LOVE AND THE POLIS (A BANCHETTO CON CARRIE BRADSHAW, PLATONE E AYN RAND)

ELENA IRRERA

21622205_10159298505425453_1157267921_n

A distanza di circa vent’anni dalla prima messa in onda nelle tv di tutto il mondo, Sex and the City continua ad occupare un posto di primo piano nell’ormai sconfinato panorama delle serie televisive statunitensi. Le vicissitudini di Carrie, Charlotte, Miranda e Samantha mettono ancora in luce le difficoltà incontrate da ogni donna nel legittimo tentativo di schivare le derive di una vita mono-dimensionale, perseguendo (a volte con successo, altre volte in maniera totalmente infruttuosa) una possibile coesistenza tra la propria realizzazione professionale e l’auspicio di una vita sociale, affettiva e sessuale pienamente soddisfacente.

Per quanto difficile sia rimanere indifferenti all’intraprendenza e alle fragilità delle quattro donne, decisamente impossibile è resistere alla capacità di seduzione di colei che, distaccandosi dal ruolo di puro sfondo per le vicende rappresentate, assurge a protagonista indiscussa dell’intera storia: la Manhattan delle torri gemelle (almeno fino alla quarta stagione della serie) e di speranze ancora intatte; la Manhattan dell’Upper Class, dei suoi eventi mondani da copertina patinata e dei cocktails sorseggiati nell’attico di un grattacielo nella Fifth Avenue; un incessante laboratorio di mode, valori, desideri e dinamiche relazionali imprevedibili e ben poco ortodosse. Ma la Manhattan di Sex and the City è anche alveo di accesi contrasti. Da un lato, le perversioni glamour di un’umanità disinibita, ma incapace di guardarsi in faccia. Dall’altro, il coraggio e l’autenticità di chi rivendica una vita semplice, una famiglia propria, un amore sano, capace di far star bene, e non di intossicare, chi lo vive. E non è raro, nel corso delle sei stagioni della serie tv, riscontrare che questi contrasti vengano sperimentati anche all’interno dalla stessa, singola persona,

È questo ad esempio il caso di Carrie Bradshaw, co-protagonista e voce narrante di ogni episodio della serie. Carrie potrebbe a buon diritto essere considerata una perfetta sintesi delle peculiarità delle sue tre amiche. Sessualmente audace come Samantha, dedita strenuamente al proprio lavoro come Miranda, ma anche terribilmente romantica e sognatrice come Charlotte, Carrie vive la propria vita con una vorace curiosità, tentando di equilibrare l’istintualità delle sue reazioni emotive con lucide analisi sulla natura, il senso e le modalità dell’amore. È il suo stesso lavoro a richiederglielo. Perché Carrie è una scrittrice che possiede una sua propria rubrica nel New York Star (intitolata, per l’appunto, “Sex and the City”). A dispetto del titolo della rubrica, agli occhi dei lettori newyorkesi, Carrie è esperta di “cose d’amore”. Perché Carrie, a dire il vero, non si occupa soltanto di scandagliare abitudini sessuali. Carrie vive l’amore in tutte le sue dimensioni (soprattutto quelle più conflittuali) e si pone domande su di esso, senza tuttavia pervenire a conclusioni definitive e, soprattutto, senza comprendere a pieno la differenza tra una sana follia d’amore e una dipendenza che avvelena la vita. In quanto a dipendenze, per altro, Carrie non scherza. La prima è quella per le scarpe (possiede uno sterminato assortimento di costosissime Manolo Blahnik, oggetto dei suoi desideri più proibiti); la seconda è quella per Mr Big. Big è un fascinoso uomo d’affari, bello, di classe, ricco sfondato e accanito praticante della mondanità newyorkese. Un narciso bello e dannato, casanova impenitente che sostiene di essere restio ai legami stabili e che, anche senza essere intenzionalmente sadico o malvagio, finisce per manipolare Carrie con una facilità disarmante, sottoponendola ad uno snervante susseguirsi di convivenze passionali e sofferte separazioni.

A tratti, Carrie sembra comprendere (e perfino tenere a mente per un arco di tempo superiore ai cinque minuti) quanto nociva sia la relazione tra lei e Mr Big. Ciò nonostante, da essere umano aristotelicamente acratico, Carrie non agisce in maniera consona alla visione del bene che lei stessa, almeno in via teorica, possiede. Proprio come l’ossessione per le scarpe la porta spesso a sforare i limiti della sua carta di credito pur nella consapevolezza che tutto ciò non sia un bene, la passione amorosa per Mr Big la induce a scardinare un’intera palizzata di quei limiti che un minimo sindacale di dignità personale (oltre che di buon senso) dovrebbe essere in grado di tenere ben saldi. E non ci si soffermi a riflettere sul lieto fine della serie – uno dei più plateali insulti all’intelligenza degli spettatori. È risaputo che un personaggio come Mr Big, che soffre di disturbi narcisistici della personalità, sia strutturalmente incapace di ribaltare gli scenari di un amore tossico. Assolutamente irrealistico è immaginare un “e vissero felici e contenti” tra un uomo simile e la donna alla quale costui ha rovinato l’esistenza fino a quel momento. Nessuno che abbia amato veramente Sex and the City potrà mai prendere sul serio l’idea di Carrie finalmente felice con l’uomo che l’ha ripetutamente umiliata e tradita, preferendole perfino una stratosferica supermodella poco più che ventenne (che senza reticenza alcuna porta all’altare con tanto di cerimonia sbandierata nel New York Times. Il fatto che il matrimonio con la modella finisca poi in divorzio è un trascurabile dettaglio). Prendere sul serio la conclusione di Sex and the City significa soltanto immaginare che anni di percorsi di riflessione e di sofferenza, anziché far maturare Carrie in direzione di una versione meno egocentrica di se stessa, siano stati vanificati da un’inspiegabile volontà di continuare ad essere la donna-zerbino di un uomo per il quale si è sempre stata una sgualcita “seconda scelta”.   

Eppure, è un dato di fatto che Carrie, nel corso delle sei serie di Sex and the City, delle domande sull’amore se le sia poste, non solo per sbarcare il lunario con la sua rubrica, ma anche per vivere meglio. Solo per citarne alcune:

Quando si tratta di borse, uomini e città, l’esteriorità è davvero ciò che conta? (Stagione 3, episodio 14).

Le relazioni sono la religione degli anni ’90? (Stagione 1, episodio 12).

Possiamo frequentare qualcuno al di fuori della nostra “casta sociale”? (Stagione 2, episodio 10).

In una città dalle grandi aspettative, arriva forse il momento di accontentarsi solo di quello che puoi ottenere? (Stagione 1, episodio 9).

In una città come New York, con le sue infinite possibilità, la monogamia è troppo da chiedere? (Stagione 1, episodio 7).

 

È dalla qualità cervellotica delle domande di Carrie, ancor prima che dal frivolo tenore delle sue risposte, che emerge il raziocinio di una persona perennemente assorbita da se stessa, nonché incapace di accedere ad un senso autenticamente filosofico dell’amore. Ad ogni modo, Carrie non è una sprovveduta, e le sue riflessioni rivelano l’esistenza di un nesso profondo tra la città di appartenenza e le modalità di sperimentare l’eros.

C’è da dire che le protagoniste di Sex and the City vivono in una Manhattan che, essendo tutto e il contrario di tutto, sembra affrancarsi da ogni responsabilità nei confronti delle scelte dei suoi abitanti. A dispetto della regolarità del suo impianto di strade longitudinali, Manhattan evita accuratamente di dispensare criteri sul percorso più giusto e sano da seguire, e la sterminata varietà di opzioni di vita disponibili incide inevitabilmente sullo sviluppo del senso personale delle possibilità e limiti di azione di ciascuno. Se una libertà eccessiva causa smarrimento, è altamente probabile che ci si lasci irretire da apparenze e abbagli artificiali. La maggior parte dei cittadini newyorkesi rappresentati in Sex and the City – anche (e, forse, soprattutto) quelli che godono di un elevato status sociale e professionale – trova nella mondanità più vacua il proprio habitat naturale, influenzando così la natura stessa della città e pervadendo di un convulso flusso di patemi d’animo e psichedeliche frenesie la prevedibile rigidità urbanistica di quest’ultima.

Un’eloquente – e filosoficamente più fondata – prefigurazione dei condizionamenti reciproci tra individuo, eros e città è fornita da Platone nel Simposio. Il dialogo platonico che ha come oggetto la ricerca della natura, ancor prima che degli effetti dell’amore, rivela che la natura dell’eros è questione autenticamente filosofica, e non un semplice ginepraio di argomenti da rubrica settimanale di un qualsiasi (seppur patinato) tabloid newyorkese. A dispetto di Carrie Bradshaw, che utilizza se stessa e le sue amiche per ottenere interessanti spunti di scrittura, il Socrate rappresentato nei dialoghi platonici si confronta e interagisce con i propri interlocutori in uno spirito di rispettosa valorizzazione delle idee e delle peculiarità caratteriali di ciascuno, incoraggiando in questo modo una modalità di ascolto delle altrui posizioni e di comunicazione delle proprie che tenda alla crescita personale di ciascuno dei soggetti coinvolti nella ricerca. Socrate non lascia alcuno scritto, e fa in modo che la verità sull’amore, anziché essere comunicata da una cervellotica esibizione di parole, emerga come una scintilla che scaturisce da numerose discussioni e una comunanza di vita (in conformità a quanto sostenuto nella Lettera VII di Platone, passo 341a7-d2, in riferimento alla verità sui “princìpi”). Già nel Fedro di Platone, Socrate si rendeva sostenitore della necessità e della superiorità di un tipo di discorso diverso da quello scritto in senso canonico. Esiste infatti un genere di discorso scritto che si rivela incapace di dialogare in senso autentico con i propri lettori, fallendo nel tentativo di guidarli ad una conoscenza capace di tradursi in vero e proprio percorso di “vita buona” e felice. Al contrario, esiste la possibilità di un altro tipo di discorso scritto, ossia uno che «viene scritto, mediante la scienza, nell’anima di chi impara, e che è capace di difendersi da sé» (Fedro, 276a1-5; traduzione di Giovanni Reale, contenuta in G. Reale (a cura di), Platone, Fedro, Milano: Bompiani, 2000). Il Socrate Platonico spiega che tale discorso è «il discorso di colui che sa, il discorso vivente e animato, del quale il discorso scritto può dirsi, a buona ragione, un’immagine» (Fedro, 276a5-7). La distinzione tra i due tipi di discorso formulata da Socrate nel Fedro è stata interpretata da molti in termini di un’opposizione tra discorso scritto e discorso orale (Cfr. R.H. Hackforth, Plato’s Phaedrus, Cambridge: Cambridge University Press, 1952, pp. 162-4; G.J. de Vries, A Commentary on the Phaedrus of Plato, Amsterdam: Hackert, 1969, pp. 20-22. Si veda in particolare il paradigma interpretativo proposto dagli esponenti della scuola di Tubinga, il cui principale rappresentante è H.J. Krämer. Si veda ad esempio il suo Platone e I fondamenti della metafisica. Saggio sulla teoria dei principi e sulle dottrine non scritte di Platone, Milano: Vita e Pensiero, 2001). A dispetto di tale interpretazione, è probabilmente più ragionevole assumere che, come sostenuto da una minoranza alternativa di studiosi di Platone (Cfr. K.M. Sayre, Plato’s Literary Garden. How to Read a Platonic Dialogue, Notre Dame: University of Notre Dame Press, 1995; C.J. Rowe, Plato and the Art of Philosophical Writing, Cambridge: Cambridge University Press, 2007. R. Burger, Plato’s Phaedrus: A Defense of a Philosophic Art of Writing, Birmingham: University of Alabama Press, 1980, pp. 108-109), Platone intenda profilare per bocca di Socrate non una discrepanza tra oralità e scrittura, bensì una distinzione tra due tipi di scrittura: uno scritto “non filosofico”, incapace di dialogare con il lettore e di guidarlo alla conoscenza del bene, e uno scritto “filosofico”, ossia uno che non abbia bisogno di essere difeso dal suo autore, ma che trovi in se stesso, nella sua struttura, tematiche e finalità le condizioni per offrirsi ai lettori come interlocutore animato. Particolarmente confacente a quest’ultima interpretazione è il fatto che, nelle righe successive del Fedro, il Socrate platonico delinei un’analogia tra l’autore di discorsi filosofici e un agricoltore provvisto di senno, meticolosamente impegnato nel piantare quei semi che gli stanno a cuore e dai quali egli desidera che nascano frutti. Proprio come un agricoltore, che instillerà i semi dei quali si preoccupa in un luogo adatto e secondo tutte le regole dell’agricoltura, l’autore di discorsi vivi e animati, che «ha la scienza del giusto, del bello e del buono» (Fedro, 276c1) seminerà “giardini di scritture” (Fedro, 276d1).

        Ogni dialogo platonico, considerato non solo di per sé, ma anche in relazione a ciascuno degli altri, sembra rispondere all’idea di uno scritto capace di interloquire con il lettore di millenni fa, così come con quello di oggi, attraverso le fictions e i personaggi proposti, risultando sempre attuale e impiantando dei semi di bene. Perché l’amore, quello sano, è per Platone quel sentimento capace di far progredire chi lo vive verso la realizzazione delle proprie potenzialità umane, permettendogli/le di essere felice. L’argomento di discussione offerto dal Simposio, quello di un elogio dell’Eros capace di ricercarne i tratti filosoficamente essenziali, mette in scena i momenti più rilevanti di una riunione conviviale tenutasi in onore del poeta tragico Agatone, e della vittoria ad un concorso di composizioni tragiche che lo stesso riporta nel 416 a.C. nell’occasione delle feste Lenee. Ciascun partecipante al banchetto è chiamato a cimentarsi nella produzione di un discorso celebrativo sull’amore, e ogni discorso prodotto lascia aperto un varco sulla personalità e l’orizzonte valoriale di colui che lo confeziona.

La ricerca sull’amore nasce e si sviluppa nella casa di Agatone (greco “Agathōn”), nome di battesimo che, significando “il buono”, prefigura l’idea del bene in sé. L’amore stesso, infatti, è concepito da Socrate come ascensione verso il bene sommo, inteso come oggetto di conoscenza e paradigma di un’azione umana che sia virtuosa non soltanto in apparenza. Attraverso le proprie parole, ciascuno dei personaggi raffigurati da Platone rivela molto spesso aspetti di quell’amore filosofico che Socrate ricerca e persegue nella sua vita di tutti i giorni. Capita tuttavia che, nei loro discorsi, emerga una valorizzazione di aspetti della realtà che il lettore attento di Platone può cogliere come deviazioni rispetto alla strada della conoscenza e della virtù. Un simile discorso si applica anche a quei personaggi che, seppur non partecipando al simposio nella casa di Agatone, sono ritenuti a conoscenza dei fatti avvenuti. A questo proposito, il primo personaggio, Apollodoro, interrogato da un omonimo amico sulla celebrazione simposiale tenutasi in casa di Agatone, si affretta a specificare di “non essere impreparato” a rispondere alle sue curiosità, e dichiara di aver ricevuto le stesse domande solo un paio di giorni prima dall’amico Glaucone, spiegando: «Infatti, proprio l’altro ieri mi capitò di salire in città da casa mia, dal (porto del) Falero…» (Simposio, 172a2-3; trad. Di Giovanni Reale). Attraverso l’immagine della salita, espressa dal verbo Greco aneimi e dal complemento di moto eis astu (“verso la città”), Platone sembra fornire al lettore significativi indizi per la ricostruzione di una vera e propria “topografia” della conoscenza, in base alla quale il raggiungimento della verità sull’amore risulta frutto di una progressione e un percorso ascensionale. Per raggiungere la meta, è necessario arrivare alla città, ed è altrettanto necessario comprendere che è nella dimensione della polis che la verità sull’amore può dare i suoi frutti più maturi. E la strada che conduce alla città, come afferma Glaucone, «sembra fatta allo scopo di permettere a quelli che la percorrono di parlare e ascoltare».

Apollodoro, da un lato, appare consapevole della capacità del pensiero filosofico di imprimere una direzione solida alla vita di un essere umano. Ad esempio, in Simposio 172e8-183a7 egli racconta di aver spiegato a Glaucone un paio di giorni prima che «[P]rima di allora [di frequentare Socrate] io mi aggiravo dove capitava, e mentre credevo di fare qualcosa, in realtà ero più disgraziato di chiunque altro, non meno di te ora, con la convinzione che hai che si debba fare tutto, tranne che filosofare!». Dall’altro, nel tentativo di criticare chi, a differenza di un vero filosofo, ritenga prioritari dei beni come il denaro e gli affari, Apollodoro non solo esprime rabbia nei confronti di costoro (sentimento che un filosofo autentico generalmente è portato a non coltivare), ma arriva perfino a contraddirsi, definendosi come una persona infelice nonostante l’attività filosofica praticata. È lo stesso compagno di Apollodoro a farglielo notare: «Sei sempre uguale, o Apollodoro! Infatti, parli sempre male di te stesso e degli altri; e mi sembra proprio che tu, eccetto Socrate, giudichi tutti quanti miserabili, a cominciare da te» (Simposio, 173d5-9).

Se è vero che (mi permetto in questa sede di scomodare il cantautore Niccolò Fabi e la sua canzone Il negozio di antiquariato), non tutte le strade sono un percorso, questo principio si applica chiaramente al caso di Apollodoro. Apollodoro si sta incamminando per strada, ma non conosce né la direzione esatta né i passi più adatti a percorrerla in senso costruttivo. Anche ammettendo che Apollodoro afferri coscientemente il nesso tra filosofia, salita e città, ciò che sicuramente non realizza ancora è che il parlare d’amore in senso autenticamente filosofico debba condurre ad uno stato di felicità che si nutre della moderazione, e che ripudia tanto emozioni aggressive quanto quegli elementi accessori dell’esistenza umana capaci di distrarre dalla ricerca della verità (a questo proposito, non è forse un caso che uno dei partecipanti al simposio, Erissimaco, chieda agli altri simposiasti di mandar via la suonatrice di flauto che aveva animato la serata fino a quel momento, prima di cominciare a parlare seriamente d’amore).

 Il primo discorso, quello pronunciato dall’oratore Fedro, è portatore di una cultura imperniata sul codice dell’onore e della competitività. Eros è presentato come forza capace di guidare correttamente coloro che ne sono pervasi verso azioni coraggiose di tipo supererogatorio, come quella di Alcesti, personaggio dell’omonima tragedia euripidea, che non esita a sacrificare la propria vita per preservare quella del suo sposo Admeto (Simposio, 179b6-d2), o Achille, che decide di uccidere Ettore per vendicare l’amato Patroclo pur sapendo che tale decisione lo priverà dell’immortalità (Simposio, 179e2-180a1). Eros, in questo caso, è potenza capace di instillare l’amore per il bello e, soprattutto, l’avversione per ciò che è brutto. Come Fedro spiega in Simposio, 178c5-d4, «…ciò che deve guidare per tutta la vita gli uomini destinati a vivere in modo bello, non può instillarlo in maniera altrettanto bella nè la parentela, nè gli onori, né la ricchezza, nient’altro come Erōs. Ma di cosa parlo dicendo questo? Parlo della vergogna (aischynē) per quel che riguarda le cose brutte e dell’amore degli onori (philotimia) per quel che riguarda le cose belle».

L’amore per una persona, prosegue Fedro, spinge colui che ama a dare il meglio di sé, e a offrire una rappresentazione di se stessi capace di suscitare il plauso e l’ammirazione dell’individuo amato. Le implicazioni politiche di un simile meccanismo psicologico vengono immediatamente recepite da Fedro, il quale arriva a concepire la città ideale come una costituita da “un esercito di amanti”: «perciò se si trovasse un qualche modo di formare una Città o un esercito di amanti e amati, non sarebbe possibile che costoro governassero meglio la loro Città, tenendosi lontano da tutte le cose brutte e gareggiando fra loro in onore; e, messi a combattere gli uni accanto agli altri, questi uomini, pur essendo in pochi, vincerebbero tutti gli uomini, si può dire! Infatti, un uomo che ama tollerebbe di essere visto abbandonare le schiere o gettare le armi da tutti gli altri ben più che dal suo amato, e all’essere visto da lui nel far questo preferirebbe molte volte la morte» (Simposio 178e7-179a9).

In un altro dialogo Platonico, il Protagora, quel senso del pudore personale che spinge chi lo coltiva ad evitare il male e a compiere atti rispettosi verso ciascuno degli altri membri della comunità, è menzionato dallo stesso Protagora come valore che, insieme alla giustizia, è capace di fungere da “principio ordinatore di Città e da “legame produttore di amicizia” (Simposio 322c1-6). Un simile valore, che nel mito narrato da Protagora è introdotto come dono che Zeus apporta ad un’umanità incapace di coesistere pacificamente, è distribuito equanimemente tra gli uomini, e non in maniera selettiva ed elitaria, come accade invece per le arti produttive. Quel senso minimo di decenza verso la propria persona che nel Protagora induce a non compiere ingiustizia nella città, nel discorso di Fedro contenuto nel Simposio ispira invece un ardimento ispirato alla ricerca dell’onore.

L’idea di bellezza che il Socrate Platonico concepisce, seppur capace di recepire l’importanza dell’onore, non si arresta ad esso come termine conclusivo della ricerca filosofica. Nel suo “farsi bello per andar bello da chi è bello” (Simposio 174a12-13) è contenuto in nuce quel principio di bellezza che (come emerge dalla rivelazione dei supremi misteri d’amore da parte della sacerdotessa Diotima – rivelazione riportata dallo stesso Socrate nel suo elogio personale di Eros in Simposio 201e2-212b1) induce gli amanti a conoscersi e a progredire insieme nella strada della virtù e della conoscenza, arrivando ad apprezzare il valore in sé di queste ultime e, presumibilmente, ad indentificare la felicità vera e propria con una vita dedita a tale forma di apprezzamento. Che Socrate non ami la pura facciata dell’onore appare chiaro dalla sua dichiarazione in Simposio 174a9-10 a proposito della sua assenza alla prima festa data da Agatone nella sua casa per la celebrazione della sua vittoria. Quest’ultima festa, infatti, a differenza di quella che ospita il simposio, era eccessivamente affollata, e Socrate, per sua stessa ammissione, è spaventato dalla folla (e dire che, se Carrie Bradshaw fosse vissuta nel quinto secolo a.C., avrebbe fatto carte false pur di intrufolarsi alla première della celebrazione di Agatone!).

Alle adulazioni mondane di individui dediti al fasto, Socrate preferisce contesti in cui poter proferire elogi mirati. Già nel secondo discorso sull’amore rappresentato nel Simposio, ossia quello pronunciato dal retore Pausania (Simposio 180c1-185c4), viene sottolineato (probabilmente sotto lo sguardo compiaciuto dell’autore Platone) che non ogni forma d’amore è degna di elogio. Eros terrestre, figlio di Afrodite Pandemia, è quel tipo di amore “volgare” e che “agisce come capita”, ossia l’“eros degli uomini che valgono poco”. Si tratta dell’eros di chi ama i corpi piuttosto che le anime, e di chi ama persone il più possibile prive di intelligenza, mirando solamente a fare ciò di cui si ha voglia, e senza preoccuparsi del fatto che si agisca in modo bello o brutto. Queste persone sono incapaci di discriminare il bene dal male. Al contrario, l’eros che si accompagna ad Afrodite celeste è del tutto privo di sfrenatezza. Esso è dipinto come un tipo di amore tra individui di sesso maschile, che rifugge l’inganno, ricerca la stabilità e si nutre dell’apprezzamento per l’intelligenza dell’individuo amato. Dal momento che ragazzi troppo giovani possono manifestare un principio di intelligenza spiccata senza riuscire a svilupparla nel corso del tempo, Pausania arriva ad auspicare l’introduzione di una legge che disciplini l’amore verso i giovinetti, e che impedisca di amare individui potenzialmente destinati a rivelarsi tutt’altro che intelligenti e virtuosi.

      Il discorso di Pausania rivela che ogni città, sulla base della propria impostazione valoriale e culturale, impone legislazioni sull’amore diverse da quelle in vigore in altre città. Mentre nell’Elide e nella Beozia è stabilito che l’amore tra uomini sia una cosa bella, senza addurre alcun tipo di giustificazione a riguardo, nella Ionia e in altre parti dove si vive sotto la dominazione dei barbari è invece stabilito come legge che questa forma di amore sia una cosa brutta, alla stessa stregua dell’amore per la conoscenza e di quello per la ginnastica. La motivazione sottostante un simile provvedimento lascia trapelare la potenza dirompente di un amore (oltre che di una conoscenza e disciplina) canalizzato in un agire rivoluzionario e sovversivo, capace di rovesciare forme di governo tirannico. Pausania adduce come esempio di tale potere l’amore di Aristogitone e l’amicizia di Armodio che, divenuti saldi, distrussero il dominio dei tiranni (Simposio 182c6-10).  Solidità e compattezza nella realizzazione di obiettivo comune, se unite a disciplina e alla ricerca di una libertà capace di attingere al vero e al buono, determina la distruzione delle catene che opprimono la città e ciascun individuo prigioniero delle proprie paure e desideri scomposti.

Non è un caso che Atene e Sparta vengano presentate da Pausania come luoghi in cui sia autorizzato un modello legislativo sull’amore omosessuale fondato su giustificazioni pedagociche. L’amore deve educare reciprocamente alla virtù, e concedere i propri favori ad un amante virtuoso è soprattutto per i giovani occasione per un percorso che sviluppi lo spirito critico e una formazione personale improntata alla crescita nel bene autentico.

L’eros “sano”, quello che Socrate descriverà nel suo elogio in termini di “eros philosophos”, permette una crescita umana capace di combattere e a sconfiggere un tipo di amore del tutto opposto: l’eros tyrannos. La questione dell’eros tyrannos viene affrontata dal Socrate platonico nel nono libro della Repubblica, precisamente nel contesto della discussione sulla presunta felicità del tiranno. Socrate si premura di dimostrare che il tiranno di professione, proprio per il suo essere dotato di un’anima tirannica, esibisce appetiti paranomoi, ossia contrari alle leggi (Repubblica IX, 571b7-8). L’uomo dall’anima tirannica non ha vergogna di vivere nella realtà quegli appetiti smodati e selvaggi che una persona misurata (almeno in apparenza) nella vita reale potrebbe lasciar vivere indisturbati soltanto nei sogni (quando notoriamente l’elemento razionale dorme). Nell’anima di un simile uomo si insedia una forma di amore tossico e dispotico, un eros che, assumendo il timone dei suoi desideri irrazionali, sopprime tutto ciò che si frappone ai suoi intenti, fino a raggiungere una forma di invasamento (mania) che può solo sfociare nell’ingiustizia. Come afferma giustamente Mario Vegetti, l’eros che domina un simile uomo, l’eros tyrannos «è il pericolo maggiore che incombe sul buon governo dell’anima e della città; può tenerlo a freno solo una pratica assidua e continuamente rinforzata della sophrosyne, la virtù dell’autocontrollo, lo sforzo di censura della epitymia [desiderio non innervato da una razionalità orientata al bene], che costituisce il massimo compito tanto dell’educatore quanto del legislatore» (Mario Vegetti, Il governo dell’anima, in La passione della ragione, a cura di G. Dalmasso, Milano: Jaka Book, p. 14).

        Platone, ad ogni modo, si guarda bene dall’approdare alla conclusione che la follia amorosa sia appannaggio esclusivo di un amore tossico. Dal momento che esistono vari tipi di tensione amorosa, esisteranno corrispondenti tipi di follia, e in numerose occasioni il Socrate platonico rivendica i benefìci e l’apporto costruttivo di una “sana” follia d’amore. Un eros autenticamente filosofico non può essere mero calcolo razionale, o forma di convincimento privo di tensione desiderativa. Eros philosophos preserva la sua natura enigmatica e a tratti indecifrabile, ed è forse questo l’incentivo più forte alla ricerca di ciò che non si conosce ancora veramente. Già nel Simposio, il commediografo Aristofane aveva adombrato un simile concetto dichiarando nel proprio elogio di Eros che «E quelli [gli amanti] che trascorrono insieme tutta la vita sono appunto costoro, i quali non saprebbero neppure dire ciò che vogliono ottenere l’uno dall’altro. Infatti, non sembrerebbe essere il piacere d’amore la causa che fa stare insieme gli amanti l’uno con l’altro con così grande attaccamento. Ma è evidente che l’anima di ciascuno di essi desidera qualche altra cosa che non sa dire, eppure presagisce ciò che vuole e lo dice in forma di enigmi (Simposio 192 c3-d2). È nel Fedro che Socrate sembra riprendere tale concetto, preservando l’idea dell’eros come di una dimensione altamente enigmatica ma, al tempo stesso, fornendo una spiegazione per il senso di indecifrabilità che attanaglia nelle sue morse gli innamorati. Nel Fedro, Socrate difende (con approccio metempsicotico) un ideale di amore come “mania” e “flusso”, fenomeni innescati da un’esplorazione del bello e del bene condotta da alcune anime prima di incarnarsi in vite e contingenze temporali. Come Socrate spiega in Fedro 251a2-12 fornendo una suggestiva fenomenologia dell’innamoramento, «colui che è di recente iniziato e che ha molto contemplato le realtà di allora, quando vede un volto di forma divina che imita bene la bellezza, o una qualche forma di corpo, dapprima sente i brividi, e qualcuna delle paure di allora penetra in lui. Poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non avesse timore di essere ritenuto in stato di eccessiva mania, offrirebbe sacrifici al suo amato come ad un’immagine sacra e ad un dio». Il contatto visivo con l’individuo bello sprigiona un effluvio capace di irrigare l’anima e di farle spuntare delle ali: «al vederlo, lo coglie come una reazione che proviene dal brivido, e un sudore e un calore insolito. Infatti, ricevendo attraverso gli occhi l’effluvio della bellezza, si scalda nel punto in cui la natura dell’ala si alimenta. E una volta riscaldatasi, si sciolgono le parti che stanno attorno ai germi, le quali, essendo da tempo chiuse, per inaridimento, non lasciavano germogliare le ali… …E quello che provano i bambini, allorché mettono i denti al momento in cui questi cominciano a spuntare, ossia quel senso di prurito e di irritazione intorno alle gengive, lo stesso prova l’anima che inizia a mettere le ali. Ribolle e sente irritazione mentre sta mettendo le ali. Quando, dunque, guarda la bellezza di un ragazzo, e riceve le parti che ne procedono e fluiscono e che appunto per questo sono dette “flusso d’amore”, l’anima viene irrigata e si riscalda, si riprende dal dolore e si allieta» (Fedro 251a12-c14). Da qui, Socrate prosegue, emerge un grande turbamento per la stranezza di ciò che si sente e, sentendosi preso da mania, l’innamorato, irrorato dal flusso d’amore, corre là dove pensa di poter veder colui che possiede la bellezza.

La narrazione offerta da Socrate nel Fedro platonico non inquadra certamente l’esperienza dell’amore in senso esaustivo, dal momento che (come Carrie Bradshaw avrà ben capito a sue spese innamorandosi di Mr Big) la contemplazione della fulgida bellezza fisica di un individuo non è garanzia di un’anima temperata e incline a virtù e conoscenza. È lo stesso Platone a farlo capire nel momento in cui, nel Simposio, egli fa in modo che Socrate descriva l’amore in termini di un percorso ascensionale verso il bello in sé e, soprattutto, verso il bene sommo. Lo stesso ragazzo che ama Socrate, Alcibiade, descrive meticolosamente il suo folle innamoramento per colui che, proprio come le statue dei Sileni (figure mitologiche dalla proverbiale bruttezza fisica), una volta aperte dischiudono immagini degli dèi (Simposio 215a9-12). Alcibiade ama il vero bene (incarnato da Socrate), ma vive il proprio amore con l’aggressività, le intemperanze e l’infelicità tragica di chi è vittima di se stesso e del proprio animo tirannico. Nella sua figura si inscena il paradosso di un individuo che vive l’amore per un filosofo in maniera non filosofica. E ciò lo condanna ad ogni sorta di dolore e disgrazia. Perché l’amore sano è certamente mania e flusso, ma anche criterio, allenamento al bene e convincimento. Attraverso Socrate e la sua interazione con Fedro, Socrate sembra esprimere implicitamente questa visione lasciando parlare la natura, e offrendo al lettore attento il compito di esaminare gli indizi filosofico-metodologici che una simile scelta comporta.  Indubbiamente, il flusso del fiume presso il quale Socrate discute con Fedro nell’omonimo dialogo prefigura l’immagine teorica del flusso d’amore e l’irrigazione che nutre e rigenera. Tuttavia, come Cynthia Freeland acutamente osserva in relazione all’immaginario del flusso nel Fedro platonico (“Imagery in the Phaedrus: Seeing, Growing, Nourishing”, Symbolae Osloenses. Norwegian Journal of Grek and Latin Studies 84, 2010), Socrate si mostra recalcitrante all’idea di discutere al di fuori del perimetro della città (e, presumibilmente, del raziocinio che innerva una città giusta). Il flusso va arginato e indirizzato, senza compromettere quella mania che irriga e porta alla crescita personale nella dimensione del vero bene. La mania va completata e diretta. E la discussione sull’amore e i suoi effetti all’interno della città, come Freeland sostiene, va condotta altrove. Il vero lavoro della filosofia è razionale, sobrio, e richiede un ritorno alla città, intesa dove semi più stabili e fruttuosi di saggezza e conoscenza possano essere utilizzati attraverso argomentazioni razionali e non puramente immaginifiche.

        Una simile visione della filosofia e dell’amore è – almeno in apparenza – recepita in epoca contemporanea da una newyorkese d’adozione, la controversa filosofa, scrittrice e sceneggiatrice Ayn Rand (Nata a San Pietroburgo come Alisa Zinov’evna Rozenbaum nel 1905-morta a New York nel 1982). Strenua antagonista di ogni forma di collettivismo socialista e fascista, Ayn Rand professava l’esaltazione eroica di quello che lei stessa definisce “egoismo razionale”, presentandolo come la più elevata delle virtù. Quest’ultimo è inclinazione al perseguimento del bene individuale, fondato su una salda consapevolezza dell’ “io” e sull’amore che ognuno deve (moralmente) a se stesso. In questo senso, Ayn Rand ravviva l’antico ideale della philautia (amore di sé) che, come Aristotele mostra ad esempio nel nono libro dell’Etica Nicomachea è punto di partenza per l’amore dell’amico. Nel caso di un’amicizia fondata sull’uguaglianza (o similitudine) relativamente alla virtù etica e a quella intellettuale, colui che è amato, l’amico, è concepito come “altro se stesso” (“heteros” o “allos” autos), e diviene oggetto d’amore soltanto previo riconoscimento razionale del possesso di valori virtuosi e comuni tra amante e amato. Una simile forma di amore, se praticata virtuosamente a livello politico, finisce per riverberarsi negli interessi e nella crescita degli amici e della comunità politica di appartenenza.

Tralasciando gli effetti del pensiero di Ayn Rand sullo sviluppo di una discutibile etica del capitalismo indiscriminato (la filosofa sosteneva infatti che una produzione illimitata fosse foriera dell’unico sistema politico-economico capace di far raggiungere all’uomo felicità, realizzazione e benessere), è interessante osservare che la sua visione dell’amore innesti le proprie radici negli stessi presupposti etici da lei elaborati (tanto nei suoi trattati filosofici quanto nei suoi romanzi). Nel suo The Virtue of Selfishness. A New Concept of Egoism (1964), la Rand sostiene che l’uomo sia provvisto di un diritto ad esistere che non contempla né il sacrificio di sé a vantaggio degli altri, né il sacrificio di altri a proprio vantaggio. La priorità valoriale dell’individuo nei confronti di se stesso è ancorata in un’epistemologia dell’io che rivendica l’indipendenza del soggetto amante rispetto al soggetto amato. Come la stessa Rand sostiene tanto nel libro sopra menzionato quanto nel suo romanzo The Fountainhead (1943. Trad. it. La sorgente meravigliosa) «per poter dire “Io ti amo”, una persona deve prima sapere come dire l’ “io”». Nel chiarire tale concetto, la Rand spiega che  «l’“io” è un’entità indipendente e autosufficiente che non esiste al fine di (o “per amore di”) un’altra persona. Una persona che esiste solo al fine di un’altra non è un’entità indipendente, ma un “parassita spirituale”. E l’amore di un parassita non vale niente» (Lettera di risposta di Ayn Rand alla sua ammiratrice Joanne Rondeau, 1948. traduzione mia).

L’amore vero, così come il sesso che da tale forma di amore scaturisce, è solo quello che permette di agire, e che rivela l’indipendenza intellettiva di colui che ama. Nel suo The Voice of Reason (p. 54. Capitolo “Of Living Death”), l’autrice afferma che «il sesso è una capacità fisica, ma l’esercizio di essa è determinato dalla mente dell’uomo – dalla sua scelta di valori, posseduti consciamente o subconsciamente. Per un uomo razionale, il sesso è espressione di auto-stima, una celebrazione di se stesso e dell’esistenza. Per l’uomo che difetta di auto-stima, il sesso è un tentativo di fingere di averla, di acquisire la sua illusione momentanea» (traduzione mia).

 Nel romanzo Atlas Shrugged (1957; Trad. it. La Rivolta di Atlante) l’autrice mette in bocca ad uno dei personaggi le seguenti parole: «L’uomo che è orgogliosamente certo del proprio valore, desidererà il tipo di donna più elevato che possa trovare, la donna che ammira…perché solo il possedere un’eroina gli darà il senso di un vero traguardo, non il possesso di una puttanella senza cervello…un uomo simile non cerca di ottenere il proprio valore, cerca solo di esprimerlo. Non sussiste alcun conflitto tra gli standards della sua mente e i desideri del suo corpo» (2.4.3.88. Traduzione mia). Un concetto simile è tematizzato in senso filosofico nel libro For the New Intellectual (p. 99: “The meaning of sex”), in cui l’autrice sostiene: «La scelta sessuale di un uomo è il risultato e la somma delle sue convinzioni fondamentali…Sarà sempre attratto verso la donna che riflette la visione più profonda di se stesso, la donna che, nel cedergli, gli consente di sperimentare un senso di auto-stima. L’uomo che è orgogliosamente certo del proprio valore, vorrà il più elevato tipo di donna che possa trovare, la donna che ammiri, la più forte, la più difficile da conquistare, perché solo il possesso di un’eroina gli darà il senso di un vero conseguimento» (traduzione mia). Ci si potrebbe lecitamente domandare se la stessa Ayn Rand, diluendo la rigidità dei vincoli di genere da lei stessa stabiliti con tale affermazione, abbia messo in atto un simile principio per (scegliere di) amare suo marito Frank O’ Connor. Quando nel corso di un’intervista le venne chiesto quale fosse il conseguimento di cui fosse andata più orgogliosa, Ayn Rand rispose: “Sposare Frank O’Connor” (intervista televisiva con Mike Wallace interview, 1959). In un primo momento, la pensatrice deve aver attivato una modalità di innamoramento simile a quella descritta nel Fedro platonico, dal momento che, nel raccontare come si fosse innamorata di lui nel corso della stessa intervista, disse: «Frank incarna il mio tipo fisico di eroe. Mi sono innamorata di lui all’istante, vedendolo». In altre occasioni, invece, dichiarò pubblicamente di essersi innamorata della dedizione che suo marito aveva per lei, e per il suo essere stato capace di vedere chi lei fosse realmente ancor prima di poterlo dimostrare, aggiungendo «abbiamo lo stesso senso della vita».

Eppure, senza voler mancare di rispetto alla memoria dell’austera figura di Ayn Rand e sfociare in chiacchiere da gossip da rivista americana contemporanea, verrebbe da dire che il suo consorte avesse uno stile di vita molto diverso dal suo. In primo luogo, Frank O’Connor, aspirante attore, aveva rinunciato alle sue ambizioni professionali per sostenere la carriera di scrittrice e di filosofa della moglie. Finì a lavorare in una fattoria in California, e amava prendersi cura di fiori e pavoni, mentre la moglie era indifferente alla natura, e coltivava una profonda ammirazione per la città e l’assetto urbanistico di New York. Come se questo non fosse sufficiente, Ayn Rand, già sposata da anni con Frank, si imbarcò in una relazione extra-coniugale con il suo giovanissimo studente Nathaniel Branden, che negli anni dell’adolescenza aveva letto il romanzo The Fountainhead e aveva cominciato a scrivere lettere all’autrice. Coltivavano la stessa passione per la filosofia, l’arte e la letteratura. Nonostante la giovane età, era probabilmente lui l’uomo più eroicamente (e “Randianamente”) proteso ad amarla. A dispetto dei loro valori condivisi e di ciò che li legava, Ayn Rand lo incoraggiò vivamente a sposare la sua coetanea Barbara Weidman, senza interrompere poi la relazione con lui. Gli anni della loro passione incandescente vengono mirabilmente rappresentati nel film The Passion of Ayn Rand (1999. Regia di Christopher Menaul), fedelmente basato sul libro della stessa Barbara. Indimenticabile la scena in cui Ayn chiama a raccolta suo amante e i rispettivi consorti, spiegando loro che lei e Nathaniel sono una coppia, e che una simile scelta è giustificata da una legittima applicazione del principio dell’egoismo razionale. Ayn chiede a suo marito e a Barbara una comprensione razionale e un’accettazione della realtà dei fatti, cercando di persuaderli che nessuno sarà danneggiato da questa relazione, ma che tutti e quattro potranno trarre beneficio dalla nuova situazione, dalla quale si auspica la produzione di inaspettate sinergie intellettuali e valoriali. Altrettanto indimenticabile è la scena in cui la moglie di Nathaniel, affatto persuasa, in preda ad una crisi di panico chiama al telefono Ayn Rand proprio nel momento in cui ella si trova a casa con Nathaniel. Ayn Rand, distaccata, le suggerisce semplicemente di prendersi cura di se stessa.

Anni dopo, la stessa relazione tra Ayn e Nathaniel naufragherà miseramente. L’ “eroico” Nathaniel, infatti, si innamorerà di una giovanissima studentessa, per nulla brillante come la filosofa, e divorzierà da Barbara. Non è dato sapere se un simile esito sia stato una semplice questione di karma o una efficace conferma delle fragili architetture del pensiero di Ayn Rand sull’amore e l’attrazione erotica. Fatto sta che l’amore randiano appaia socraticamente proteso alla realizzazione personale, e che, almeno nelle intenzioni, sia produttore del benessere per la società. Che un’Ayn Rand umiliata dal suo amante la renda ai lettori più umana, tutt’altro che infallibile, e psicologicamente fragile come Carrie Bradshaw è un altro discorso. Sembra proprio che l’amore sia tutt’altro che prevedibile e razionalizzabile. Carrie, Ayn, e perfino Socrate, hanno accettato di immergersi nel flusso e di farsi distogliere, anche se solo per breve tempo. Ciò che conta è vivere in maniera assennata, saper formulare le domande più essenziali sull’amore, evitare situazioni tossiche e volere sempre il bene. Per se stessi e per la città.

 

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA STORIA DELLE IDEE

Lascia un commento