LA CARNE E IL DIAVOLO NEL CINEMA MUTO

WhatsApp Image 2024-01-25 at 12.45.06EUSEBIO CICCOTTI

Premessa. Per San Paolo la carne assume il significato del peccato contrapposta allo spirito, che invece è il retto comportamento dell’uomo salvato tramite il sacrificio di Cristo. La carne è sinonimo dell’uomo visto nel suo aspetto di peccatore. L’ «Apostolo delle genti» scrive: «Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come ho già detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio» (Lettera ai Galati: 5,19-21).

Il cinema, come del resto la letteratura, sin dalle sue origini presenta storie quotidiane in cui il male è contrapposto al bene. Sono molti i film del periodo del muto in cui il peccato viene raccontato e coniugato secondo i diversi generi, dal drammatico, alla commedia. Qui ci soffermiamo solo su alcuni capolavori: Intolerance (1916, David Wark Griffith); A Woman of Paris (1923, di Charlie Chaplin); The Ten Commandments (1923, Cecil B. De Mille); Greed (Rapacità, 1924, Eric von Stroheim); Der Letzte Man (L’ultima risata, 1924, di Friedrich Wilhelm. Murnau); Flesh and the Devil (La carne e il diavolo, 1926, Clarence Brown); Sunrise (Aurora, 1927, F.W. Murnau).

Intolerance (1916, David Wark Griffith). Nell’episodio contemporaneo, «La piccola Cara», contenuto in Intolerance (1916, David W. Griffith) la vita da gangster di quartiere cui il «Bravo ragazzo» cade per ingenuità e dalla quale ne esce quando si innamora appunto della Piccola Cara, con la quale intende costruire una famiglia, è l’esempio di un riscatto dal peccato (qui la carne è il mercato nero) verso l’onestà, l’amore, il desiderio di famiglia (lo spirito). Incastrato dal caso in un omicidio non commesso, grazie alla confessione della autrice del delitto (la donna del boss esasperata dai tradimenti del suo uomo, colto da lei nel tentativo di stupro nei riguardi della Piccola Cara) scagionerà il giovane poco prima dell’esecuzione. In questa nota sequenza finale, in cui il montaggio alternato di Griffith si fa più serrato, scendendo a pochi secondi per immagine (il condannato verso il patibolo/ l’automobile in corsa con il «Buon poliziotto» e la Piccola Cara che hanno ottenuto la grazia cartacea dal Governatore/ le affilate lame degli esecutori che si avvicinano ai fili collegate con la botola sotto i piedi del condannato/l’ automobile in corsa/ la confessione del giovane a cura del sacerdote/ ancora l’auotmobile in corsa/ ecc.: poi ne faranno tesoro Abel Gance, S. M. Ejzenštejn, Eric von Stroheim) lo spettatore è gratificato dalla verità che trionfa. Il messaggio è inequivocabile: la vita disonesta, sia si tratti di furto che di violenza sessuale, non paga.

 

The Ten Commandments (I dieci comandamenti, 1923, Cecil B. De Mille). Tra la versione del 1923 e quella del 1956 (a colori e in un avvolgente cinemascope), di The Ten Commandments (Cecil B. De Mille), quella più conosciuta è ovviamente la seconda. Dagli spettatori è ricordata soprattutto la sequenza in cui le acque del Nilo si aprono e sul fondo asciutto passano gli ebrei in fuga. Poi, appena i cavalieri e i carri degli egiziani entrano nel letto del fiume, le acque si richiudono e soldati, carri e cavalli muoiono annegati nel turbinio delle acque come in una lavatrice. L’effetto, in entrambe le versioni, fu ottenuto riempiendo una gigantesca vasca e svuotandola, poi, rimontando al contrario lo svuotamento per mostrare le acque del Nilo nel loro richiudersi.

Nella versione del 1923, la prima parte è biblica la seconda è contemporanea, in una analogia che stuzzicava molto a De Mille (notevole raccontatore dalla innegabile forza didattica ed estetica), tra chi rispetta i comandamenti e chi non li rispetta. In quella ambientata nel Novecento, a San Francisco, seguiamo la storia di due fratelli, uno onesto e credente, l’altro disonesto e ateo e della loro anziana madre che legge loro la Bibbia, nelle sere d’inverno. Il primo, John (allusione a Giuseppe) è un umile e dignitoso falegname che fuma la pipa, calmo e saggio; il secondo, Dan, sempre agitato, iper-attivo, è un disonesto costruttore, ed è, tra l’altro, infedele a sua moglie, Mary. Non solo. Dan, per mantenere la sua viziata amante orientale, Sally Lung, e fare più soldi, usa un conglomerato di cemento corrotto (fa aggiungere nell’impasto sacchi di fradicia iuta, diminuendo cemento e sabbia). La nuova chiesa che sta edificando, di cui la credente madre va orgogliosa, crollerà uccidendo l’anziana donna, andata a visitarla da sola prima dell’inaugurazione. Per Cecil De Mille (regista protestante che sul set vietava parolacce dagli attori e comparse quando indossavano abiti di personaggi biblici) la carne è, oltre all’adulterio, la corruzione e la disonestà nel lavoro: qui nell’edilizia, in un film che, in alcuni motivi, anticipa magistralmente Le mani sulla città (1963, Francesco Rosi).

A Woman of Paris (La donna di Parigi, 1923, Charlie Chaplin). Il film, nella lettura etica di Chaplin, condanna la vita della donna mantenuta da un uomo e considerata solo come oggetto di piacere. Infatti per Pierre Revel, la carne (il lussuoso appartamento con tanto di servitù che egli paga a Marie; le cene in ristoranti alla moda nella Parigi anni Venti; gli abiti; rapporti intimi fuori dal matrimonio; ecc.) è più importante dello spirito. Questo, per Marie, piccola borghese di provincia, di educazione cristiana, approdata a Parigi, cui un equivoco del destino l’ha separata dal suo fidanzato, è invece avere un matrimonio, una famiglia, dei bambini. Quando lo dice a Revel (con questa sua perfetta interpretazione del borghese ipocrita, falso, viziato, “maschilista”, diremmo oggi, Adolphe Menju divenne famoso) egli ride di tale sogno da proletaria. Le fa vedere dalla finestra una coppia di poveri genitori che, in quel momento, in strada, si trascinano dietro dei bambini mal vestiti e sporchi, commentando con il suo sprezzante sorriso sotto gli ipocriti baffetti: «Questo è quello che vuoi?» (l’inquadratura in demi-plongée dalla finestra sulla fila indiana della povera famiglia è superba).

Ma Chaplin regista si supera nella scena della festa borghese al Quartiere Latino. Coppie e single, ubriachi e forse in preda alle droghe (lo immaginiamo) si abbandonano al gioco della donna nuda avvolta in un lenzuolo posta su una base girevole che viene “scartata”, lentamente, tra l’eccitazione sessuale dei presenti. Qui la denuncia del vizio è risolta nel genere comico: un uomo ubriaco vede la donna nuda e sviene; delle vecchie e viziose zitelle sgranano gli occhi per lo spettacolo…

Ritengo questa scena, forse, la più forte del cinema muto degli anni Venti nel denunciare l’ipocrisia, gli adultèri, le orge, le ubriacature e, probabilmente, le violenze sessuali (insomma la carne di cui parla San Paolo): tutto ciò avveniva nel mondo del cinema, soprattutto a Hollywood (e lo si poteva raccontare, con allusioni, solo fuori dall’America puritana). Ho sempre pensato che Chaplin, che nella sua vita privata, nonostante fosse celebre soprattutto dopo il successo planetario di The Kid (1921), rifuggiva le feste “allegre” (preferiva ritirarsi con i suoi amici, Douglas Fairbanks e Mary Pickford, in posti isolati dove godere della natura), in questa scena alluda chiaramente al terribile femminicidio ad opera di “Fatty” Arbuckle, avvenuto in un hotel di San Francisco, il 5 settembre del 1921 (cfr. Eusebio Ciccotti, Il primo femminicidio a Hollywood, Formiche.net).

 

Greed (Rapacità, 1924, Eric von Stroheim). Se vogliamo pensare all’avarizia e anche al desiderio sfrenato di possedere fisicamente il denaro, il capolavoro del muto è senz’altro Greed (Rapacità, 1924, Eric von Stroheim). Trina, povera e umile ragazza, va in sposa al grezzo dentista Mac Teague, siamo a San Francisco. Ella, dopo aver vinto 5000 dollari alla lotteria, diventa estremamente avara, tanto da non cucinare per il marito per non spendere neanche un cent della sua ricchezza; o, se decide di cuocere qualcosa, si fa regalare la puzzolente «carne per i cani» dall’esterrefatto macellaio. La scena che tutti ricordano è la spianata di monete di un dollaro che ella adagia sulle lenzuola del letto e poi ci dorme sopra, quasi fondendosi con le monete, rigirandosi in un amplesso “erotico” (von Stoheim sostituisce tale attività feticistica con l’amore: infatti in tutto il film non si vedrà un solo bacio tra i coniugi). Mac Teague, esasperato, ucciderà Trina per impossessarsi del danaro, ma poi, durante la fuga nel deserto, morirà di sete.

Der Letzte Man (L’ultimo uomo/L’ultima risata, 1924, F.W. Murnau). Il protagonista (un impeccabile Emil Jannings), l’anziano capo-portiere dell’Hotel Atlantic, a Berlino, viene demansionato dal direttore dell’hotel solo perché, durante una giornata di violenta pioggia, scaricando bauli dai portapacchi di alti taxi, di fronte all’ingresso dell’Atlantic, ha avuto un momento di affanno e si è, successivamente, seduto su una sedia nella hall per riprendere fiato. L’uomo ha una moglie e una figlia in procinto di sposarsi. Il demansionamento consiste nel restituire la bella e ricca livrea di capo-portiere, con tanto di galloni da “ufficiale”, cambiando lavoro: pulire i bagni nel sotterraneo dell’hotel, indossando una semplice giacchetta bianca di cotone. Purtroppo, tutto ciò avviene nel giorno del matrimonio della figlia.

L’uomo vive in un quartiere popolare. Quando il film apre, lo vediamo uscire dalla palazzina con l’imponente cappotto-livrea, e tutte le donne e gli uomini del vicinato lo salutano con profondo rispetto, chinando il capo. Come se passasse un generale. Il lento incedere dell’uomo, la posizione impettita, il berretto da ufficiale, i sontuosi favoriti, la sua gentilezza verso i bambini che litigano in cortile, cui dona loro caramelle e una carezza paterna, fanno del capo-portiere il personaggio più importante del quartiere.

Quando la moglie e i neosposi sapranno del demansionamento non lo faranno più rientrare in casa: si vergognano del cambio di status sociale, visto che tutto il vicinato ora ride e sghignazza con cattiveria della caduta verso il basso della famiglia benestante.

Il soggetto e la sceneggiatura di Carl Mayer (il maggior soggettista del cinema espressionista tedesco (cfr. Mario Verdone, a cura di, Carl Mayer e l’espressionismo tedesco, Mostra del cinema di Venezia, Atti Convegno, 1969) e la fine regia di Murnau, le innovazioni tecniche (la camera su una bicicletta in una carrellata di 360 gradi nella scena del sogno del protagonista, un po’ alticcio, durante la festa di nozze), sottolineano il tema centrale del racconto: quello del “falso rispetto umano” inteso come desiderio di esser considerati importanti nella scala sociale. Altro motivo centrale è il finto amore dei suoi famigliari: moglie, figlia e genero erano amorevoli solo per convenienza. Qui la carne di San Paolo è l’orgoglio, l’egoismo, la divisione, e, ancora, il denaro.  Rimangono nella nostra memoria diversi fotogrammi: pensiamo a quando timoroso, con la livrea orami riconsegnata e per una notte rubata dall’armadio dell’Atlantic, torna a casa, sperando di nascondere il licenziamento. La moglie, la figlia e il genero, che sanno, non lo fanno entrare in casa. Il povero uomo, curvo, scapigliato, abbattuto, lentamente scende le scale. Cacciato come uno sconosciuto.

Flesh and the Devil (La carne e il diavolo, 1926, Clarence Brown). La seducente Felicitas (Greta Garbo: il suo primo successo mondiale) accetta la corte del conte Leo (John Gilbert), ufficiale di carriera, attraverso un elettrizzante scambio di sguardi. Ad un ballo organizzato a casa di nobili, i cui invitati sono tutti dello stesso ceto, i due si incontrano di nuovo. Gli sguardi magnetici si incollano di nuovo. Eccoli nella semi-oscurità del giardino. Il fiammifero della sigaretta, acceso da Leo, viene spento con un soffio dalla seducente donna. Leo commenta: «Se una donna spegne il fiammifero non vuole che l’uomo fumi, desidera essere baciata».

Arriva, finalmente, l’appassionato bacio, e la Garbo è voluttuosa ed erotica come forse solo Marlene Dietrich poi saprà fare. Il giorno dopo i due sono nell’ampio boudoir di Felicitas. Sdraiati su due sofà, con gli abiti appena sgualciti, leggermente scapigliati (Leo ha il ricciolino fuori posto, sulla fronte). Appaiono stanchi e soddisfatti: la regia di allora, dovendo fare i conti con l’ufficio censura, comunicava ellitticamente così l’amplesso consumato. Entra nella ampia stanza un uomo, Felicitas, con la freddezza di alcune pose e toni che saranno poi tipiche della Garbo, presenta con freddezza l’uomo a Leo; «Il Conte von Rhaden, mio marito». Leo, occhi fuori dalle orbite, è esterrefatto.  Inevitabile il duello d’onore alla pistola. Ma il Conte von Rhaden impone, come motivazione, la versione ufficiale: «Non voglio si sporchi il mio onore. Ci batteremo per una lite al gioco delle carte». Nel duello, ognuno dei due si presenta con i rispettivi “secondi”. Leo è accompagnato dal suo amico d’infanzia, e ora commilitone, lo slavato Ulrich (ricorda l’Hashley di Via col vento: Lars Hanson). Intanto, nel prologo, lo spettatore ha conosciuto i due inseparabili amici nella vita da ufficiali nella caserma, e, in flash back, attraverso la loro amicizia sin dall’infanzia, con tanto di patto di sangue stretto da bambini, con il taglietto, procurato tramite coltellino, al braccio e la conseguente “unione” delle gocce di sangue: «Amici per sempre…»).

Il conte von Rhaden viene ucciso. Il comando militare, per punizione, trasferisce Leo in Africa, per cinque anni. Prima di partire i due amanti si incontrano su una panchina della piazzetta della città: lei coperta dalla nera ma trasparente veletta da lutto; lui in borghese. Ancora si professano amore eterno. Un uomo ascolta il loro dialogo seduto di spalle, su un’altra panchina: è il Pastore Voss. Andata via Felicitas, questi raggiunge Leo e lo saluta, facendogli capire che sa tutto.

Leo, prima di partire, chiede a Ulrich, di visitare più che può Felicitas, aiutarla in caso di bisogno. Ulrich prende sul serio l’impegno cercando di lenire il senso di colpa di Leo per via della morte del Conte von Rhaden, ucciso, come tutti sanno, per una banale discussione durante una partita di carte.

Vediamo Leo in un avamposto sperduto in Africa. Ulrich, intanto, riesce a far condonare due anni di missione forzata all’amico ufficiale, direttamente dal Re. Per tutto il tempo, nel deserto, Leo ha sognato di riabbracciare Felicitas. Rientra in Europa. Alla stazione della città Ulrich lo attende sul marciapiede del binario. È ansioso di condurlo a casa sua: gli presenta sua moglie: è Felicitas. Shock per Leo. La donna dà del voi a Leo. Felicitas, però, nei giorni seguenti cerca Leo. Intende fortemente riprendere la loro storia d’amore. Lo ama ancora: «Ero sola, per molti anni. Ulrich, si è preso cura di me… è stato gentile… non mi giudicare». Leo si oppone, non vuole tradire il suo amico. Ma come resistere alle richieste d’amore della seducente Felicitas che in ginocchio, aggrappata alle sue ginocchia, quasi piangendo, gli chiede semplicemente di essere amata. E poi, rinunciare ai profondi sconvolgenti infuocati baci di una simile donna?

Gli incontri tra i due amanti avvengono in città o in casa di Ulrich quando questi non c’è. Felicitas ora è pronta a tutto: accetta di fuggire con Leo, perché lo ama alla follia, e di vivere anche da poveri, ovunque. Pianificano la fuga. Leo va a prendere una carrozza, lei prepara una semplice valigia. Ma, improvvisamente, Ulrich torna da un viaggio. Entra nelle sue stanze: le ha portato un costoso bracciale. Lei abbraccia suo marito e lo bacia con la stessa voluttà (o almeno fa finta) con cui bacia Leo. Ulrich si ritira nelle sue stanze.

Leo torna per la fuga. Felicitas appare cambiata nel giro di pochi minuti; gli dice che non se la sente di lasciare la sua vita agiata, guardando il bracciale che porta al polso. Propone a Leo di continuare la loro storia clandestina. In fondo si amano. Leo, fuori di sé, le afferra il collo e inizia a strangolarla. Le grida della donna fanno accorrere Ulrich. Occhi sgranati di Ulrich. Altro duello alla pistola. Hertha, la sedicenne sorella di Ulrich, innamorata da sempre di Leo, che ha visto i due amanti darsi appuntamento nella città, va da Felicitas e le dice che per colpa sua uno dei due morirà: o suo fratello o il marito di lei.

Montaggio alternato: Felicitas si getta nel paesaggio innevato, a passo veloce, per raggiungere il luogo del duello, per fermarlo, e dire la verità/. I due si fronteggiano con le pistole. (Sono sull’Isola dell’Amicizia, dove siglarono, allora bambini, il patto di «eterna amicizia»)/. Una lastra di ghiaccio del laghetto si spacca e la donna annega./ I due stanno per far fuoco: Leo punta la pistola fuori bersaglio, Ulrich gli intima di difendersi, di mirare. Poi parte, nella testa di Ulrich, il flashback della loro vita: da bambini ad ufficiali. Improvvisamente, abbassa la pistola, va verso Leo e gli dice «Un velo mi è caduto dagli occhi. Ora capisco il duello con il Conte von Rhaden…». Ha realizzato che Felicitas ama innanzitutto sé stessa, la bella vita e usa gli uomini.

 

Sunrise (Aurora, 1927, F.W. Murnau). Flesh and the Devil, fu un successo planetario e influenzò molto cinema successivo. Partendo, ad esempio, da Sunrise (Aurora, 1927) di F. W. Murnau (entrambi tratti dai racconti di Hermann Sudermann). Qui abbiamo i baci appassionati, “alla Garbo”, tra l’amante di città (la snella e perfida Margaret Livingston) e l’uomo sposato (George O’Brien), un onesto agricoltore caduto nella rete di una donna senza scrupoli. Tutto avviene di notte, sotto la luna piena. L’uomo ha lasciato la tavola apparecchiata dall’amorevole moglie (la delicata Janet Gaynor: viso tondo, capelli raccolti in due bande, occhi grandi e ingenui) che sta servendo la cena; il neonato dorme nella camera da letto (la luce della luna proietta le imposte della finestra sul letto formando una croce). Va ad incontrare la seducente «donna di città», nella giuncaia, dietro la palude. La storia tra i due amanti, quando inizia il film, va avanti da tempo. Murnau “mostra” metaforicamente i piedi di lei che, camminando nella palude, affondano con le scarpe, allusivamente, nel fango: ci sta dicendo che è una storia sporca, melmosa, illegittima. La lussuria ha catturato il buon marito e padre: la carne sta avendo la meglio sullo spirito. (Poi vi sarà il ravvedimento dell’uomo). La lunga e sinuosa carrellata della donna che lambisce e striscia, come una serpe, intorno alla casa dell’uomo, per chiamarlo poi con il fischio, è debitrice delle carrellate del Brown di Flesh and the Devil.

 

Conclusioni. È innegabile che a una prima lettura il cinema muto appare “moralista”, e magari “troppo” paolino. Ma a ben osservare, seppur strettamente “sorvegliato” dalla censura, condanna ciò che il senso comune non accetta: le orge (A Woman of Paris), l’avarizia, e il denaro elevato a idolo (Greed), la divisone e le liti per il denaro (ancora Greed); l’orgoglio e il desiderio del falso rispetto sociale (Der Letzte Man); la corruzione negli affari (The Ten Commandments), l’adulterio come “normalità” nella società moderna (A Woman of Paris, Flesh and the Devil, Sunrise). Insomma, il muto, attraverso le sue storie di vita quotidiana, non condanna, soprattutto nel film di Brown, la fine di un amore e l’inizio di un’altra storia d’amore, ma la lussuria e l’ipocrisia. Infatti la lussuria «è un vizio pericoloso […] perché a differenza della sana sessualità che coinvolge tutti i sensi, il corpo e la psiche, essa è mero soddisfacimento del piacere sessuale» (Papa Francesco, Omelia, 17 gennaio 2024). Felicitas, seguendo una falsa logica, dice ipocritamente: «se ci amiamo e lo neghiamo a noi stessi, siamo ipocriti; se lascio Ulrich lui soffrirà; quindi il minor male è accettare la presente situazione»: ossia prendersi marito e amante.

La frase che oggi, invece, ci appare superata e maschilista, quindi non accettabile, è quella del Pastore Voss che, ammonendo Leo, riversa la colpa del peccato sulla donna: «My boy, when the devil cannot reach us through the spirit… he creates a woman beautiful enough to reach us through the flesh».

CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE ESTETICA

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