RESURRECTURIS

PARFITPIER MARRONE

Esiste il teletrasporto. Adesso è possibile viaggiare in maniera istantanea in qualsiasi parte dell’universo colonizzato dove ci siano condizioni di vita sostenibili per gli esseri umani. La tecnologia, oltre a essere molto avanzata, è attualmente anche molto sicura. Molto sicura significa che finora ha funzionato in maniera impeccabile per quanto riguarda gli esseri umani dopo una lunga e adeguata sperimentazione. Prima sono stati fatti tentativi con oggetti inanimati. Alcuni sono stati estratti alla stazione ricevente radicalmente alterati nella forma, altri alterati nella struttura atomica, dando origine a materiali che erano precedentemente sconosciuti, altri semplicemente non sono arrivati e se ne sono perse le tracce. Mano a mano che le sperimentazioni ottenevano maggiori successi si è passati alla sperimentazione con gli insetti: formiche, tafani, zanzare, cicale, grilli. Quando la trasmissione non riusciva alla stazione riceventi gli scienziati si trovavano con piccole salme insettivore bruciacchiate oppure aprivano lo sportello della stazione ricevente e non trovavano nulla. Quello che si apprese era che era meglio non spedire due esseri viventi alla volta. Poteva capitare che i loro codici genetici si mischiassero e ne risultassero degli esseri mostruosi, anche se, finora, del tutto innocui. Poi si passò alla sperimentazione sugli animali vertebrati. Si scartarono pesci, anfibi, mammiferi marini perché si sarebbero dovuto allestire delle stazioni di trasporto subacquee e questo comportava complicati problemi tecnici di gestione dei materiali e del personale addetto. Si cominciò a mandare dei topolini, gli stessi che vengono allevati a milioni per essere sacrificati nelle sperimentazioni scientifiche che testano farmaci, cosmetici, alterazioni del genoma tramite la forbice chimica Crisp/Cas9, il cui sviluppo aveva procurato il premio Nobel per la chimica a Emmanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna nel 2020. Adesso, nella maggior parte dei casi, uscivano dalla stazione ricevente quelli che sotto tutte le apparenze erano gli stessi topolini squittanti che erano entrati nella stazione di partenza.

Numerose questioni etiche sorsero nel momento, ovviamente inevitabile, in cui si cominciò esplicitamente a pensare di teletrasportare degli esseri umani. Vennero consultati numerosi filosofi e anche  rappresentanti delle varie religioni. Tra queste, soprattutto quelle che prevedevano la bilocazione attribuita a personalità toccate dalla santità e dal favore divino non trovarono nulla da ridire: se la tecnologia era possibile, significava che era in accordo con le leggi di natura e con il piano che l’Architetto dell’universo (o gli Architetti) aveva saggiamente disegnato. Tra il dire e il fare, tuttavia, c’era di mezzo trovare candidati disponibili a fare le prime esperienze. Sì: oramai gli animali si teletrasportavano con un’enorme percentuale di successo; sì: condividiamo con gli animali la gran parte del nostro patrimonio genetico (con gli scimpanzé quasi il 99% del nostro Dna). Il progetto raggruppava team di diverse nazionalità e con diverse sensibilità morali. I russi proposero di inviare criminali condannati a lunghe pene detentive con la promessa di un reinserimento nella vita sociale, in caso di riuscita del teletrasporto, i cinesi offrirono candidati prigioineri politici le cui famiglie in caso di insuccesso avrebbero pagato il costo dell’esperimento, condannandosi alla schiavitù perpetua. Americani, italiani, spagnoli e sudamericani proposero di lanciare un talent show televisivo sul modello di Tú sí que vales per selezionare i candidati. Gli introiti degli spot pubblicitari avrebbero coperto i costi dell’impresa. Il problema però è che il talent deve concludersi con un vincitore che dimostra di possedere un talento in maniera eccezionale. In questo caso qual era il talento, prima di salire dentro la stazione di partenza? Un dose di coraggio fuori dal comune? Una dose di incoscienza che trascende il senso comune (ammesso si tratti di una cosa diversa)? E se il candidato avesse assunto ad esempio del Captagon, la droga che inibisce la paura, questo avrebbe alterato il risultato del talent? Forse ci vuole avere del coraggio per decidere di non avere paura. Che il risultato sia raggiunto attraverso l’assunzione di una sostanza, quale differenza potrebbe fare?

Alla fine però si decise di percorrere la strada della selezione di personale volontario militare. In fin dei conti, un militare ha a che fare con la morte come la propria specializzazione professionale, che in qualche caso diviene pure vocazione alla distruzione e all’autodistruzione. Detto fatto. Il militare venne teletrasportato con successo alla stazione di destinazione. Le prospettive che si aprivano erano entusiasmanti e nemmeno del tutto immaginabili. Ci sarebbe stata una Amazon interplanetaria. Le escort avrebbero potuto andare in trasferta i fine settimana su qualche splendido resort nei pressi di Alpha Centauri. L’Erasmus, che molti studenti più scafati chiamano in altro modo e lo interpretano come parte della propria educazione sentimentale, sarebbe stato intergalattico.

Tuttavia, in qualche rarissimo caso si verificava un inconveniente. C’era stato il caso di quello studente inglese di filosofia, tale D. Parfit, che era entrato nella stazione di partenza. I tecnici avevano avviato la procedura per telespedirlo sul pianeta Identity. Istantaneamente D. Parfit era uscito dalla stazione ricevente per godersi il tepore dell’eterna primavera di Identity. Però, quando gli addetti aprirono la stazione di partenza per far entrare un altro passeggero, dentro c’era ancora D. Parfit. Il problema è: chi è andato a finire su Identity? Questo dilemma è illustrato in un famoso articolo del 1971 di Derek Parfit, un gigante della dialettica filosofica, Personal Identity, un lavoro che ebbe uno straordinario impatto e che procurò a un filosofo pressoché sconosciuto e non ancora trentenne una quasi immediata fama internazionale.

La drammatizzazione di Parfit ha degli antecedenti in alcuni esperimenti di pensiero immaginati da altri filosofi. Sidney Shoemaker immagina il caso di un soggetto il cui cervello viene trapiantato in un corpo privo di cervello. Dove è finita la persona che possedeva quell’altro corpo che si stava deteriorando? Molti sarebbero d’accordo che è insediata nel nuovo corpo con il suo patrimonio di memoria, desideri, aspettative, relazioni. Un altro filosofo, David Wiggins immagina un caso diverso: una persona con un corpo deteriorato, ma con un cervello perfettamente funzionante si presta a un innovativo esperimento. Metà del suo cervello verrà impiantato in un corpo e l’altra metà in un altro corpo. Ognuna delle due nuove entità avrà gli stessi ricordi, esperienze pregresse e così via. Dove è andata a finire la persona che si è prestata a questo esperimento?. Possiamo essere d’accordo che siamo in presenza di due copie di un identico soggetto? Ma allora, se questo è vero, dovremmo concludere che D. Parfit sul pianeta Terra e D. Parfit sul pianeta Identity sono lo stesso D. Parfit. È possibile sia così?

L’identità è un concetto sfuggente e molti logici, che maneggiano questo concetto molto spesso, ritengono che non sia possibile definirlo (ma che cosa è una definizione?) in maniera che non sia circolare. Una celebre definizione di che cosa significhi essere identici è fornita da Leibniz: “Eadem sunt, quae sib mutuo substitui possunt, salva veritate”. Sono identici due enti che vengono descritti con tutti e gli stessi enunciati veri. Senonché ‘stesso’ significa ‘identico’, e dunque capite perché l’identità, cosa sia l’identità rappresenta un bel dilemma. Forse in alcuni casi non è così, anche se possedere le medesime proprietà rilevanti non significa possedere tutte le identiche proprietà vere. 11 e 19 sono entrambi numeri divisibili solo per 1 e per sé stessi, sono, cioè, numeri primi, ma non sono ovviamente identici. Però io sono identico a me stesso? Se penso a me bambino mi verre da dire di no. Eppure come è possibile che mi riferisca a me stesso parlando di me bambino? Forse c’è qualcosa che permane? I ricordi, le esperienze forse: ma sono poi sicuro che il mio ricordo di un’esperienza passata registri quell’esperienza come posso averla ricordata, poniamo, cinque anni fa?

Tuttavia, ci viene da dire che nei casi immaginati da Wiggins e Shoemaker qualcosa di identico si sia pur sempre mantenuto, qualcosa che magari indichiamo come la stessa personalità. Ma è davvero così? Perché la personalità, qualsiasi cosa sia, andrebbe a cozzare con tutti i dilemmi che si trascina dietro il concetto di identità. Ora, uno potrebbe anche invocare la distinzione che è stata resa celebre da Gottlob Frege tra senso e significato, ossia tra ciò che una cosa è e le diverse maniere che abbiamo per descriverla. Così l’espressione ‘stella della sera’ ha un senso diverso dall’espressione ‘stella del mattino’, ma entrambe designano uno stesso oggetto, ossia hanno uno stesso significato, vale a dire il pianeta Venere. Ma vale la stessa cosa per la personalità? Ammettiamo che io abbia sviluppato nel corso degli anni una dipendenza a una qualche sostanza psicotropa, si tratti dell’alcol o della nicotina oppure della cocaina o di qualsiasi altra sostanza, scegliete pure voi. Gli enunciati che si riferiscono alla mia personalità di dipendente da una sostanza psicotropa si riferiscono al medesimo soggetto quando aveva cinque anni? Pare di no.

Allo stesso modo, questi cervelli che abitano altri corpi o questi emisferi cerebrali che abitano due corpi diversi, ma hanno gli stessi patrimoni di ricordi e esperienze pregresse e sono proclamati identici in base a questa base di memoria (che è molto meno solida di quanto siamo disposti ad ammettere) non pongono, dunque, gli stessi problemi che pone l’identità e sono poi questi problemi così facilmente affrontabili con, ad esempio, la distinzione introdotta da Frege tra senso e significato? Cosa c’è di così speciale nell’identità personale? Il riferimento a un centro focale, che, di nuovo, rimane identico nel corso del tempo? Chi può crederlo? Chi può crdere che gli esperimenti mentali di Wiggins e Shiemaker descrivano un’identità? Ma allora non sarebbe meglio fare a meno dell’identità personale? E se diamo una risposta positiva, che cosa otteniamo in cambio? Questa è stata in effetti la risposta di Parfit: l’identità personale non è poi così importante.

Ritorniamo un momento al nostro teletrasporto e ai due D. Parfit, uno rimasto sulla Terra e l’altro teletrasportato su Identity. Chi c’è su Identity? Pare chiaro che ci sia qualcun altro rispetto a D. Parfit sulla Terra. Ma se l’identità personale non è importante e il teletrasporto fosse andata a buon fine chi era sulla Terra adesso sarebbe su Identity. L’idea di Parfit è che ci sarebbe qualcuno in fortissima continuità psicologica con chi pochi istanti prima era sulla Terra. Del resto, anche quando il teletrasporto ha prodotto quel risultato bizzarro, a rigore non potremmo in nessun modo dire che si è prodotto un doppio identico su Identity (o sulla Terra?) perché ci sono degli enunciati relativi, ad esempio, alla posizione spaziale dei due D. Parfit che sono esclusivi di ciascuno dei due e quindi è sufficiente questo a renderli non identici. Ma poi non è certo la diversa posizione spaziale a fare dei due D. Parfit degli individui diversi, quanto le diverse esperienze che fanno nel momento in cui si aprono le porte delle due stazioni sulla Terra e su Infinity. Queste esperienze possono essere fatte da loro due perché sono dotati di un corpo, ossia perché la loro esperienza è incarnata, si esercita attraverso il corpo. La loro personalità è incarnata, e questo rende del tutto improbabile che l’esperimento mentale proposto da Shoemaker riguardi una stessa persona in due corpi diversi. Riguarda piuttosto due diverse personalità che fino a un certo punto hanno avuto una determinata continuità psicologica e poi produrrebbero una sempre maggiore divergenza nelle proprie esistenze, l’una addirittura non esistendo più.

Negli esperimenti di Wiggins e Shoemaker non sono le menti a essere sopravenienti ai corpi, bensì i corpi a essere sottovenienti alle menti. Nell’esperimento di Parfit le menti sono una parte dei corpi. Con i corpi noi elaboriamo le informazioni che l’ambiente continuamente ci trasmette, per lo più in una maniera efficiente. Noi stessi siamo produttori di informazioni. Questo intreccio di informazioni costituisce ciò che siamo. E qui giungiamo a un punto importante. Noi siamo in grado di conservare le informazioni da molto tempo. Prima attraverso la scrittura; attualmente attraverso altri e migliori apparati di registrazione. Quello su cui mi interrogo è se l’informazione possa morire. Voglio dire: sembra chiaro possa essere così. Metti l’hard disk del tuo computer dentro il forno, passa quello che ne risulta dopo una cottura di mezz’ora in un potente frullatore e tutto quello che era iscritto sul disco rigido non esiste più. Ma questa è l’unica maniera di pensare alla sopravvivenza dell’informazione?

Immagina di stare camminando su una spiaggia in una calda giornata d’estate al tramonto. Cammini sul bagnasciuga e lambisci l’acqua con i piedi che vengo raggiunti da piccole placide onde. I tuoi piedi lasciano impronte sulla sabbia che le onde cancellano continuamente. Non è forse possibile pensare che l’informazione che consiste nelle impronte dei tuoi piedi sulla sabbia abbia un’influenza sull’ambiente e che si trasmetta da qualche parte sopravvivendo trasformata? Proprio nel senso di Parfit ci saranno eventi nell’universo che saranno maggiormente prossimi all’orma sulla sabbia e altri che saranno distanti, ma non estranei in linea di principio. Noi siamo questa impronta sulla sabbia, destinati a essere cancellati nell’esperienza immediata, ma a sopravvivere nell’influenza, che mai riusciremo a comprendere pienamente, sul mondo. Questa è forse l’immortalità alla quale possiamo ragionevolmente ambire.

John Leslie in un breve libro con notevoli intuizioni, Immortality Defended, sostiene che l’unica maniera ragionevole di concepire la nostra immortalità è di pensare noi stessi come pensieri di un dio spinoziano, ossia di un dio che coincide con l’universo, vale a dire con tutto ciò che è. Una volta Jacques Derrida in una conversazione con un collega, sostenne che per lui l’unica maniera possibile di pensare all’immortalità era concepirla nei termini cristiani, come resurrezione dei corpi. È una posizione persuasiva per me, perché se l’immortalità è l’infinità dell’esperienza, dove altro dovrebbe accadere questa esperienza se non nel corpo che noi siamo?

ENDOXA - BIMESTRALE Fantascienza FILOSOFIA

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