LA GRAVIDANZA DI MARCO

gazzoloTOMMASO GAZZOLO

1. Forse “Marco” finirà per dover portare avanti la gravidanza, e partorire suo figlio. La storia è recente, ed è stata ripresa più volte dai giornali italiani, in questi giorni. Marco ha completato la transizione di genere, ed ha ottenuto la rettificazione dell’attribuzione anagrafica del sesso. Per la legge, per il diritto, è un uomo. Marco, però, non si è sottoposto all’intervento di rimozione di utero e ovaie, e dunque può procreare. E, a sua insaputa, ha scoperto nelle scorse settimane di essere al quinto mese di gravidanza. Il suo è un caso che meriterà di fare scuola, per il nostro diritto, in quanto esso potrà, forse, consentire un chiarimento sul modo in cui il diritto è in relazione con i corpi, la carne, la materializzazione del sesso.

Iniziamo con l’evitare una serie di equivoci. Sono già stati, infatti, riportate alcune considerazioni, da parte dei giornali, che rischiano di non far capire il punto. La prima riguarda il fatto che Marco resterebbe, “biologicamente”, una donna, e che il fatto che abbia potuto ottenere una rettifica anagrafica non implicherebbe che abbia cambiato sesso (così Assunta Morresi, del Comitato Nazionale di Bioetica: «una donna resta tale anche quando si percepisce uomo […], è rimasta donna biologicamente, tanto che è restata incinta»). Non importa, qui, se la tesi sia, in sé stessa, valida o meno. Ciò che importa è che, a torto o ragione, dal punto di vista giuridico tale argomentazione non ha alcun senso: poiché, infatti, la nostra legislazione pensa l’incongruenza di genere come ciò che dà diritto alla rettifica del sesso (e non del “genere”), per il diritto, oggi, Marco non è affatto una donna: è di sesso maschile, è un uomo quanto alla sua identità sessuale (e non semplicemente di “genere”).

Sotto il profilo giuridico, pertanto, non ha senso dire: “poiché è rimasta incinta, è biologicamente una donna”. Per il diritto, qui si tratta, infatti, di un uomo che sta aspettando un bambino, che sarà la madre del figlio che partorirà.

Ecco il secondo equivoco da evitare: sulle pagine di Repubblica, la psicoanalista Matilde Vigneri ha scritto che Marco si ritroverà ad «essere madre biologica e padre legale insieme, madre perché partorirà un figlio, padre perché all’anagrafe ha ormai un’identità maschile».

Le cose non stanno, in realtà, così – e questo argomento è fondato sulla confusione tra “biologico” e “giuridico”, che è esattamente ciò che occorre evitare a ogni costo. Cerchiamo di chiarire il punto. Giuridicamente, chi è la madre del bambino? L’art. 269 c.c., al comma 3, dispone che «la maternità à dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre». La giurisprudenza ha interpretato la disposizione nel senso che essa definirebbe la regola secondo cui madre è colei cha ha partorito.

Ed è qui che si pone la questione: e se a condurre la gestazione e a partorire il figlio è – come nel nostro caso – un uomo? La lettera dell’art. 269 c.3 c.c. può consentire due diverse definizioni di “madre”:

(a) per essere “madre” occorre essere una donna ed aver partorito un bambino;

(b) per essere “madre” occorre aver partorito un bambino.

Ora, che la legge italiana non fornisca una definizione precisa di “madre”, dipende, ovviamente, dalla tradizione da cui essa proviene – in primo luogo dalla codificazione francese, e, per suo tramite, da una cultura giuridica, quale quella romana, che non ha mai avuto alcun interesse a presentare una qualche minima definizione di che cosa fosse una “madre” – né di cosa fosse una “donna”. Già nel diritto romano, l’identità di madre è determinata dalla nascita di un figlio. Ed è per questo che essa era necessariamente certa: perché il fatto della nascita, il fatto storico del parto, bastava a designarla, a renderla tale. E mentre la “paternità” deve essere sempre ricostruita (per il diritto non c’è mai “padre” se non in quanto esistono dei meccanismi – storicamente variabili – attraverso cui diviene possibile fornire la “prova” della paternità), la “maternità” è sempre e soltanto constatata. Il che però significa che è la certezza del parto, è il fatto storico – sempre accertabile – della nascita, che consente di pensare la maternità come qualcosa che sarebbe dell’ordine di ciò che ci si può e deve limitare ad “accertare”, a constatare. È il parto, dunque, a fare di una madre una madre, e non l’essere donna da parte di chi partorisce.

In questo senso, lo stesso principio mater semper certa implica una potenziale scissione tra l’essere donna e l’essere madre, in quanto:

(a) da una parte, tale dispositivo ha giustificato, fino ad oggi, il mancato riconoscimento della qualità di madre a persone diverse da quella che ha partorito, considerando la volontà del legislatore di «mantenere quale principio cardine dell’ordinamento la maternità naturale legata al fatto storico del parto». Di recente, la Cassazione (Cass., Sez. I, 25 febbraio 2022), ha ribadito come la cosiddetta “madre intenzionale” non possa ottenere il riconoscimento di “madre”, in quanto una sola sarebbe la persona che «può essere menzionata come madre in un atto di nascita», da identificarsi sulla base del fatto del parto. Anche nel caso della “madre genetica” (la donna cui risale l’ovocita fecondato), la giurisprudenza ha finito, per ora, per ritenere che debba comunque prevalere, rispetto ad essa, la madre “biologica” o “uterina”, definita, come si è detto, dal fatto di «avere condotto la gestazione» (Trib. Roma, 8 agosto 2014);

(b) dall’altra, non si può escludere, in linea di principio, che se a partorire fosse un uomo, fosse una persona che giuridicamente ha lo “status” di uomo, il suo rapporto con il bambino sarebbe dell’ordine di ciò che si “constata” – e non che si “ricostruisce” –, e dunque integrerebbe quel tipo di relazione che il diritto definisce come maternità.

2. La differenza tra maternità e paternità, giuridicamente, dipenderebbe, pertanto, non dal “sesso” dei genitori, quanto dalla natura diversa della relazione di filiazione: “constatata”, accertata come un “fatto naturale”, nel primo caso; “ricostruita”, istituita dal diritto attraverso i meccanismi di accertamento e di costituzione dello status di figlio, nel secondo caso. Mentre, in altri termini, lo “status” di madre è attribuito in base all’accertamento del fatto storico del parto, quello di padre è sempre, invece acquisito tramite un sistema di attribuzioni legali (la cd. “presunzione” di paternità, o l’azione di riconoscimento, etc.).

La circostanza che a partorire, pertanto, sia – nelle società fino a come le abbiamo conosciute oggi – sempre una donna, non sembra altro che un “fatto” che il diritto certo assume come ovvio, ma al quale non ricollega, di per sé, una rilevanza giuridica di qualche tipo.

Certamente si può discutere questa costruzione – compresa, appunto, la costruzione della maternità come qualcosa che sarebbe sempre dell’ordine di un “fatto” storico, “naturale”, e non istituito dal diritto. Ma, allo stato, sembra chiaro come la giurisprudenza italiana sia ancora legata a questa logica. Ciò che intendiamo, qui, mostrare, è che essa, nel caso che ci interessa, inscrive allora Marco dal lato della maternità, e non della paternità.

3. Di recente, una sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, del 4 aprile 2023 (Affaire O.H. e G.H. c. Allemagne), si è espressa secondo una linea analoga, in relazione ad un caso, relativo al diritto tedesco, in cui il ricorrente aveva partorito un bambino dopo aver ottenuto la rettificazione del sesso e chiesto di poter essere indicato come “padre” del proprio figlio all’anagrafe. La Corte Europea ha confermato la decisione dei giudici tedeschi, i quali avevano rigettato la richiesta, precisando come il ricorrente avrebbe dovuto essere in realtà registrato come “madre” del bambino. La decisione è certamente discutibile – se non altro perché obbliga la “madre” a registrarsi con il suo nome di “donna”, precedente alla rettifica del sesso. Ma essa ci consente di chiarire alcuni aspetti ulteriori.

Nel caso, il ricorrente aveva motivato la sua domanda di essere riconosciuto come “padre”, e non come “madre”, in quanto, a suo dire, in caso contrario sarebbe stata pregiudicata e lesa la propria “identità” di genere. In particolare, il fatto di risultare la “madre” del bambino, avrebbe di fatto costretto il ricorrente a dover fornire al figlio, al momento opportuno, spiegazioni circa il fatto di essere stato una “donna”, prima di effettuare il cambio di sesso.

Così formulata, l’argomentazione sembra presupporre che essere registrato come “madre” del proprio figlio implichi necessariamente l’essere riconosciuto come donna da parte del diritto, secondo la logica: “se è la madre, allora è una donna”.

In realtà, però, come stiamo cercando di mostrare, questo tipo di logica non è affatto, necessariamente, quella propria del diritto. Essa, infatti, finisce per assumere – secondo un certo “naturalismo” o “biologismo” – che sia impossibile essere madre senza essere donna. Per come abbiamo visto, tuttavia, la logica del diritto implica, almeno potenzialmente, proprio la possibilità di tale separazione: se la “madre”, infatti, è individuata dal fatto storico del parto, allora un uomo che partorisce un bambino è la madre del proprio figlio, senza che ciò comporti la necessità di considerarlo come una “donna”.

Che, poi, Marco, non sia affatto, giuridicamente, il “padre” del bambino, dipende, chiaramente, dal fatto che sarebbe già dichiarato “madre” del proprio figlio – ed il diritto non sembra consentire che il padre possa riconoscere un figlio di cui egli è già l’altro genitore.

4. In Inghilterra, la sentenza McConnell, pronunciata il 29 aprile 2020, ha risolto un caso analogo a quello di Marco seguendo lo stesso indirizzo poi ripreso in Francia. Il Signor McConnell, infatti, è stato registrato come “madre”, e non come “padre” del bambino. Lo status di “madre” – come hanno precisato i giudici inglesi – deriva esclusivamente dal ruolo che una persona assume nel processo biologico del concepimento, della gravidanza e della nascita. Per questo “essere madre” o “essere padre” non è qualcosa di legato necessariamente al “genere” (necessarily gender-specific) – nella legislazione italiana, diremmo: al “sesso”. Per questo è possibile, giuridicamente, che una “madre” sia di genere maschile, o un “padre” di genere femminile. Perché è il fatto di partorire un bambino a determinare la relazione di maternità.

Le polemiche che il caso di Marco ha già sollevato, la ripresa del dibattito sui Seahorse Dad, i “papà cavallucci marini”, andrebbero, allora, risolte tenendo conto della dissociazione che la logica giuridica permette tra la realtà “biologica” o “naturalisticamente” intesa e quella “giuridica”. Cerchiamo allora di riprendere i punti essenziali del discorso. In primo luogo, è falso affermare che, “in realtà”, a partorire, anche in questo caso, è una donna. Marco, giuridicamente, è un uomo – ed il fatto che abbia l’utero, o che stia portando avanti una gravidanza, non costituisce, per la nostra legislazione, una circostanza che valga a rettificare nuovamente il suo sesso.

Inoltre, è improprio anche sostenere che Marco sarà “legalmente” padre e “biologicamente” madre. Egli, diversamente, sarà legalmente madre – in quanto ha partorito il figlio – e non padre, pur restando, sempre legalmente, un uomo. Che cosa “sia” biologicamente Marco, è una circostanza rispetto cui il diritto non ha nulla da dire, e che considera irrilevante.

La soluzione che proponiamo scontenta, probabilmente, tutti:

(a) scontenta un certo orientamento giurisprudenziale – già consolidatosi in altri Paesi europei – per il quale Marco sarebbe sì la “madre” del bambino, ma proprio per questo dovrebbe essere registrato, nell’atto di nascita, con il proprio nome “originario” femminile (in una sorta di “reviviscenza” della precedente identità sessuale, che tuttavia non è prevista da alcuna norma);

(b) scontenta, almeno a vedere i precedenti giudiziali, quella che potrebbe essere la pretesa del genitore di vedersi invece riconosciuto come “padre” (come se, appunto, la sua qualità di “madre” dovesse rimettere in discussione l’identità che ha ormai, giuridicamente, acquisito).

Forse scontentare tutti è un buon indizio del fatto che si sia sulla via giusta. Ed è, sicuramente, la “spia” del fatto che si fa sempre più fatica a capire come la realtà giuridica non abbia nessun rapporto necessario con quella “sociale”, e men che meno con quella “biologica” o “naturale”, o con il modo in cui gli individui “percepiscono” se stessi. Questo è un punto su cui insistere. Il diritto non ha, infatti, la funzione di riconoscere le cose per come “sono” o di assecondare i “desideri” delle persone, quali che essi siano. Ha, diversamente, quella di costruire la realtà in maniera tale da rendere possibile la produzione di determinati effetti che esso ritiene di dover realizzare.

5. Si possono pertanto più che legittimamente discutere – e criticare – le ragioni in forza delle quali il nostro diritto continua a pensare la costituzione della relazione di maternità a partire dal fatto storico del parto. Se, però, ci atteniamo alla logica che continua a essere sottesa all’attuale modo di regolare l’acquisizione degli status di madre e di padre, ci si può rendere conto come essa implichi già una radicale de-biologizzazione e de-naturalizzazione anche della nozione “madre”, e non solo di “padre”. Se è il parto a fare la madre, infatti, allora un uomo che partorisce è, giuridicamente, la madre del bambino. Il che non significa, però, considerarlo come una donna – ri-attribuirgli un’identità femminile. E’ tale confusione che va evitata. Marco sarà la madre di suo figlio, e sarà, al contempo, un uomo. Il diritto è già – già da sempre – “queer”, perché la sua tecnologia è, di per sé, anti-naturalistica. Ma questo significa anche che la “realtà” giuridica non è, e non determina, la realtà che assumiamo come “naturale”: il fatto che Marco sia giuridicamente un uomo, non dice nulla, non implica nulla su ciò che egli “veramente” o “realmente” sia. Significa soltanto che egli assume la posizione di “uomo” per ciò che concerne gli effetti giuridici – in termini di facoltà soggettive, “poteri”, obbligazioni, etc. – che il diritto ricollega a tale posizione. Analogamente, per ciò che concerne la sua posizione di “madre”.

Una delle “distorsioni” possibili, pertanto, del principio secondo cui il diritto dovrebbe “riconoscere” le persone per ciò che “sono”, è quello di produrre l’illusione per cui, se il diritto dice che le cose sono in un certo modo, allora esse sono effettivamente così. Ma il fatto che il diritto mi attribuisca lo “status” di padre di un bambino, non significa affatto che io sia “realmente” il padre di mio figlio. Significa, diversamente, che, giuridicamente, agirò come se fossi il padre. Ciò vale anche con riferimento alle identità di genere, alla maternità, e più in generale ad ogni “status” o “qualità” che il diritto istituisce. Affermare, pertanto, che è come uomo che Marco partorirà, e sarà madre, non ha alcuna implicazione se non giuridica.

Ed è proprio per questo che il diritto funziona, e potrà forse continuare a funzionare: perché si fonda sull’astrazione assoluta dai corpi, dalla carne, dalle cose per come “naturalmente” sono.

6. Tutto ciò sembra in netto contrasto con quei discorsi – come quelli di Foucault, o di Butler – che hanno insistito sul carattere “performativo” della legge, e quindi anche del diritto. I dispositivi normativi, in tale prospettiva, sarebbero anzitutto tecniche che producono certi corpi e non altri, che si “inscrivono” sulla carne delle persone: le norme, reiterate costantemente dagli individui stessi, agirebbero sempre come ciò che produce effetti materiali, come quelli legati, ad esempio, alla produzione stessa dei “generi”, delle “identità di genere”.

E tuttavia: non è il diritto, in realtà, a produrre di per sé questi effetti. Sono le relazioni di potere a farlo – e lo fanno anche attraverso norme giuridiche, in quanto e nella misura in cui esse vengano fatte funzionare, applicate, reiterate, all’interno di tali relazioni. Occorre, allora, distinguere. Riprendiamo la logica che si è vista. Di per se stesso, nel momento in cui il diritto mi riconosce come una “bambina”, attribuendomi un “sesso” femminile, sta in realtà compiendo un’operazione di astrazione rispetto a chi “realmente” sono, a come è fatto il mio corpo, al “genere” cui appartengo, etc. – potrei, eventualmente, anche essere in realtà un maschio, che per diverse ragioni il diritto ritiene però opportuno qualificare come “donna”. Certo, ci si può chiedere se tutto ciò non veicoli anche una serie di aspettative normative, di pressioni, affinché io sia spinto ad assumere anche nella realtà effettiva una serie di modi di fare, di percepirmi, di essere riconosciuto e trattato come una “bambina”, e dunque a materializzare il mio sesso ed il mio genere come femminili. Ma se questo avviene, non è “a causa” del diritto, quanto, diversamente, del modo in cui esso viene utilizzato nelle relazioni familiari, sociali, etc., entro cui viviamo.

Il problema è, dunque, sempre lo stesso: quello per cui il diritto è venuto progressivamente a costituirsi come se esso intrattenesse con la “realtà” una relazione di corrispondenza, tale per cui proprio perché si assume che il diritto dovrebbe sempre “rispecchiare” e adeguarsi a come la realtà “è” realmente, si finisce poi – visto che le cose non stanno affatto così – per fare in modo che la realtà si adegui ad esso, in una circolarità tale per cui “legale” e “naturale” finiscono per identificarsi e confondersi, in modo che non si riesce più a distinguere se si stia “legalizzando” ciò che è naturale o “naturalizzando” ciò che è legale. È con tutto questo che occorrerà farla finita. E non siamo sulla buona strada, se, criticati gli effetti di “naturalizzazione” che il diritto produce, non sappiamo poi che percorrere l’altra faccia della medaglia, che è quella di un diritto asseritamente vincolato a “riconoscere” le cose per come “realmente” o “veramente” sono. Perché così facendo, si finisce per ritrovarsi, presto o tardi, sempre dall’altro lato di questo pericoloso nastro di Moebius.

DIRITTO ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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