ossa, legamenti o articolazioni (protesi interne) oppure possono essere passive o attive, alimentate da dispositivi esterni come batterie, e inoltre possono essere removibili, parzialmente mobili o fisse (protesi esterne). Come illustrato dal Dizionario di Medicina della Treccani, le protesi hanno una lunga storia, dalle protesi dentarie e degli arti alle moderne protesi acustiche e di ricostruzione di organi interni. All’inizio, perciò, si tratterebbe  di passare da un uso delle protesi esclusivamente terapeutico ad un uso migliorativo che ha l’obiettivo di sostituire una parte del corpo con un parte artificiale più performante. Poi, eventualmente si potrebbe considerare la possibilità di passare ad interventi più invasivi. Un essere, però, che non ha più un corpo – almeno di carne – potrebbe dirsi ancora ‘umano’? Oppure l’eliminazione della carne, alla fine, comporterebbe l’estinzione della specie umana?

Ma noi siamo veramente la nostra carne oppure potremmo continuare ad esserci anche in un altro corpo? Mentre l’animalismo sostiene che ognuno di noi è un ‘organismo’ della specie Homo sapiens e che di conseguenza la nostra sopravvivenza coincide con la sopravvivenza del nostro corpo (di animali), altre prospettive, invece, affermano che noi non siamo animali e che, perciò, potremmo continuare a vivere anche se la nostra mente fosse trapiantata in un altro corpo o in un dispositivo elettronico. Se ci confrontiamo con alcuni casi immaginari, scrive Derek Parfit, scopriamo le nostre credenze sulla natura dell’identità persona e che cosa implica ai nostri occhi, la continuità dell’esistenza, “ovvero che cosa sia a far sì che noi ora e noi stessi di qui a un anno siamo le stesse persone”. I non riduzionisti sostengono che noi siamo entità ulteriori rispetto al nostro corpo e al nostro cervello, altri, i riduzionisti, affermano che noi siamo il nostro corpo oppure il nostro cervello. Analizzando i casi del teletrasporto, dell’ameba e dello spettro combinato, afferma Parfit, noi arriviamo alla conclusione che, per noi, non conta l’identità personale, ma la connessione psicologica o (R): lo stretto legame tra i miei desideri, pensieri e piani di vita passati e quelli che ho ora. Ci sono situazioni, infatti, in cui non è possibile dire se la persona continua a vivere o muore e lascia il posto ad un’altra persona. Prendiamo in considerazione, ad esempio, il caso dell’ameba. Ciascun emisfero del mio cervello verrà trapiantato con successo nel corpo estremamente somigliante di ciascuno dei miei due fratelli: entrambe le persone che in tal modo verranno a costituirsi saranno in connessione e continuità psicologica con me, così come sono ora. Ma che cosa ne sarà di me? Parfit afferma che una volta che sappiamo che ciascuna delle due persone ha una metà del mio cervello ed è in relazione di connessione e continuità psicologica con me, sappiamo tutto. Ma io sarò la prima di queste persone, la seconda o nessuna? Noi, precisa Parfit, non siamo in grado di dare (non disponiamo) di alcuna risposta, anche se conosciamo tutto ciò che è avvenuto: “in casi del genere possiamo dire che o quella persona sarà me o che io morirò e lei sarà qualcun altro. Ma queste alternative, qui non rappresentano degli esiti diversi. Sono semplicemente descrizioni diverse dello stesso evento”. In questi casi, qualsiasi affermazione sull’identità è arbitraria. Si può, pertanto, concludere, afferma Parfit, che quello che conta non è l’identità personale: anche, prima dell’operazione, se non posso dire (o sapere) se ci sarò ancora “io” (e anche dopo l’operazione continuerò evidentemente a non saperlo), ciò che per me conta è che, comunque, ci sarà ancora una corrente di esperienze connessa strettamente alle mie esperienze attuali.

Le considerazioni precedenti sembrano testimoniare di una dematerializzazione del corpo o, come scrive Ferdinando Menga, della perdita del peso specifico del corpo che si verifica nella Modernità: “Una forma di alleggerimento dalla gravità corporea che innesca, in qualche modo, tutta una serie di processi fondamentalmente concatenati o, se vogliamo, l’uno concausa dell’altro”. Eppure la Modernità non è soltanto questo, ma è anche una riaffermazione del corpo e della sua rilevanza attraverso narrazioni che vanno da Michel Foucault e Bernard Siegler fino all’emergenza ecologica.

La carne, però, non è soltanto quella del nostro corpo, ma anche quella degli altri animali che, malgrado tutto, continuiamo ad allevare e che poi portiamo nei mattatoi per ucciderli e, infine, mangiarli. Abbiamo veramente bisogno di consumare la carne di altri esseri viventi per sentirci umani? E coltivare carne animale a partire dalle cellule staminali (e che pertanto non comporta sofferenza) non potrebbe essere la soluzione ideale per superare la nostra dipendenza dalla carne animale? In questo caso, cioè, il consumo di carne non sarebbe moralmente accettabile? Oppure, anche se la carne è prodotta non attraverso un animale ma facendo crescere delle cellule, continuare ad avere ancora il desiderio di mangiare carne non sarebbe, comunque, un tratto virtuoso? Nel frattempo, mentre consideriamo l’opportunità di ricorrere alla carne coltivata, non possiamo ignorare che molti animali continuano a essere allevati in condizioni che causano loro sofferenza. È quindi importante esaminare come possiamo migliorare il benessere degli animali da allevamento e come le nuove tecnologie potrebbero giocare un ruolo significativo in questo processo. I consumatori possono provare un sentimento di disgusto nei confronti della carne ottenuta da animali geneticamente modificati e gli stessi interventi di modificazione genetica possono essere percepiti come interventi o tecnologie che non rispettano l’integrità del corpo degli animali. Tuttavia, si tratta di interventi potrebbero permette agli animali di percepire meno la sofferenza. Non sarebbe giusto, allora, incoraggiare le industrie alimentari a ricorrere a queste tecnologie? E, nell’ipotesi che essi riescano veramente a ridurre le sofferenze, il ricorso a questi interventi non sarebbe desiderabile anche se essi poi depotenziano le capacità cognitive degli animali?

Questi sono soltanto alcuni dei temi che troverete discussi in questo numero e che evidenziano come dalla nostra relazione con la carne e il corpo umano emergano questioni fondamentali riguardanti la nostra condizione umana e la nostra interazione con il mondo che ci circonda.

BIOTECNOLOGIE ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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