MONOGAMIA – EDITORIALE

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Se è sopravvissuta alla pressione evolutiva e, in qualche modo, anche alla storia dell’umanità una qualche funzione positiva è probabile ce l’abbia. Quale sia non è del tutto chiaro e non è affatto chiaro che questa funzione sia stata complessivamente positiva e nemmeno che lo sia stata nella maggioranza dei suoi aspetti. Innanzi tutto, non è affatto chiaro che la relazione monogamica sia stata una relazione simmetrica. Molto spesso è stata una monogamia imposta alle donne, mentre gli uomini si dava per scontato potessero farsi tranquillamente i fatti propri. La promiscuità sessuale era ampliamente tollerata per gli uomini, mentre sino a tempi recentissimi era semplicemente un interdetto per le donne, a meno che non la praticassero per professione, nel qual caso, almeno nelle nostre società, scattavano altri meccanismi di interdizione: sociali, medici, legali. Secondo le ricerche di un’antropologa geniale, Germaine Tillion, in tutta l’area del mar Mediterraneo sin dove può spingersi la documentazione, ossia almeno sino a Erodoto, la donna è stata considerata una proprietà di molteplici soggetti maschi (padri, fratelli, mariti, cugini, cognati). Al di là dei vantaggi evolutivi è in questa storia di lunghissima durata che andrebbe probabilmente considerata la monogamia imposta alle donne, e accettata in maniera riluttante, ma per lo più ipocrita, dagli uomini.

Il sesso e il suo prodotto episodico, la prole, vengono così riprodotti in una cornice di autonomia negata e di una concezione della donna votata all’oppressione. Di fronte a ricerche così documentate come quelle di Tillion, viene da sorridere a leggere di ricerche, come quelle di Joseph Henrich e altri, che si interrogano su The Puzzle of Monogamous Marriage, che individuano i benefici della monogamia nell’abbassamento del numero di uomini non accoppiati (ossia che hanno accesso alla disponibilità sessuale) che avrebbe abbassato il tasso di conflittualità tra i maschi e ridotto la criminalità, continuando sino a dire che la monogamia sarebbe una delle fattrici addirittura della democrazia, perché sarebbe niente meno che l’incunabolo dell’eguaglianza politica. Forse un po’ troppo e un po’ troppo superficialmente per una relazione fondamentalmente asimmetrica che questi studiosi leggono attraverso le lenti forse della propria esperienza di abitanti dell’Occidente contemporaneo.

E ancora: se leggiamo la monogamia attraverso le lenti dell’evoluzione, basterebbe forse ricordare la nostra prossimità agli scimpanzè e ai bonobo, specie di primati entrambe promiscue, ma estremamente aggressive le prime, mentre le seconde regolano i loro conflitti attraverso il sesso. Mi pare piuttosto chiaro che dal punto di vista dell’aggressività noi siamo cugini più degli scimpanzè che dei bonobo e questa aggressività unita alle pretese di possesso del corpo femminile ha prodotto l’ircocervo di una monogamia imposta alle donne, ma non pretesa per gli uomini. Si dice che gli uomini sopportino molto peggio delle donne l’abbandono della propria amante, perché ne viene generata una ferita narcisistica, che non sanno maneggiare. Per alcuni questa diviene così poco interpretabile che si pensa possa essere sanata solo attraverso la scomparsa del soggetto delle proprie ossessioni. Sono casi tristemente noti e dei quali è bene parlare sempre pubblicamente, soprattutto per chi è investito delle funzioni di educatore.

La stagione del gruppo familiare come venne studiata da Tillion è tramontata per sempre, anche se ne sopravvivono numerose incrostazioni, ma è chiaro che si tratta di fenomeni reattivi e di modelli culturali oramai perdenti. C’è da chiedersi se di queste incrostazioni non faccia parte anche quella che siamo stati abituati a chiamare monogamia.

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