CARNE SENZ’ANIMA

cyborg-1557937146wcLALESSANDRO DORIA

Scriveva Alda Merini in un verso di una delle sue poesie: “Dio mio, spiegami amore mio, come si fa ad amare la carne, senza baciarne l’anima?”. La lettura di queste parole sembra declamare, senza alcuna ombra di dubbio, l’impossibilità di poter disgiungere la carne, il corpo, dall’anima, ovverosia dall’idea di persona nel suo essere in sè e per sè. Eppure, questo concetto di unitarietà non appare effettivamente presente nella società occidentale contemporanea. Paradossalmente, uno degli ambiti dove si riscontra in modo eclatante il dualismo carne mente è quello della medicina. E’ infatti “normale” relazionarsi con medici incapaci di creare rapporti empatici con il paziente, limitandosi all’esercizio della professione così come appresa nel corso degli studi, ossia riducendo l’atto di cura nei suoi confronti alla semplice prescrizione di terapie mirate alla cura dell’organo malato.

Ora, fino a che parliamo di patologie semplici e comuni come un raffreddore o uno stato influenzale, si potrebbe anche accettare che si venga ad istituire un rapporto neutro tra le parti, ma quando si tratta di malattie che incideranno sull’identità della persona, ossia, quando si deve curare un paziente all’esordio di malattie neuro degenerative o di un tumore, è possibile limitarsi a considerare il paziente come fosse solo  un corpo che si sta corrompendo oppure sarebbe più corretto assumere l’atteggiamento di chi si trova dinanzi ad una persona, prendendosi carico di tutti i suoi aspetti, evitando così  di ridurlo alla sola patologia ?

E nel caso che la malattia non fosse più curabile e le terapie disponibili al medico fossero terminate, quale tipo di approccio dovrebbe essere costituito nel caso molto probabile in cui non fossero disponibili posti letto presso uno degli hospice pubblici ?

Per chiarire la situazione attuale, dobbiamo affrontare un breve excursus nella storia del pensiero dell’uomo.

Dal punto di vista filosofico, la frattura anima e corpo si fa presente sin dai tempi di Platone.

In ambito medico, invece, non  è sempre stato così.

La nota formula di Ippocrate “Il medico che si fa filosofo diventa pari ad un dio”, proponeva l’assunto che la cura del malato dovesse essere affrontata nella sua interezza. Al medico dell’Antica Grecia era quindi richiesta una conoscenza umanistica, oltre a quella scientifica, per poter prendersi cura del malato e il paziente veniva preso in carico nella sua unitarietà, senza alcuna riduzione di sorta.

Nel pensiero cristiano, invece, se agli inizi si proclamava la risurrezione della carne, considerata quindi come unità dell’essere, e il corpo quale tempio dello spirito, con una visione pertanto opposta a quella platonica, in epoca medievale, in particolare con Sant’Agostino, il cristianesimo vira verso il dualismo carne anima, stante l’impossibilità di giustificare la risurrezione di corpi che nei fatti subivano il disfacimento della decomposizione.

Il dualismo anima  corpo in ambito filosofico, poi, trova la sua consacrazione con l’avvento dell’epoca moderna, in particolare con il pensiero di Cartesio, il quale separa definitivamente la mente dal suo corpo, riducendo quest’ultimo ad un oggetto di studio.

E’ con la sua celebre massima “Cogito ergo sum, che egli pose la classica pietra tombale sulla possibilità di riunire le due istanze nei secoli a venire. Res cogitans e res exstensa in Cartesio, pensiero e materia, risultavano collegate da una qualche ghiandola, finendo così per diventare la base della sua riflessione e di tutte le conseguenze che tutt’oggi non riusciamo ancora a  risolvere. La materia, operante secondo leggi fisiche determinate, altro non era se non un insieme di qualità miste ad estensione e, nel caso del corpo umano o animale, le parti costituiranno una macchina in tutto e per tutto autonomamente insensibile, animata da un io pensante, una coscienza sicura solo della propria esistenza grazie a un percorso che partiva proprio dal dubbio iperbolico per approdare a una verità tipica dell’attività noetica. Solo all’anima, quindi, spettavano le sensazioni, le esperienze, la ricerca della verità.

La medicina clinica, fondò il suo statuto utilizzando l’approccio riduzionista alla malattia, basato sul dualismo cartesiano, secondo il quale ancor oggi, nonostante sia trascorso qualche secolo, è necessario studiare il corpo umano come fosse un oggetto, considerandolo nelle sue parti componenti e nelle loro rispettive funzioni.

Riporta il prof. Nevio Del Longo, psicoterapeuta e formatore presso l’Azienda Zero di Padova, come nei gruppi di formazione per medici ospedalieri, si evidenzi una visione frammentata dell’uomo, a conferma della scissione della visione pratica della medicina rispetto la visione olistica del paziente, isolata sempre più nella teoria filosofica.

Nella formazione medica odierna, manca evidentemente l’approccio filosofico-psicologico unitario e si persiste nel concentrarsi “scientificamente” sull’organo malato dimenticando l’importanza dell’influenza della psiche sulla funzione, continuando così un approccio in linea con il pensiero cartesiano.

A distanza di 10 anni, rimane inascoltato il messaggio del prof. Umberto Veronesi contenuto in una videointervista rilasciata nel 2014 ad Assediobianco : “La malattia colpisce un organo, è vero, ma viene elaborata dalla mente. Io dico sempre ai miei collaboratori. E’ facile togliere un tumore al seno, ma bisogna anche toglierlo dalla mente, dal pensiero, e curare la ferita che si è creata anche a livello della psiche.”.

E’ evidente a questo punto che la preparazione del medico avviene ancor oggi nelle facoltà di Medicina e Chirurgia analizzando e studiando una carne senz’anima.

Questo approccio formativo stride rispetto i contenuti della legge sulle cure palliative del 2010 che avrebbe potuto cambiare il paradigma di approccio alla cura per tutta la medicina senza limitare i suoi effetti all’ introduzione di una nuova branca medica che si occupi principalmente dei pazienti non curabili, spesso presi in carico solo nei loro ultimi giorni di vita.

Il fatto stesso che in Italia solo la metà delle persone affette da gravi patologie finisca il suo percorso di cura con la presa in carico da parte dei palliativisti, suona come la sinistra conferma dell’idea che in fondo stiamo parlando solo di corpi ammalati che nulla più possono offrire alla società, dimenticandosi così delle persone che si trovano a dover loro malgrado affrontare delle patologie drammatiche.

Di fronte a questa situazione, non appare  nemmeno sufficiente l’introduzione della psicologia moderna all’interno delle corsie d’ospedale, in quanto anch’essa soffre dello stesso statuto “scientifico” della medicina, ovverosia, è sempre più orientata a cercare di comprendere il sintomo psicologico per offrire una soluzione sperimentata e, quindi, di probabile successo.

Si renderebbe necessario, invece, formare i medici di domani ad un approccio non solo scientifico ma anche filosofico,  in grado cioè di offrire un opportuno sostegno al malato nell’affrontare questioni di carattere più “esistenziale” quali il senso della vita, della morte, della malattia, del dolore.

Attraverso il metodo filosofico, il medico potrebbe essere in grado di stimolare i processi di pensiero logici e razionali del paziente, fungendo da facilitatore degli stessi, accompagnando così il paziente verso la soluzione o la risposta alla drammaticità della sua esistenza, sfruttando i principi del dialogo socratico.

Una figura così formata, potrebbe porsi in una nuova relazione verso il paziente, tornando alla figura del medico dei tempi di Ippocrate, di fatto ricomponendo la frattura presente oramai da troppi secoli.

L’obiezione più facile ad una simile proposta sarà probabilmente basata su questioni economiche, le quali sono le migliori alleate del dualismo anima e corpo tuttora perdurante.

BIOTECNOLOGIE ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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