UNA VITA BUONA: CON LE ASPIRAZIONI E LA MEMORIA

PAOLO CASCAVILLA

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Chi non ha mai sognato una vita migliore? Non verso un futuro perfetto, ma verso un futuro possibile?  “La vita di tutti gli uomini è attraversata da sogni a occhi aperti una parte dei quali è solo fuga insipida, anche snervante, anche bottino per imbroglioni; ma un’altra parte stimola, non permette che ci si accontenti del cattivo presente” (E. Bloch).

Le grandi utopie che elaboravano disegni per cambiare il mondo, trasformando il modo stesso di vivere insieme, e anche le riforme che tendevano (e tendono) a rendere la società più giusta, orientate a che la vita dei viventi oggi non distrugga quella dei viventi futuri, sembra che abbiano lasciato (e lascino) il posto solo alle utopie della tecnica.

Oggi vi è attenzione a un gruppo di idee e comportamenti dominanti: Facebook, giovanilismo, comunicazione, organizzazione del consenso, specializzazione dei saperi, fede acritica nello sviluppo, produzione continua di merci. La società sembra un meccanismo con il pilota automatico, con una paura continua che gli equilibri siano alterati. Sembra che non ci sia posto per una revisione, anche parziale: un orientamento per ricucire, una attenzione rivolta a prendersi cura di sé, degli altri, del mondo. Se invece di sostituire il mondo si accettasse il compito più saggio e durevole di aggiustarlo? Si potrebbe in tal modo pensare a una nuova famiglia di idee: rigenerazione, riuso, recupero. Dall’uomo massa volgersi al gruppo, alla comunità, alle relazioni, alla cura del tempo. Coltivare un’idea di finitezza e su questa far crescere l’etica e la politica, aspirazioni e senso della realtà. Papa Francesco propone altre parole, che possono affiancarsi a quelle citate: misericordia, cura, empatia, consolazione, tenerezza.

Il futuro è difficile da immaginare e i mutamenti di questi ultimi decenni (rivoluzioni tecnologiche, trasformazioni climatiche, disuguaglianze economiche, migrazioni…) generano una situazione permanente di incertezze e timori.

Una paura che, se elaborata, può essere il preludio alla responsabilità, una precondizione di un’etica del futuro, e può divenire premura e cura per il mondo. Certo ci vuole il supporto di un pensiero capace di anticipazione, di immaginazione, per trasformarsi in una paura speciale, che spinga a uscire fuori nell’agorà (un’arte che sembra oggi svanita), cercare gli altri, ragionare insieme, costruire un percorso comune, con curiosità, desiderio di conoscenza, consapevolezza del comune destino di vulnerabilità. Un pensiero in cammino verso nuove aperture e forme di esistenza: i giovani che mettono insieme un’associazione per gestire un luogo, una comunità di quartiere che si impegna a curare un parco, anziani che promuovono incontri intergenerazionali, la scelta consapevole di avere un figlio. Per trascendere e aspirare è necessario accettare la realtà, che non ha nulla a che fare con la rassegnazione, ma sapere che si deve partire da quello che c’è, per prendersene cura.

Le aspirazioni di cui parla Appadurai non sono sogni, ideali, utopie. Sono desideri disciplinati e realistici, raggiungibili da una comunità, che si impegna con pazienza e determinazione. Coltivare aspirazioni è essenziale per la democrazia. Bisogna partire dalle condizioni sociali, dalla vita quotidiana, conoscere le risorse, e soprattutto i vincoli, per potere, senza illusioni, prefigurare il futuro.

Le aspirazioni per disegnare un cambiamento possibile e un futuro realistico crescono in un lavoro collettivo; sono coinvolti protagonisti eterogenei che devono acquisire la capacità di esprimere ciò che desiderano, avere la voce (voice) per discutere, protestare, partecipare, mettersi in gioco con la propria soggettività e responsabilità.

Aspirazioni e voce sono alleate e si rinforzano a vicenda. Tramite la protesta consapevole prende forma e si rafforza la capacità di aspirare, ed è attraverso l’esercizio della capacità di aspirare che si può accrescere la possibilità di esprimere le proprie idee e la propria protesta. La voce, prima che una virtù democratica, è un’attitudine culturale e comporta un repertorio di strumenti linguistici, metafore, forme organizzative, ironia, autoironia e uno spirito “carnevalesco”, in grado di esprimere rabbia e allegria, immagini piacevoli di futuro.

Il film NO- I giorni dell’arcobaleno racconta il Referendum indetto, in Cile, nel 1988, per esprimersi sulla continuità del governo di Pinochet. Il dittatore era convinto della vittoria e per la prima volta le porte della televisione furono aperte anche all’opposizione, i cui leader pensavano che era giusto e normale mostrare le persecuzioni, le torture, le interviste alle mamme dei figli scomparsi. E si iniziò così. Poi però l’esperto della campagna elettorale si accorse che non funzionava. Perciò, nonostante le perplessità di alcuni membri dell’opposizione, il messaggio mutò. Le immagini dei torturati e le colpe della dittatura passarono sullo sfondo, in primo piano ci fu una proposta di speranza e di gioia. Lo slogan: “Chile, la alegria ya viene”. Vinsero i No con il 55%, inaspettatamente. E vinsero perché aumentarono i votanti, attratti da quel messaggio di speranza.

Le aspirazioni contribuiscono a dare al presente la sua coloritura. Chi aspira a qualcosa è più vigile di chi non aspira, è attento alle opportunità, alle informazioni, come lo è chi ha un’idea o un progetto in testa o anche chi cerca lavoro rispetto a chi si è rassegnato.

Le aspirazioni nel Sud.

Lo sviluppo non è da intendersi solo in senso economico; è dare dignità, costruire una comunità, fare un paese civile, trovare sempre nuove ragioni per stare nel mondo. Bloccare l’emorragia dei giovani che partono non significa operare solo sul fronte del lavoro, ma anche dei rapporti sociali. Coloro che restano o tornano si sentono calamitati in una vita di richiedenti e di spettatori. Le comunità locali hanno bisogno di una “retorica” che orienti verso obiettivi e speranze condivise per costruire un racconto di benessere per tutti, apprezzamento della qualità, delle competenze, rispetto per la dignità delle persone, indignazione per coloro che il lavoro non lo meritano (assenteismo, clientelismo, corruzione).

Una “retorica” che potrebbe tirar fuori, specie nei giovani, le leve combattive del carattere e cioè orgoglio, ingegno, critica, abnegazione, gratuità, cultura disinteressata che sono le sole cose che rendono gli esseri umani cittadini.

L’insufficienza delle classi dirigenti non viene corretta, purtroppo, dalla vitalità popolare, dalla ingegnosità e creatività della gente, piuttosto è sorretta dalla rassegnazione e adattabilità popolare, dalla tendenza ad adeguarsi.

Vi sono estese zone grigie, che non aiutano a crescere.  Ma ci sono gruppi, “minoranze etiche” che parlano di diritti e anche di doveri, chiedono il buon governo, fatto da persone che studiano, ascoltano, cercano di migliorare le competenze, guardano agli interesse collettivi (G. Fofi). Non denunciano solo i mali del Sud, ma fanno proposte, manifestano un’immaginazione aperta al futuro.

L’esempio di Matera (capitale della cultura nel 2019) è significativo: il coinvolgimento dell’intera comunità è stato fondamentale per conseguire un obiettivo condiviso e per tirar fuori idee e risorse latenti.

Tra le aspirazioni il diritto alla città e ai beni comuni. Per i bambini del Sud la città (la strada) è sempre stata la palestra formativa e la loro assenza è oggi significativa. Essi svolgono un ruolo sociale simile al canarino, che i minatori portano in galleria. Se l’uccellino non sopravvive, la morte si avvicina per tutti. Se una città non è amica dei bambini, non è amica di nessuno (G. Amendola).

Vi è una crisi oggettiva dell’educazione (sviluppo delle capacità psicomotorie, sociali, emozionali, cognitive), che non offre quelle competenze che si costruiscono nell’attività libera e spontanea, quotidiana, fatta di atti ripetuti e di sorprese.

Le piccole commissioni nei pubblici esercizi commerciali presenti nelle strade e nel quartiere, andare a scuola a piedi, gli incontri e i giochi spontanei e di gruppo… La perdita di queste occasioni sottrae esperienze, di cui non si misurano le conseguenze, e che non possono essere sostituite con le proposte preconfezionate dei tanti impegni extra scuola.

 

La memoria.

I luoghi acquisiscono un valore, un’anima con un processo duraturo di presenze, di cura, di affetto che viene praticato dalle generazioni che si susseguono. Ci sono i luoghi cui si è legati: un muretto, la villa, le panchine, o anche un olmo, una fontana, una scalinata, un viale. Luoghi dove ci si ferma perché c’è un posto per sedersi o c’è l’ombra o perché da quel luogo si vede il mare, le barche. Spesso non c’è una spiegazione. Si sa solo che in quel luogo si sta bene, e quando si è lontani lo si ricorda volentieri. Sono luoghi che ci fanno sentire a casa.  

Anche gli oggetti che usiamo con semplicità possono farci sentire a casa. Sono però necessarie persone che sappiano restituire senso a determinati oggetti e gesti, che sappiano ricongiungere i destini delle persone e ridare armonia. Aiutarle a star bene.

È la cuoca misteriosa ne Il pranzo di Babette di Blixen o la suora ne L’ussaro sul tetto” di Giono.

Di fronte alla devastazione provocata dal colera, e alle persone che muoiono sole, per terra, è lei, una suora grande e grossa che rigenera l’ambiente, rende domestici gli oggetti, la casa e allontana il maleficio che incombe sui corpi. Pochi gesti, semplicissimi… e quando lo spettacolo è orribile: si siede, si mette il macinino tra le gambe e comincia a macinare il caffè.

Una suora, il macinino del caffè, e si compie qualcosa di sacro, antico, sacerdotale. L’umanità torna ad essere tale, viene riscattata la condizione di ferinità cui l’ha condannata l’epidemia e la dissoluzione sociale. L’atto di macinare caffè è un rito e il macinino era presente in tutte le case.

Ci sono altri oggetti e gesti sacri. Le mani che tagliano il pane (era il padre che lo faceva, le pagnotte pesavano 4-5 chili), legano un fagotto, girano la manovella del macinino, quelle dei pastori che danno forma al formaggio. I gesti dei pescatori che rammendano le reti, quelli di chi impasta il pane o prepara la pizza.

La memoria affiora soprattutto quando si è lontani. Sono riconoscibili i giovani e le persone che studiano e lavorano fuori (dove cercano di dare corpo alle proprie aspirazioni) per come, quando tornano, gustano i cibi ritrovati, o passeggiano e guardano i luoghi. Lo fanno con un piacere che si trasmette, con umiltà e senso di gratitudine.

Nel 1951 esce un racconto di Arthur Miller intitolato Monte S. Angelo (paese sul Gargano e tra i più noti santuari europei). Un racconto su un viaggio compiuto dallo scrittore con un amico italo americano nel 1948.  Due i personaggi: Bernstein – Miller e Vinny – l’amico. Si fermano in una locanda. Si siedono e arriva un uomo. Bernstein prova una strana familiarità: l’abbigliamento, il cappello nero, i gesti, lo sguardo. Bernstein non riesce a mangiare: lui conosce quell’uomo. Sente un impulso a parlargli. L’uomo non è del posto, è “di poco lontano”. È un venditore di stoffe, la cameriera porta un’enorme pagnotta. A questo punto Bernstein con sicurezza dice che è ebreo. Vinny lo guarda perplesso. “Per il modo in cui ha fatto quel fagotto. E’ esattamente il modo in cui faceva un fagotto mio padre. E mio nonno. Tutta la nostra storia è far fagotto e andar via. Nessun altro sa essere così tenero e delicato nel fare i fagotti. Quello è un ebreo che lega un fagotto”.

L’uomo si chiama Mauro Di Benedetto; viene invitato a bere un bicchiere di vino, ma non accetta, deve essere a casa prima del tramonto, ed è venerdì. “Per tutta la vita sono tornato a casa per l’ora di cena, il venerdì sera, e mi piace arrivare prima del tramonto. Deve essere un fatto di abitudine, immagino. Vedete, ho una strada segnata. Prima la facevo con mio padre, come lui l’aveva fatta con suo padre. Siamo conosciuti, qui, da molte generazioni. E mio padre il venerdì sera è sempre tornato a casa prima del tramonto. È un’abitudine di famiglia, immagino”.

“Il Sabbath comincia al tramonto del venerdì e porta a casa il pane fresco per il Sabbath”. Bernstein è carico di meraviglia, e non ha più dubbi. Ha di fronte un ebreo.

Usciti dalla locanda, Bernstein sembra rinato: il nome, il modo in cui confezionava il fagotto, per conservare il pane, il rientro a casa al tramonto del venerdì, lo inducono a dire che non solo si comportava come un ebreo, ma come un ebreo ortodosso, senza averne la consapevolezza.

Avverte un sentimento di orgoglio, forse solo per il fatto che “sotto la glaciale crosta della storia un ebreo era segretamente sopravvissuto, spogliato della sua consapevolezza, ma preso per sempre in quell’inaudita impudenza di osservare il Sabbath in un paese cattolico, sì che la sua stessa inconsapevolezza finiva per essere una prova, prova muta come una pietra, di un passato ancora vivo. Un passato per me, pensò Bernstein, attonito nel constatare quanta importanza ciò avesse per lui, quando in realtà non aveva mai avuto una religione, e nemmeno, ora se ne accorgeva, una storia”.

La presenza ebraica era numerosa nel territorio, già prima del Mille. Così come le conversioni forzate, numerose dopo il 1300.

 

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA SOCIOLOGIA STORIA DELLE IDEE

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