ELOGIO DELLA VITA SENZA STILE

GIANFRANCO PELLEGRINO

download

Nel film Manhattan (1979), Woody Allen fa recitare al protagonista – Isaac Davis – un brevissimo monologo sul senso della vita, sulle cose che rendono una vita degna di essere vissuta. Ecco le sue parole:

Perché vale la pena di vivere? È un’ottima domanda. Be’, ci sono certe cose per cui vale la pena di vivere. Ehm… per esempio…. Ehm … per me … boh, io direi… il vecchio Groucho Marx, per dirne una … e Joe Di Maggio e … il secondo movimento della sinfonia Jupiter e … Louis Armstrong, l’incisione di Potato Head Blues e … i film svedesi naturalmente … L’educazione sentimentale di Flaubert … Marlon Brando, Frank Sinatra … quelle incredibili … mele e pere dipinte da Cézanne …. i granchi da Sam Wo … il viso di Tracy.

La lista di Allen può colpire per vari aspetti – i più evidenti sono l’eterogeneità e l’idiosincrasia. Per Isaac, le cose che rendono la vita degna d’essere vissuta sono disparate (vanno da attori a cibi al volto di un essere umano) e del tutto peculiari, espressione dei gusti, e forse dei tic, del personaggio d’intellettuale frustrato newyorchese che Allen ritrae molto efficacemente. Inoltre, tutto sembra un po’ esagerato: ma davvero una vita che non consenta accesso agli elementi di quella lista sarebbe indegna di essere vissuta? Nella discussione bioetica, si è parlato di wrongful lives –  casi in cui chi vive una certa vita potrebbe chiedere risarcimento ai propri genitori per la propria nascita. Si tratta di una nozione controversa, certamente. Ma, se anche non fosse controversa, quest’idea si applicherebbe a vite realmente devastate da condizioni cliniche molto dolorose e irreparabili – non certo a una vita sprovvista di film svedesi o letture di romanzi realisti francesi.

Si potrebbe dire, allora, che il problema non stia tanto nell’idea di compilare una lista di cose che rendono la vita degna d’essere vissuta, quanto negli elementi contenuti nella lista di Isaac. Non sono tanto i granchi di un ristorante newyorchese a fare di un’esistenza una vita che valga la pena di vivere, ma stati più fondamentali e importanti per tutti, come ad esempio la salute, l’integrità fisica, o la libertà, e così via. Le vite non degne di essere vissute sono pochissime: al limite, sono tali le vite delle poche persone che potrebbero nascere con una malformazione incurabile che causi dolori enormi e non alleviabili, e vivano poche ore – si pensi ai neonati anencefalici.

Ma, se così fosse, la lista di Isaac in Manhattan sarebbe non tanto opinabile o controversa, quantodel tutto priva di senso – una distorsione dell’idea di una vita che valga la pena di vivere. Eppure, i molti spettatori di Manhattan, anche quelli più lontani dal milieu culturale del radical chic newyorchese, non trovano del tutto assurda l’impresa di fare una lista delle cose belle della vita.

Forse è l’espressione ‘vita che vale la pena di vivere’ a essere fuorviante. Forse non è tanto questione di valore – di una cosa che vale la pena –, ma Isaac è alla ricerca delle cose che rendono la sua personale esistenza significativa per lui, e non solo buona, o dotata di valore per chiunque. Quello che Isaac s’impegna a fare, allora, non sarebbe tanto presentare le condizioni che rendono la sua vita accettabile o degna d’essere vissuta, quanto indicare le caratteristiche specifiche della sua esistenza che la rendono significativa e godibile per lui. In questo senso, quelle che Isaac/Allen elenca sono le cose che rendono significativa, speciale, la vita del protagonista – ed è ovvio che queste cose possano, anzi debbano, essere del tutto idiosincratiche ed opinabili.

L’idea espressa così icasticamente da Allen, dunque, è che una vita significativa coincida con una vita peculiare, specifica, e forse anche speciale – in un qualche senso. Non è detto che si tratti di una vita felice – dubito che la visione dei film svedesi cui Isaac allude possa riempirci di felicita (più che altro può destare certi sentimenti vagamente catartici, che possono essere oggetto di desiderio, certamente, ma non sarebbero definiti, almeno dalla maggioranza di noi, come sensazioni di felicità). Né dev’essere una vita particolarmente eccezionale dal punto di vista morale – non è la vita di un eroe morale, come Martin Luther King o Nelson Mandela, ad esempio. Tuttavia, c’è un presupposto comune – perché la vita abbia significato essa non può essere comune, ordinaria, sciatta. Questo presupposto, a sua volta, si regge su un’altra idea – che una vita che abbia senso e valore è una vita con certe specifiche proprietà, che magari possono essere molto specifiche, idiosincratiche, interne al punto di vista di chi quella vita vive.  Quel che non è idiosincratico, ma condiviso, è l’idea che a dare significato alla nostra vita siano elementi distintivi, sperabilmente eccezionali – gusti, predilezioni, conquiste, e così via. Una vita insignificante è una vita comune, ordinaria, normale. E qui si vede ancora meglio la distanza fra vita felice, o vita morale, e vita che ha senso – le vite felici, probabilmente, si assomigliano un po’ tutte (almeno se si bada agli elementi più fondamentali della felicità umana, a cose, per l’appunto, come la salute, o la libertà, o gli affetti). Le vite buone – cioè moralmente buone –, anche, sono piuttosto univoche, e sono vite dedite a obiettivi e impegni il cui valore morale è condiviso, vite dedicate alla giustizia, all’aiuto degli altri, e così via. Le vite significative, ovviamente, possono in parte coincidere con vite felici o vite buone, ma sono molto più varie – e ogni vita significativa lo è a suo modo.

Specificità non è necessariamente eccezionalità, naturalmente. Nella civiltà di massa dove molti di noi vivono, i gusti raffinati di Isaac/Allen sono anch’essi condivisi da molti. Nella nostra cultura consumista vige l’esclusività di massa, per così dire: l’esempio migliore sono le collezioni degli stilisti – che promettono un’esclusività a disposizione dei molti che possono permettersi di pagare certi prezzi. Ma, come ho detto, il punto di una vita significativa, il punto delle cose che uno potrebbe elencare se gli chiedessero quali sono le cose che, per lui, rendono la propria vita significativa e godibile, non è tanto che siano eccezionali, o appannaggio di una ristretta élite, ma che siano sue, che siano oggetto di un proprio progetto di vita, di proprie predilezioni, di proprie idiosincrasie.

A questo modo di vedere si possono muovere varie critiche. Immediata è la critica derivante dalle considerazioni espresse appena sopra. Se le cose che rendono la nostra vita significativa e godibile sono prodotto di circuiti massificati, e sostanzialmente decisi da altri – da agenzie fuori dal nostro controllo, come le multinazionali e le tendenze imposte dal marketing –, allora non c’è vera specificità, se la specificità s’intende come autonoma selezione di certi gusti, attività, conseguimenti e l’impegno in progetti. E l’impressione che anche le nicchie, anche le élite siano in realtà prodotti massificati, digeriti dalla grande macchina del capitalismo – che tutto ingloba, anche la presunta critica di se stesso – è forte. È come se un meccanismo che produce allo stesso tempo conformità e anelito all’indipendenza, all’esclusività, sia inevitabile: l’esempio migliore sono, per l’appunto, le cosiddette griffe esclusive e i consumi presuntamente alternativi: anche il biologico, per dire, o il fair trade, sono realtà di massa, che non servono a dare significato a nessuna vita, a nessuno stile di vita.

Forse il punto è proprio questo. Quello che Allen mette in scena è l’idea per cui la vita abbia senso se è uno stile di vita – e gli stili di vita sono stili, cioè scelte autonome e pensate di una certa modalità di vivere. E nel mondo in cui viviamo ogni stile di vita in realtà è una nicchia ecologica collettiva, un codice, più che uno stile, una modalità rituale, un ruolo sociale. C’è l’ecologista alternativo, l’integrato, l’intellettuale, e così via.           E ognuno di loro cerca di differenziarsi, ma proprio differenziandosi in realtà si omologa. E, quindi, la ricerca del senso della vita diventa svuotamento di questo senso. E le cose migliori della vita – what is best in life – in realtà sono chimere impossibili, perché nulla è migliore di nulla, e tutto si equivale. Il capitalismo rende impossibile, e al tempo stesso urgentissimo, capire che cosa sia best in life, che cosa dia senso alla nostra vita. Il capitalismo – almeno inteso come produzione di massa, come democrazia dei gusti e dei consumi – è al tempo stesso la fonte e la negazione della ricerca del senso della vita.

Un’altra critica possibile si rivolge contro il soggettivismo evidente in qualsiasi ricerca del senso della vita intesa come idiosincratico progetto. Una volta che si siano lasciate da parte le dimensioni fondamentali che rendono la vita minimamente degna d’essere vissuta – cose appunto che sono per tutti buone e necessarie, come la salute, la libertà, gli affetti e così via –, non rimangono che liste idiosincratiche di passioni e capricci. Anzi, ciò che di più colpisce nel sentire Woody Allen snocciolare la lista sul divano, di fronte al magnetofono, è appunto il fatto che una cosa importante come ciò per cui varrebbe la pena di vivere, anche se lo si riduce a ciò che dà significato alla vita, e non a ciò che rende la vita vivibile, è solo una una pletora di capricciose inclinazioni – di gusti e predilezioni. Ma veramente è tutto qui? Ma veramente è tutto così idiosincratico e superficiale?

E viene voglia, allora, di reagire contro questo estremo soggettivismo disincantato andando alla ricerca di liste oggettive – di cose capaci di rendere significative tutte le vite, indipendentemente dai gusti personali e dalle predilezioni stravaganti e passeggere. Ma, così facendo, due pericoli emergono: l’imposizione paternalista e la perdita della dimensione di progetto, di autonoma ricerca, di costruzione indipendente del sé. E, se si cerca di limitarsi, invece, alle cose che ovviamente sono significative per tutti, che non c’è bisogno d’imporre, né nessuno – o quasi – rifiuterebbe, si rischia di nuovo di arrivare a schiacciare il significato della vita sulla vita degna, di limitarsi a dire che, basta che ci sia la salute, la libertà, i diritti, gli affetti, e poche altre cose, e qualsiasi vita è significativa.

Il rischio che corriamo è di oscillare fra due estremi. O le vite significative sono solo le vite buone – le vite in salute, in libertà, colme di affetti, e forse anche, dunque, le vite felici e morali – e non c’è differenza fra moralità, felicità e senso della vita, né le vite sensate sono molto differenti fra di loro. Oppure, abbiamo la massima diversità immaginabile di vite sensate, perché la vita ha senso se è uno stile di vita, un qualsivoglia stile di vita, e anche la vita di chi passa tutta l’esistenza a collezionare tappi di bottiglia, o a contare fili d’erba nel giardino ha la stessa significatività della vita di Lawrence Olivier o di Giorgio Perlasca.

        Ci sono vari modi di rispondere, o di resistere, a queste critiche, e di salvare un progetto à la Woody Allen. Si potrebbe negare che il capitalismo privi di scelte e di capacità di progettazione autonoma della propria vita, o si potrebbero indicare vie per attenuare o addirittura evitare la massificazione capitalista. Si potrebbero difendere forme di soggettivismo moderato – capaci di accogliere una relativa diversità di stili di vita, senza spingersi sino ad accettare come significativa una vita passata a contare fili d’erba. Si potrebbe accettare che le vite felici e morali siano le uniche significative – e dichiarare insensate vite come quella di Adolf Hitler o quella di un neonato anencefalico.

Tutti questi tentativi sono stati fatti, con maggiore o minore successo o brillantezza. Ma è possibile una mossa ancora più radicale. Si può negare del tutto il modello dello stile di vita, non tanto perché lo si reputi impossibile nell’era massificata del capitalismo post-moderno, oppure per la sua inautenticità, quanto proprio perché è un passo falso, una falsa partenza. Si potrebbe sostenere, o almeno questo vorrei suggerire, che la vita significativa sia una vita senza stile, sia quasi qualsiasi vita, e che le cose migliori della vita sono tutte, o quasi, le cose che accadono nella vita.

Non ci sono argomentazioni rigorose, o esclusivamente concettuali, per una tesi del genere, ammesso che si tratti di una tesi – e non di una provocazione. Ma questo non vuol dire che la tesi non abbia un contenuto analitico, e delle conseguenze che si possono articolare analiticamente. Vediamo, prima, quale potrebbe essere il nucleo di significato dell’idea che una vita senza stile possa avere senso, e che le cose migliori della vita siano quasi tutte, o la gran maggioranza, di quelle che compongono una vita.

Quest’idea, come è avvenuto anche nel caso dell’idea del significato della vita come stile di vita, si può cogliere immediatamente se si guarda a certi esempi di narrazione di una vita. Quella di Manhattan, tutto sommato, è la narrazione di una vita – come accade, peraltro, in molti film e in molti di quelli di Woody Allen. Quello che la lista medesima stilata da Davis sul suo divano mette in scena, con le allusioni che ogni elemento della lista contiene, è appunto la sua vita, la sua vita specifica e idiosincratica. Il compiacimento del dire che le cose che rendono una vita degna, o significativa, per Isaac Davis sono proprio quelle che rendono la sua vita sua, sono i tratti più peculiari della sua esistenza, può sembrare di volta in volta arrogante o esagerato. Una reazione immediata è dire che ci sono altri stili di vita, molto differenti, anzi opposti, che sono egualmente significativi. La reazione equivale a dire: “A me non piacciono affatto i film svedesi, e non vivo a New York, per cui i granchi li mangio, se li mangio, in una trattoria pugliese; ma la mia vita mi piace moltissimo, e non la ritengo né sprecata né poco significativa”. Oppure, si potrebbe dire: “Ma a Isaac piacciono i film svedesi non in maniera genuina, ma perché nel suo ambiente di riferimento sono quelli i film che ti devono piacere. La sua vita non è affatto godibile, ma è solo stereotipa”. O ancora: “Ma ci sono cose più serie, e condivise, come gli affetti e le relazioni, ad esempio: queste sono le cose per cui vale la pena di vivere e che rendono la vita significativa”. E il finale di Manhattan (che non svelo qui, per i pochi che non l’avessero ancora visto) va proprio in questa direzione. Ma queste reazioni articolano in maniera più immediata e diretta le critiche presentate prima all’idea della vita sensata come stile di vita.

La reazione che vorrei articolare, l’alternativa che vorrei tracciare, è diversa, più radicale, come ho detto. L’idea è che qualsiasi vita – o quasi –, indipendentemente dal suo stile, abbia significato. Il che equivale a dire che anche le vite senza stile sono significative, e le cose migliori della vita sono semplicemente le cose che esistono in quasi tutte le vite. Non è la narrazione di una vita a dare significato alla vita, ma la narrazione della vita, semplicemente.

Per cogliere l’idea, si possono considerare due opere letterarie recenti. Nel 1993, Giuseppe Pontiggia scrive Vite di uomini non illustri una serie di biografie immaginarie di persone comuni, riportate con l’abituale stile nitido dello scrittore, imitando una prosa giornalistica. Per avere un esempio, si tratta di biografie come quella di Antonio Vitali, che, ossessionato dal senso di colpa nei confronti della madre e della moglie, viene colto da infarto quando finalmente riesce a liberarsene, grazie all’amante, si licenzia e fa per la prima volta un viaggio da solo in Egitto. Oppure quella di Mauro Terzaghi, il quale, tornato zoppo dalla prima guerra mondiale, fa una carriera di successo nel ramo immobiliare, morendo di tifo addominale. In un’intervista, Pontiggia chiarisce la natura dell’operazione compiuta nel libro – prendere il modello biografico tradizionale (Plutarco, per dire, o il Dizionario biografico degli italiani) e applicarlo a biografie non eccezionali, preservando il linguaggio del modello, adattando all’ordinarietà il registro della straordinarietà, una specie di storia evenemenziale applicata alle biografie. Pontiggia dice di aver adottato “quel linguaggio […] di memorabilità storica che viene riservato ai protagonisti nelle vite illustri”.

Se si leggono queste pagine di Pontiggia, si rimane colpiti per un effetto di continuità, per così dire: ognuna di queste vite è allo stesso tempo ordinaria, normale, ma anche memorabile, significativa nella sua specificità. Ognuna delle vite che Pontiggia ha costruito – ed è importante che si tratti di biografie immaginarie, ovviamente – è sensata, in un certo senso, proprio perché è ordinaria, perché ci sono gusti comuni, vicende ovvie e prevedibili, idiosincrasie condivise da milioni di persone. Sono vite senza stile, per l’appunto: ma hanno uno stile tutte insieme, come vite umane, come storie raccontabili.

A molti lettori accadrà, leggendo questo libro, di amarne i personaggi, di appassionarsi, e allo stesso modo di chiedersi perché, dato che nessuna delle vicende narrate è meno che prevedibile. Quello che Pontiggia ci mette, di straordinario – straordinariamente nitido –, è l’accuratezza e l’eleganza della descrizione, la sagace neutralità e prossimità ai fatti del suo linguaggio. Ed è come se su questo linguaggio, su questo raccontare, stesse tutto il peso del senso di queste vite ordinarie.

Nell’intervista Pontiggia dichiara il suo debito con Edgar Lee Master. Nel 2010, Franco Arminio compone Cartoline dei morti, raccolta di brevissimi, ma intensissimi e fulminanti epitaffi – uno Spoon River rivisto. Qui non ci sono neanche nomi, né le vite si articolano. Non c’è la nitida terza persona di Pontiggia, ma tutto viene detto in prima persona, e si raccontano quasi solo i momenti estremi. Ecco alcuni esempi

:

Avevo appena finito di vedere la televisione. Mi sentivo debole. Mi sono disteso sul divano e ho sentito come una mano gigantesca che mi premeva il cuore. Ho pensato che stavo morendo e non avevo comprato il loculo. Sicuramente mi avrebbero messo sotto terra. E questo era l’ultimo fallimento della mia vita.

Mi hanno trovato sul pavimento. Ci pensavo ogni tanto di farla finita, ci pensavo appena sveglio, poi mi mettevo a fare qualcosa e l’idea mi passava. Una mattina non ho pensato a niente. Ho preso tutte le medicine che avevo nel tiretto. Ho bevuto gli sciroppi e tutte le gocce, ho ingoiato tutte le compresse. Mentre lo facevo speravo che arrivasse qualcuno e mi fermasse. L’ultima cosa che sono riuscito a fare è accendere la radio. Volevo sentire almeno una bella canzone.

Queste vite sono significative, e che lo sono dovrebbe essere chiaro a chiunque le legga. Ma sono vite ordinarie, appunto, chi le ha vissute non ha avuto il meglio della vita. Da queste vite non emerge nessuna lista, nessuna classifica. Anzi, la forza dei libri di Pontiggia e Arminio sta nella ripetizione e nella ripetitività. Leggendo e rileggendo, si ha quasi l’impressione di essere alle prese con un’unica vita – anzi, con la vita. E di trovarla significativa, interessante, forse anche attraente, godibile, sensata.

La conclusione potrebbe essere quindi che anche, ma forse soprattutto, le vite senza stile sono significative, e che ciò che distanzia la sensatezza della vita dalla felicità o dalla moralità è qualcosa di più essenziale – la vita pura, nuda. Le vite eccezionali – molto felici o infelici, o le vite di eroi morali – sono pur sempre vite, e condividono con le vite più normali una medesima struttura biografica, che è quella che conferisce senso al nostro vivere.

Si possono fare due obiezioni a quest’elogio della vita senza stile. Da un lato, si potrebbe pensare che si tratti di una visione talmente minimale e ampia da rendere significative anche vite che sarebbe difficile riconoscere come tali. Se qualsiasi vita biografica è una vita sensata, allora anche le poche ore di un bambino anencefalico, o le molte ore inutili di un demente che conta i fili d’erba del giardino hanno senso? Se le cose migliori della vita sono tutte le cose della vita, anche quelle vite sono accettabili, per chi le vive.

A quest’obiezione si può rispondere dicendo che la sensatezza è questione di narrazione, come già detto – e che c’è una specie di grado zero della narrazione, al di sotto del quale il senso viene meno. Vite come quella del bambino anencefalico o del contatore di fili d’erba forse non sono narrabili – neanche da un narratore capace. E questo ne spiega l’insensatezza. Che poi quest’insensatezza le renda anche infelici o prive di valore morale è questione ulteriore, che qui non si considera.

Da questa risposta, però, deriva una seconda obiezione. Si potrebbe pensare che nel mio elogio delle vite senza stile, o meglio nella tesi secondo cui il significato della vita, e ciò che di meglio c’è nella vita, sta nella struttura narrativa che l’esistenza assume, io stia escludendo vite sconclusionate, senza coerenza narrativa, vite doppie o segnate da fratture dell’identità. Ma questo non è vero, né necessario.

Ciò che ho chiamato grado zero della narrazione, come si può vedere se si scorrono le vite narrate da Pontiggia e Arminio, è solo la raccontabilità minima di un’articolazione nel tempo e di una vita minimamente mentale. In questo modo, si possono raccontare tutte le vite che hanno un minimo di articolazione nel tempo – anche le vite di personalità multiple, anche le vite di persone afflitte da demenze e altre forme di malattia, o presunta malattia, mentale, come dimostrano i molti libri di Oliver Sacks.

Quel che rende la nostra vita sensata, e degna di essere vissuta, insomma, è nient’altro che sia una vita, una vita vissuta, biografica. What is best in life is life.

 

CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA STORIA DELLE IDEE

Lascia un commento