TRASCENDENZA: UN RACCONTO DELLA MENTE

american godsPIER MARRONE

Dio forse ci ha fatti perché gli piacciono le storie. Così scriveva Elie Wiesel. Queste storie sono necessarie affinché il divino si manifesti e continui ad esistere. Questa è la tesi del romanzo di Neil Gaiman, American Gods (dal quale è stata tratta una splendida serie), una saga dove antichi dèi provenienti dal Nord Europa assieme ai primi colonizzatori devono fronteggiare una rivolta di nuovi dèi che sono sorti nel continente nord Americano dalle nuove pratiche di devozione che si rivolgono ai feticci dei consumi, dell’intrattenimento, dei gadget elettronici. Gli dèi possono morire se non vengono sostenuti da credenze che si rinnovano periodicamente e che comportano sempre raccontare delle storie sul divino.

Ma la religione per noi tramonta e gli dèi sono stati uccisi come nel racconto di Gaiman perché noi sperimentiamo il disincanto del mondo, che è divenuto un luogo dove invece si è insediata la razionalità strumentale, che è il mezzo pratico attraverso il quale noi pensiamo di dominare il mondo rendendocelo disponibile. Noi, insomma, crediamo di sperimentare la morte del divino. Aveva ragione Richard Rorty, che modulava un’idea che gli derivava da Nietzsche: Dio muore non perché qualcuno dimostri che non esiste o perché le prove della sua esistenza non sono valide, bensì piuttosto perché il nostro rapporto con il divino si dissolve e non è più all’ordine del giorno. Come accade con gli amici immaginari della nostra infanzia, quell’amico immaginario rappresentato dal divino a un certo punto si è dissolto, perché non gli abbiamo più rivolto la parola. Rorty, come molti altri, si compiace di questo esito, ma per prima cosa occorre capire se la sua descrizione corrisponda alla realtà. Io penso di no e ritengo, anzi, che Rorty abbia molto più semplicemente confuso un ristretto milieu culturale proprio di una élite accademica con i suoi desideri. Penso che Rorty sia in errore per due ordini di motivi:

(1) un motive empirico: le credenze religiose sono ampiamente diffuse nella popolazione generale, anche se è vero che in Occidente il livello di partecipazione attiva alle pratiche religiose isitutizonali non è mai stato così basso;

(2) una ragione di ordine antropologico: l’idea di Rorty, che è anche in parte quella di Nietzsche, è che le credenze religiose siano tramontate. Questo tramonto è la fine dell’idea che il significato della nostra realtà è in una realtà altra, che trascende le nostre vite. In Nietzsche la fine della trascendenza è epitomizzata dalla dottrina dell’eterno ritorno, che costituisce la sua filosofia più matura. Tuttavia, la dottrina nell’eterno ritorno è anch’essa una fede, perché è la credenza nell’immanenza più completa, ossia l’idea che il significato della vicenda dell’universo intero deve essere inventato da noi nel nostro mondo, che è l’unico che possediamo. E questo può accadere soltanto se tutto nel nostro mondo, anche la cosa apparentemente più insignificante, si ripeterà in eterno.

È difficile dire che questa di Nietzsche non sia essa stessa una forma di religione, proprio nel senso che immagina un significato ultimo che dà senso alla vicenda complessiva dell’universo, fornendo una prospettiva più ampia ad ogni atto come ad ogni singolo granello di polvere. Certo che vivere sapendo che tutto ritorna eternamente non è una prospettiva che mi entusiasma molto. Non avrebbe dovuto entusiasmare troppo nemmeno Nietzsche almeno a ricordare un’altra sua tesi, che formula in un saggio giovanile, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Niezsche sosteneva che un eccesso di memoria ci ridurrebbe all’impotenza e all’inazione, perché ci farebbe pensare che tutto è già stato fatto e sperimentato. L’oblio invece rende possibile la nostra azione nel presente (se tutto eternamente ritorna, perché dovresti affaticarti a fare qualsiasi azione?).

C’è anche però da esaminare ancora una domanda: perché le credenze religiose sono universalmente diffuse in tutte le culture al punto da far pensare che si tratti di un universale umano? Questa domanda ha molte diverse risposte. Per gli scopi che mi propongo in queste pagine però a me è sufficiente individuarne una. Uno degli scopi del nostro desiderio di trascendenza è l’idea che la nostra esperienza non terminerà con la nostra morte, che noi faremo altre esperienze, diverse da quelle che abbiamo vissuto nella nostra vita terrena. Vogliamo più vita, come dice il replicante Roy Batty in Blade Runner, con un’affermazione perfettamente aderente alle nostre aspirazioni di sempre e all’idea che noi abbiamo dello sviluppo tecnologico futuro, che vorremmo sempre fosse adeguato ai nostri desideri. E del resto, per quale motivo dovremmo essere così interessati alla tecnica, alla quale ci siamo letteralmente consegnati, se non perché vogliamo avere un’esperienza migliore nelle nostre vite? E quale esperienza migliore sarebbe quella di una vita che non termina mai con una coscienza che si proietta in un futuro del quale non riesce a vedere la fine? Però perché questo accada che cosa dovremmo fare? I nostri corpi inevitabilmente si deteriorano e si dissolvono dopo circa un’ottantina di anni, se siamo fortunati.

Se noi pensiamo a noi stessi, a quello che siamo in quanto siamo diversi da chiunque altro abbiamo mai incrociato nelle nostre esistenze, dove collochiamo questa diversità? Io penso che la risposta sia facile e diretta: nella nostra coscienza. È la nostra coscienza ad essere proprio nostra, più ancora del nostro corpo. Alcune parti del corpo se ne possono infatti andare senza che minimamente venga intaccata la nostra identità personale. Perdiamo capelli, perdiamo strati superficiali della pelle senza che ce ne accorgiamo: il nostro ricambio cellulare è costante. Possiamo perdere perfino qualche parte importante del nostro corpo senza perdere la nostra identità personale, sin tanto che la nostra coscienza rimane proprio la nostra e non si avvia al dissolvimento o allo spegnimento improvviso.

Cosa sia la coscienza nessuno lo sa troppo bene e nessuno sa nemmeno dove sia collocata. Sembra evidente che debba avere un sostrato fisico, che per noi è il nostro cervello. Ma questo non basta a spiegare quello che David Chalmers ha chiamato hard problem della coscienza, ossia il fatto che noi abbiamo degli stati soggettivi, che fanno della nostra esperienza proprio quella esperienza che abbiamo noi e che nessun altro può avere. Certo, ogni stato cerebrale cosciente ha una corrispondenza nei messaggi chimici ed elettrici che neurotrasmettitori e assoni si scambiano, ma la coscienza soggettiva che tu hai del colore rosso, del gelato alla vaniglia, del profumo della tua amante non è questi processi chimici ed elettrici. Perché abbiamo questa coscienza soggettiva è uno degli aspetti del problema difficile della coscienza. Qualcuno, però, pensa che qui non ci sia affatto un problema. Anni fa avevo ascoltato la conferenza di un biologo di una certa fama che sosteneva che la coscienza era semplicemente il rumore di fondo dei nostri processi mentali. Questa non era però affatto una risposta e, a voler essere indulgenti, nemmeno un dar nome a un problema, ma semplicemente l’uso di una metafora per fare della cattiva letteratura. Infatti, se la coscienza è un prodotto dell’evoluzione, dal momento che esiste deve avere una qualche funzione.

Altri pensano che se c’è un hard problem, c’è anche una maniera di affrontare il problema. Così pensano tutti quei neuroscienziati che hanno adottato un approccio ingengneristico ai problemi della mente. I problemi della mente si affrontano costruendo dei modelli replicabili. Ma quale è il modello che dovremmo adottare per la coscienza? Pensiamo alle espressioni “avere coscienza di” oppure “sono cosciente del fatto che”. Che cosa intendiamo dire? Secondo il neuropsicologo Michael Graziano quello che vogliamo dire è che una sorta di raggio mentale si è proiettato su una porzione della nostra esperienza e di questa porzione siamo consapevoli, ossia siamo in grado di riferirla a noi stessi. Questa capacità che noi chiamiamo coscienza non è nient’altro che un meccanismo complesso di attenzione sull’attenzione. Alcuni modelli di ricostruzione dei meccanismi di attenzione visiva sono già adesso implementabili in una macchina. Se la strada è questa, capite allora che sarà solo questione di tempo e di ingegneria e di potenza di calcolo costruire un modello plausibile di coscienza che possa girare su un supporto diverso rispetto al nostro cervello. Questo, se mai sarà raggiunto, sarà il primo gradino per copiare la nostra coscienza. Copiarla in senso letterale neurone per neurone, sinapsi per sinapsi. Tecniche evolute di risonanza magnetica potrebbero ricostruire ciò che una persona è in un momento dato, ossia la computazione che si realizza nei neuroni collegati dalle sinapsi, secondo quella che è la cosiddetta dottrina del neurone, che è stata formulata più di un secolo fa dallo scienziato spagnolo Santiago Ramón y Cajal, che per questo ricevette nel 1906 il premio Nobel per la medicina.

Se noi fossimo in grado di misurare tutte le connessioni neuronali avremmo una mappatura completa del suo connettoma, un termine che richiama genoma, la sequenza completa dei nucleotidi della specie umana. Ricotruire il genoma era ritenuto un compito impossibile, ma questa impresa è stata portata a termine in tempi ragionevolmente brevi, ossia in 13 anni. Ogni persona possiede un suo connettoma unico, che è semplicemente la sua personalità. Già ora conosciamo il connettoma del Caenorhabditis elegans una specie di verme nematode e del moscerino della frutta ed è possibile prelevare una fettina di corteccia cerebrale di un topo per ricostruire le connessioni neuronali. La ricostruzione del connettoma umano è un progetto di là da venire, anche se è già operativo lo “Human Connectome Project”. Ma le difficoltà secondo i fautori di questo progetto non sono concettuali, bensì unicamente operative. Le strumentazioni di scansionamento in uso che hanno una risoluzione di circa mezzo millimetro non sono adatte a dare una rappresentazione dettagliata dei neuroni e tanto meno delle sinapsi. Sarebbero necessarie risoluzioni dell’ordine del micron, ossia un millesimo di millimetro. A quella scala saremo probabilmente in grado di vedere dei rigonfiamenti sui neuroni e ragionevolmente potremmo ipotizzare che si tratti di sinapsi. Anche questa risoluzione, tuttavia, potrebbe essere del tutto insufficiente. Le sinapsi non sono infatti tutte eguali. Alcune performano connessioni elettriche dirette tra i neuroni, altre diffondono una nuvola di sostanze chimiche su un’area di neuroni adiacente, alcune sinapsi contengono più trasmettitori chimici che vengono rilasciati selettivamente. Forse esistono migliaia di tipi differenti di sinapsi e per mapparle precisamente sarebbe necessaria una risoluzione molecolare. Tutto questo supera il livello attuale delle nostre tecnologie. E poiché stiamo parlando di scansionare un cervello vivo e non il tessuto cerebrale di topo morto, occorrerebbe inoltre sapere a che cosa serve tutta quella quantità di cellule che non sono neuroni, che sono in numero 10 volte superiore ai neuroni stessi.

Insomma, la quantità di cose che ancora non sappiamo è enorme e tutto l’approccio ingegneristico che concepisce la coscienza come un atto di attenzione enormemente stratificato presuppone l’esistenza di tecnologie che ancora non sono nate. Tuttavia, il modello sembra essere piuttosto persuasivo. In fin dei conti, quando siamo coscienti abbiamo attiva una forma di attenzione. Quando dormiamo questa forma non è presente nello stesso modo di quando siamo svegli. Altrimenti noi non saremmo in grado di distinguere la realtà dall’allucinazione, il sogno ad occhi aperti da quanto effettivamente stiamo sperimentando nella nostra vita. Ammettiamo che la tecnologia faccia quei progressi sufficienti a descrivere e scansionare l’attività rilevante del cervello di una persona. Ora, immaginiamo di essere in grado di descrivere tutta l’attività neuronale e sinaptica della mente di una persona. Ciò che noi staremo facendo sarà dare una descrizione precisa della sua identità personale in quel momento. Occorrerà forse fare attenzione che la persona non sia sotto l’effetto di droghe, o non abbia un attacco di mal di denti, oppure non sia piombata in una profonda depressione per un lutto emotivo. Inoltre, così come scansioneremo il cervello che abbiamo situato nella scatola cranica, dovremmo anche farlo per il cosiddetto secondo cervello che abbiamo situato nell’intestino (dove si trovano circa mezzo miliardo di neuroni). Quando noi saremo in grado di riprodurre l’attività di una coscienza e di scaricarla su un altro supporto, si porranno inevitabilmente dei problemi etici e politici. Pensiamo alle versioni di prova di queste coscienze. Saranno delle coscienze sperimentali, per così dire, e non anche delle persone? E se non funzioneranno troppo bene che cosa dovremmo farne? Dovremmo cancellarle? Non dovremmo piuttosto considerarle come delle coscienze “diversamente abili”? Forse giungeremo  a pensare di non avere il diritto di cancellarle. Ma immaginiamo che arrivi il momento in cui sarà possibile replicare con precisione una coscienza come la nostra e farne l’upload. Forse non sarà mai conveniente scaricare una coscienza in maniera permanente in un dispositivo fisico artificiale che potrebbe risultare sempre troppo costoso. Forse sarà molto più semplice caricare una coscienza in un ambiente virtuale, progettato sulla base dei più avanzati videogiochi, che potrebbe essere estremamente dettagliato.

Immaginiamoci la scena. Tu potresti essere già in là con gli anni, ti hanno diagnosticato una malattia invalidante i cui sintomi non si sono ancora manifestati. Decidi di fare un upload della tua mente per prolungare in maniera indefinita la tua esistenza. Ti mettono in questa macchina che scansiona tutta la tua esperienza come è depositata nei tuoi due cervelli e la carica su un’altra piattaforma, una sorta di Second Life ultraperfezionata. Premi sull’icona di uno schermo e la tua versione comincia a vivere in questo altro mondo. Ritorni a casa e telefoni a questa tua versione aggiornata di te, che ti dice che la sua prima giornata sta andando alla grande. È andata a fare colazione in uno splendido caffè della tua città, ha gustato i dolci tipici e poi ha preso lo scooter ed è andata al mare. Ha incontrato un sacco di gente interessante che è stata uploadata nella versione online della tua città. Si è resa conto, dopo aver gustato la tua birra preferita, di non aver più bisogno di andare al bagno, sebbene i bagni ancora ci siano o per rendere la simulazione più credibile o perché qualcuno trae piacere dall’esperienza simulata della minzione. Stasera poi ha in programma di uscire con una splendida ragazza che ha incrontrato tramite un’agenzia di dating. Tu dall’altra parte del telefono invece stai facendo i conti con le tue usuali preoccupazioni quotidiane e con l’angoscia della malattia invalidante che sta progredendo. Che cosa dovresti fare? Dovresti essere contento che una versione di te sta vivendo in un posto splendido, identico alla tua città natale, affacciata sul mare, destinata ad un’eterna estate? Io penso che tu non abbia nessun motivo per essere contento, ma dovresti avere molti motivi o per essere invidioso di una vita che non stai facendo o per avere dei rimpianti per non aver fatto una scelta che ti avrebbe messo al riparo dall’invidia. Che cosa avresti dovuto fare per non rammaricarti di non essere tu da quell’altra parte? Perché dovrebbe essere chiaro che se mai questa telefonata avrà luogo, tu non starai affatto parlando con te stesso, ma con un altro individuo che non sei più tu. Si tratterà di un sé al momento piuttosto prossimo al sé che tu sei stato qualche ora fa, ma che con il passare del tempo divergerà sempre più da te.

Che cosa però avresti dovuto fare per non avere né rimpianti né invidie? Una volta che sia stata creata una versione identica a te stesso, penso che l’unica alternativa per non provare invidia e rimpianto sarebbe stata quella di suicidarti. Ma sarebbe stato realmente un suicidio? Io penso di no, se nel momento in cui la tua versione on line si fosse attivata, tu non ci fossi stato più. Semplicemente tu avresti posto fine a una modalità di fare quelle esperienze che tu riferisci a te stesso attraverso quel meccanismo di attenzione enormente complicato che sarebbe la tua coscienza, se la visione di Graziano è corretta. E qualcosa di corretto ci deve palesemente essere secondo me. In fondo questa idea ingegneristica dell’attenzione, che considera la coscienza come un’entità misurabile e quindi potenzialmente replicabile non è diversa strutturalmente dall’idea che aveva Kant dell’io, che lui chiamava io trascendentale, espressione con la quale intendeva un centro focale che rende unica la nostra esperienza, e fa sì che abbia appunto un centro, ossia quella che noi comunemente chiamiamo la nostra personalità. Questa personalità noi la confondiamo facilmente con una cosa, mentre è una funzione. L’io insomma non è una sostanza.

Allora, se tu hai fatto un upload della tua mente su un altro supporto perché dovresti voler continuare ad avere delle esperienze che non ti soddisfano? La cosa più razionale sarebbe chiudere un capitolo della tua vita e inziarne un altro più promettente. Sarebbe come trasferirsi in un’altra nazione, dove non ci sono malattie né povertà? È facile anche immaginare che cosa accadrebbe a livello di conflitto sociale. Il mondo virtuale avrebbe bisogno per continuare ad esistere di una manutenzione continua. Non si tratterebbe affatto di sistema ecologico come il nostro che si autosostiene senza eccessivi interventi volontari (e che infatti ci sarebbe anche se noi non ci fossimo più). No, nel caso di un sistema ecologico virtuale sarebbe necessario il lavoro di qualcuno che non fa parte di quel sistema, che ad esempio si occupa della manutenzione dei sistemi di energia necessari per mantenerlo efficiente. E chi si occuperebbe di questa manutenzione? Io credo che sarebbe molto probabile che ad essere impiegati in questi compiti sarà una classe di sfruttati che non avrà i soldi necessari per fare l’upgrade alla vita virtuale. E ci dovrà essere pur qualcuno che controlla questa nuova classe di manutentori perché non faccia scherzi di cattivo gusto a chi esiste solo nella nuova dimensione virtuale, cancellando i dati che costituiscono una coscienza, ad esempio. Dissolvere una coscienza che esiste nella sola dimensione virtuale sarebbe un omicidio a tutti gli effetti, siamo d’accordo?

In questo mondo di menti potenzialmente immortali non si aprirebbe affatto una età dell’eden, ma, come sempre accade tra gli esseri umani, un altro capitolo della costante lotta per il potere, perché queste menti potenzialmente eterne non sarebbero invulnerabili, ma dipenderebbero da una manutenzione, che si opererebbe pur sempre in un mondo fisico dove le risorse di energie, di materie prime, di tempo, di apparati elettronici deputati al mantenimento del nostro mondo virtuale imporrebbero delle scelte selettive. Facile immaginare che uno strumento di selezione delle scelte dipenderà dal potere economico. Magari, quanto più grande sarà la tua capacità economica, tanto maggiore sarà il ventaglio di opzioni che si apriranno per te nel tuo nuovo mondo virtuale. E anche se la manutenzione fosse completamente automatizzata, nel senso di non dipendere più in alcun modo dalle decisioni umane, voi vi sentireste al sicuro?

Graziano espande il suo stupefacente ottimismo a un altro tema, ossia la possibile colonizzazione umana dello spazio oltre la terra. I viaggi interplanetari presentano forse dei problemi insormontabili, anche per le radiazioni che i corpi umani dovrebbero sopportare in un viaggio spaziale, fosse pure di media durata. Bene, dice Graziano, perché mandare dei corpi quando potremo mandare delle menti? Lasciando pure da parte che queste menti dovrebbero essere, magari episodicamente, insediate in dispositivi fisici per esplorare nuovi territori extraterrestri, non si potrebbe porre, invece, un’altra domanda: per quale motivo esplorare altri mondi, quando si potrebbero creare nella realtà virtuale dove si insedierebbero tutte le persone più benestanti e quelle più brillanti? In termini di immaginazione non è proprio questa trascendenza del desiderio l’ennesima rincorsa a rifiutare la scarsità delle risorse che è la cifra delle nostre vite (a cominciare da quella risorsa che è scarsa per eccellenza, ossia il tempo)? Ma anche in quel paradiso abbondante che Graziano immagina, la verità è che non ci sarà mai posto per tutti.

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