CONAN IL BARBARO O LA FELICITÀ DELLA VIOLENZA

MATTIA DE FRANCESCHI

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“Wat is best in life?”. Questa domanda, prima di essere un interrogativo etico o morale da glossare, è una citazione, una frase detta in un contesto specifico e a cui viene data una risposta precisa.

L’occasione originale di questa domanda è un dialogo all’interno del film Conan the Barbarian, nella semioscurità fuligginosa di una yurta occupata dal banchetto di un manipolo di guerrieri vittoriosi. Uno tra loro, investito dell’autorità epistemologica della vecchiaia, pone il quesito; dopo l’insoddisfacente risposta di un giovane Conan, solo “cimmero” tra gli spiriti delle steppe, risponde in questo modo:

“To crush your enemies,

to see them driven before you,

to hear the lamentations of their women”

In questa frase Conan non esprime una mera stereotipia sul barbarismo e sulla concezione della virilità che lo accompagna, bensì rivela un modo essenziale del “modo il cui l’uomo è di casa su questa terra, del modo in cui l’essere umano eternamente si trova a relazionarsi con ciò che lo circonda nel suo vagabondare.

Conan è stato rapito, ancora fanciullo, dalla sua natia Cimmeria, ridotto in schiavitù in terra straniera prima come animale da soma e poi come gladiatore; improvvisamente, senza spiegazioni, gli viene donata una terrificante libertà ed egli è mandato in un mondo ignoto, tra genti a lui sconosciute. Sarà ladro ed assassino, pirata, furfante e capitano di ventura, eroe mitico e combattente supremo ma, soprattutto, in un modo che comprende in sé tutte queste altre definizioni, sarà il Barbaro, l’Estraneo per eccellenza tra tutti gli altri esseri umani.

L’intero percorso della sua vita, come narrata dal suo aedo Robert E. Howard, è un vagabondare stranito tra mostruosità stregonesche, le vestigia di antiche città antidiluviane create da civiltà cosmiche ormai defunte e, soprattutto, le istituzioni della “vita civilizzata”: più volte, nei racconti del mythos del Cimmero, egli viene infatti descritto come inquietato, confuso e timoroso ogni volta che entra in contatto con leggi, gerarchie e convenzioni sociali, specialmente linguistiche, ovvero con tutte quelle concrezioni comportamentali che vanno a costituire i confini all’interno dei quali il vivere in comune degli esseri umani può schiudersi e svilupparsi come tale.

Privato fin dalla prima infanzia dell’opportunità di un vivere comune, sia nel senso sociale e che della costruzione di un modello della vita quotidiana attraverso l’abitudine, Conan conosce solamente se stesso e le poliedriche estraneità del mondo, con le quali si trova necessitato ad interagire creando dei modelli comportamentali che gli permettano di sopravvivere. Nel punto in cui la nudità di un uomo privato della sua essenziale politicità si trova a venire in contatto con la nudità dell’ente che lo circonda, si sviluppa la pratica della violenza intesa come conoscenza, come movimento intellettuale, ancor prima che fisico, che permette di posizionare coerentemente ciò che si viene ad incontrare nell’architettura del proprio mondo.

La pratica della vita di una tale figura dell’umana è un conflitto continuo per arrivare ad una visione stabile del mondo ma che, però, non si raggiungerà mai, uno slancio continuo verso l’asilo sicuro di una quotidianità senza pericoli ma impossibile da raggiungere; perfino una volta divenuto sovrano di un regno, dopo aver, peraltro, mozzato la testa al monarca precedente, non si può conoscere la quiete: “[N]ow [that] I am a great king, the people hound my track / with poison in my wine-cup, e daggers at my back”, così commenta Conan, con il verso di Howard, la realtà del suo vissuto dell’ipotetica potenza suprema della monarchia. Cresciuto lontano da tutto, nemmeno le forme più estreme di quella categoria interpretativa che è la proprietà possono sollevare Conan dall’esercizio della violenza. La sua vita continua secondo la relazione che gli è propria, nella ricerca dei significanti della vittoria, che altro non è se non la forma riuscito della violenza: la fuga dei nemici, la loro sottomissione, le lacrime e il sangue. “What is best in life”, quindi, se non la fedeltà produttiva alla chiamata della spada, al fare i conti con il mondo nella svelatezza della punta di una punta di lancia?

L’esistenza di un barbaro è quella dell’estraneo a tutto ciò che si può pensare come la quotidianità ormai scontata dell’umanità “civilizzata”, rilassata nella certezza di un intersecarsi di gerarchie concettuali, da sempre conosciute, che nel loro sottile intreccio immobilizzano l’intero universo in una familiare, eterna quiete. Allo stesso tempo, però, in questa fondamentale estraneità è possibile vedere all’opera un elemento essenziale dell’agire umano pre-logico, pre-sociale e pre-politico, quello della violenza, che torna in evidenza una volta spogliato di quelle sue sedimentazioni centenarie che sono i costumi di una società. La barbarie echeggia nella civiltà, senza essere udita, e forse il meglio della vita di un uomo moderno non è differente dalla felicità di Conan, ma solo meno evidentemente sanguinolenta.

 

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