GIGANTE DI FERRO O CUORE DI CICCIA? RIFLESSIONI SULL’INCARNAZIONE TECNOLOGICA E SULL’HOMO CYBERNETICUS

android-cyborgTOMMASO ROPELATO

Che si tratti di operare un paziente, di cucinare il pranzo della domenica, di recuperare una funzione motoria resa parziale da un ictus o una amputazione, o di sopperire alla fragilità di un corpo che invecchia, sono molti i casi in cui un pezzo di corpo in più farebbe comodo.

Scienziati ed ingegneri del biotech stanno da tempo studiando come poterlo fare, non solo per ripristinare ma anche per migliorare le nostre funzioni. Storie come quelle di Stelarc, l’artista cipriano che si era installato un terzo occhio nel braccio, e Neil Harbisson, la prima persona al mondo ad essersi proclamata cyborg per via di un’antenna che lui stesso si è impiantato nel cranio e che, funzionando come un sensore, gli permette di ascoltare i colori percependoli al di là delle possibilità della visione umana, hanno infatti trasformato quella che nella seconda metà del secolo scorso è stata una popolare idea fantascientifica (pensiamo ai primi scritti degli scienziati Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline, a film come Terminator e Robocop, o ancora alle opere del filone cyberpunk) in un orizzonte transumano sempre più concreto.

In questo breve articolo mi propongo di porre alcune questioni che mi paiono rilevanti da un punto di vista bioetico e filosofico, senza avere alcuna pretesa di fornire risposte, ma sperando anzi di abbozzare alcuni spunti per quelle che saranno riflessioni di un futuro più o meno vicino: quello dell’avvento dell’uomo cibernetico. Un uomo che decide di fondere la propria, soffice carne con la tecnologia.

Anzitutto, serve tratteggiare in linea di massima che cosa sia un cyborg. Mi rifarò ad una sua definizione classica, e cioè comune tanto ai personaggi che popolano un mondo come quello del recentissimo Cyberpunk 2077, quanto alla teoria di Donna Haraway (nonostante in quest’ultimo caso il concetto sia utilizzato come simbolo del rifiuto dei dualismi fondanti della società maschilista e tardo-capitalista contro cui l’autrice si schierava): un cyborg, o organismo cibernetico/bionico, è un essere al confine tra l’uomo e la macchina dotato di innesti tecnologici in grado di comunicare attivamente con l’organismo e con l’ambiente. Questa ibridazione, che risponde al desiderio eminentemente umano di migliorare ciò che ha determinato la natura, è ciò che rende l’uomo bionico tale. L’esponenziale progresso delle biotecnologie a cui abbiamo assistito negli ultimi due decenni segna, in tal senso, un’accelerazione senza precedenti nel superamento di un corpo considerato obsoleto e fragile.

Una innumerevole serie di esempi ne testimonia, se non il miglioramento (concetto intrinsecamente dipendente da giudizi e valori plurali), la trasformazione: mi limiterò a riportare quanto letto su Nature a pochi giorni dall’inizio del 2024. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Seul ha infatti pubblicato i promettenti risultati di una «pelle artificiale bionica completamente impiantabile dotata di un sistema sensoriale wireless»: si tratta di un miracoloso prodigio tecnologico che potrebbe non solo riparare i gravi danni causati da ustioni, forme di tumori cutanei o incidenti chimici che, provocando disfunzioni tattili potenzialmente permanenti, impattano significativamente sull’intera vita quotidiana di un individuo, ma che segna anche una pietra miliare nel progresso verso quella che, nel mondo della ricerca, viene chiamata e-skin: la pelle elettronica. Una pelle in grado di auto-ripararsi, di resistere maggiormente agli urti, di adattarsi a temperature estreme (sia calde che fredde), dotata di una aumentata capacità di elaborare una serie di dati chimici ed elettrofisiologici provenienti dall’ambiente circostante e di comunicare, per mezzo di segnali wireless, con elementi del nostro mondo e virtuali, cioè del metaverso, nonché di monitorare lo stato di salute dell’organismo e, last but not least, di garantire un generale migliore comfort per l’essere umano che la indossa.

Di questo strabiliante elenco di promettenti dotazioni di questa pelle, su cui stanno muovendo passi importanti colossi come Samsung ma anche università di prestigio come la Caltech, ciò su cui vorrei puntare la mia attenzione sono le ultime tre parole che, volutamente, ho usato in maniera imprecisa. Il fine ultimo del progresso verso l’homo cyberneticus non è quello di poter indossare questi artefatti, ma di fondersi con essi: la distinzione tra korper e leib, che per dovere di sintesi indico nei termini di corpo vissuto e corpo-oggetto, e cioè carne (o, in questo caso, carne-ed-altro), è la grande nemesi di questo movimento che mira a rendere queste nuove estensioni del corpo sempre più incarnate, sempre più proprie e sempre meno percepite come esterne: «il futuro della tecnologia – per utilizzare le parole dello stesso Harbisson – sarà dentro di noi».

Leggendo il paper in cui il gruppo di ricerca koreano descrive la sua pelle bionica, è possibile notare alcuni passaggi che catturano il senso di quanto appena detto: molti sono infatti i riferimenti a termini come biocompatibilità, biomimesi, e minimizzazione della reazione a corpi estranei. Ciò a cui si punta, dunque, è anche e soprattutto ad aumentare il livello di embodiment di queste biotecnologie: un termine che potremmo tradurre con incorporare ma che, anche in inglese, è andato sfumando in un significato sempre meno materiale. Se, infatti, da un lato (nella sua accezione basilare) indica la capacità di percepirsi attraverso il movimento e le sensazioni interne del corpo, dall’altro embodiment indica anche un processo di riflessione sulle emozioni, così come il senso di proprietà e di localizzazione interiore di un qualche cosa che, di norma, non considereremmo tale.

Per comprendere meglio ciò di cui sto parlando possiamo fare riferimento ad un esperimento del 2021 condotto da un gruppo di neuroscienziati dello University College London. Il fine della ricerca condotta sotto la guida del professore Tamar Makin era di testare proprio il senso soggettivo di incarnazione creato, in questo caso, da un pollice artificiale in più. Dal momento che l’esperimento ha avuto una certa risonanza, mi permetto di sorvolarne il contenuto tecnico e i passaggi che hanno portato alla seguente conclusione: «i partecipanti hanno riferito di aver esperito in misura progressivamente maggiore la sensazione di embodiment, cioè di aver sentito che il pollice era diventato parte di loro». In particolare, hanno affermato di aver esperito un aumento non solo della propriocezione del pollice aggiunto, ovvero la capacità di percepire la posizione delle parti del proprio corpo nello spazio senza utilizzare il senso della vista, ma anche di aver integrato quest’ultima nello schema corporeo che ci consente di eseguire con efficacia le funzioni proprie di ciascuna parte. Non solo: l’uso prolungato del pollice aggiuntivo ha anche modificato il modo in cui le dita della mano biologica venivano utilizzate l’una rispetto all’altra. In altre parole, «i modelli di coordinazione tra le dita biologiche quando il pollice robotico è presente risultano diversi da come le dita cooperano quando il pollice robotico non è presente». È infine interessante notare come questo fenomeno non sia stato rilevato all’interno del gruppo di controllo dotato del medesimo pollice robotico ma non funzionante. Tuttavia, ulteriori test cognitivi hanno dimostrato che il pollice robotico non cambiava o alterava la percezione implicita dell’immagine del proprio corpo rispetto a quando il pollice non era presente.

Torniamo alla duplice definizione di embodiment: in questo caso il processo di incorporazione del pollice robotico si è fermato, per così dire, alla prima soglia, quella puramente “materiale”, senza produrre un profondo senso di incarnazione. Per quale motivo? Soffermiamoci sulla fattezza di questo artefatto: «il pollice, modellato e stampato in 3D cosicché fosse facile da personalizzare, viene applicato sul lato della mano, opposto al pollice vero e proprio dell’utente, e cioè vicino al mignolo. Chi lo indossa lo controlla con dei sensori a pressione posizionati sulla parte inferiore degli alluci e collegati in modalità wireless al pollice. Entrambi i sensori alle dita dei piedi controllano i diversi movimenti del pollice, il quale risponde immediatamente alle più sottili variazioni di pressione». Confrontiamo ora questa descrizione con quella della pelle bionica: il pollice, concorderemo, presenta in misura maggiore tutte quelle caratteristiche di un qualche cosa che si “indossa”.

Sono certo che tutti abbiano più o meno presente cosa sia la sindrome dell’arto fantasma: è la sensazione anomala di persistenza di un arto dopo la sua amputazione o dopo che questo sia diventato completamente insensibile. Il soggetto affetto da questa patologia ne avverte comunque la posizione, accusa sensazioni moleste e spesso dolorose, talora addirittura di movimento. Una lunghissima serie di studi teorici ed empirici sulla rappresentazione cerebrale di arti mancanti a seguito di amputazioni ha mostrato come il cervello mantiene la loro rappresentazione interna e come le altre parti del corpo, anche a distanza di decenni, non “occupano il posto” di quelle parti del cervello. Possiamo dunque concordare che, sebbene la cosa possa sembrare paradossale, il grado di embodiment di un arto mancante possa essere maggiore di quella di un arto aggiuntivo!

Ma se un domani un altro gruppo di ricerca progettasse un pollice (o un’altra parte del copro) il cui grado di embodiment risulta maggiore? Se si puntasse, cioè, a una vera e propria fusione organico-robotica, anziché una semplice giustapposizione? Torniamo così a quanto premesso a inizio articolo: il fine ultimo delle biotecnologie bioniche è un grado incarnazione sempre maggiore. Il potenziamento a cui fanno riferimento i transumanisti, è bene sottolinearlo, non dipende solamente dal grado di innovazione della tecnologia di cui si può disporre, ma anche dalla capacità del nostro cervello di aggiornarsi, adattarsi e interfacciarsi con i dispositivi di potenziamento stessi. Se l’esperimento della pelle bionica, e ancor più l’ipotesi di una pelle elettronica, vanno in questo senso, l’artefatto del pollice robotico del gruppo di ricerca di Londra non rappresenta un caso analogo. Non solleva, cioè, la domanda che ritengo essere cruciale per questa tipologia di biotecnologie: cosa succederà nel momento in cui ci relazioneremo ad una parte bionica aggiuntiva nello stesso modo in cui un soggetto affetto dalla sindrome dell’arto fantasma si relaziona alla sua parte mancante?

Nonostante i dati sperimentali delle neuroscienze siano da questo punto di vista ancora scarsi vista la fase ancora embrionale degli studi in materia, esiste un altro caso di studio che può risultare interessante, la cui prima versione risale al 1998: quello della mano di gomma. È molto celebre anche questo: consiste in un processo percettivo illusorio in cui una mano finta viene percepita come propria. Il soggetto che partecipa all’esperimento è seduto con il braccio sinistro posto sopra un tavolo. Uno schermo è collocato accanto all’arto al fine di nasconderlo allo sguardo del soggetto, mentre una mano di gomma di dimensioni reali, simili a quelle della mano sinistra del soggetto, è posta sopra il tavolo di fronte a lui. Al soggetto è richiesto di mantenere lo sguardo sulla mano artificiale mentre due piccole spazzole accarezzano contemporaneamente sia la mano di gomma che quella del soggetto. I tocchi di spazzola, eseguiti in modo sincrono, sono dati con una frequenza d’intervallo di un secondo e gli effetti percettivi dell’illusione sono riportati su un questionario ideato appositamente. L’illusione della mano di gomma è usata per manipolare, in un soggetto sano, le sensazioni di possesso di una mano artificiale. Ciò che distingue questo esperimento da quello del pollice robotico è che produce una profonda modificazione della sensazione di ownership dell’arto aggiuntivo. Tramite questa illusione, l’oggetto inanimato che si stava solamente osservando in un primo momento diventa sempre più “vivo”, rendendo infine possibile esperire sensazioni da una mano finta e separata dal corpo.

Dalle analisi ottenute dai questionari sottoposti ai soggetti dell’esperimento emersero in particolare quattro componenti denominate come: “embodiment of rubber hand” (sensazione di appartenenza della mano di gomma), “loss of own hand” (sensazione di perdita di controllo della propria mano), “movement” (sensazione di percepire il movimento della propria mano reale come provenire dalla mano finta) e “affect” (sensazione vissuta durante la sessione come piacevole). Nella condizione di stimolazione asincrona venne poi riportata un’ ulteriore quinta componente denominata “deafference” (sensazione che la mano biologica sia meno “viva“ rispetto al solito). Ulteriori analisi sulla componente di embodiment della mano di gomma rivelarono tre ulteriori sottocomponenti nelle condizioni di stimolazione sia sincrona sia asincrona: “ownership” (sensazione che la mano di gomma sia parte del proprio corpo), “location” (sensazione che la mano di gomma e la propria mano siano nello stesso posto) e “agency” (sensazione di essere capaci di muovere la mano di gomma e di poterla controllare).

Dopo l’esperimento dell’illusione della mano di gomma, altri studi hanno indagato quanto la rappresentazione umana del “sé” sia effettivamente plastica. Questi ultimi hanno nuovamente rilevato tutte, o alcune, di queste componenti, ma solamente nei confronti di arti artificiali “sostitutivi”, controllati cioè da movimenti di un arto reale e/o di arti da cui viene fornito un feedback sensoriale non visivo su un arto esistente, come nel caso del pollice robotico o di uno studio ancora più recente condotto da ricercatori dell’Università di Tokyo sulla “bodily ownership of an independent supernumerary limb”.

Siamo, come detto, solamente ai primi passi che ci conducono verso un futuro ancora largamente indecifrabile. Un progresso che potrebbe addirittura portarci a progettare delle parti bioniche dotate di una propria esperienza corporea che diverrebbe congiunta a quella dei loro utenti, introducendo nuove modalità di fusione tra esseri umani e robot, tra carne e tecnologia.

Moltissime sono le domande a cui scienziati e umanisti dovranno rispondere. Alcune di queste devono ancora essere formulate, nonostante rappresentino forse la sfida più importante, concreta e “umana” che gli uomini cibernetici ci presenteranno: come varierà il rapporto di cura in presenza di un corpo sempre più bionico? Quali parti del nostro corpo saranno ancora in grado di provare dolore? Avremo ancora un corpo che invecchia? O parleremo piuttosto di un corpo progressivamente malfunzionante perché mal progettato? I medici diventeranno sempre più simili a dei meccanici di precisione? Come muterà il linguaggio della salute, della cura, del benessere? Potremo ancora romperci un dito giocando a pallavolo, ingessarlo e attendere pazientemente la sua guarigione senza poter scrivere, giocare alla playstation o cucinare il pranzo della domenica?

Sono solo alcune domande a cui, come detto, non darò risposta, ma a cui auspico daremo più attenzione. Nel mentre, come cantava Lucio Dalla, aspettiamo senza avere paura, domani.

BIOTECNOLOGIE ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

Lascia un commento