METAMORFOSI DELLA MEMORIA

memoryPIER MARRONE

Sono oramai numerose le ricerche che mostrano come la nostra memoria individuale sia molto fallace, anche rispetto a eventi molto recenti. È celebre l’esperimento ideato nel 1999 dagli psicologi Christopher Chabris e Daniel Simons. L’esperimento è documentato da un video dove un gruppo di volontari si passano due palle da basket. Il compito richiesto è contare quanti passaggi sono stati fatti fino alla fine del video. A circa metà del video compare un altro volontario vestito da gorilla. Si ferma in mezzo al gruppo che continua a passarsi le palle. Si batte i pugni sul petto, come ci si aspetta faccia ogni bravo gorilla e se ne va.

Ma chi è riuscito a vedere il gorilla? La percentuale di chi non l’ha visto si aggira costantemente attorno al 60%. Noi siamo esseri abitudinari, e in effetti viene da chiederci che cosa dovrebbe mai fare un gorilla in mezzo a dei giocatori di basket. Siamo, cioè, molto spesso ciechi alla realtà che ci circonda, se questa realtà non si conforma alle nostre aspettative. Questo è il motivo per il quale ricostruiamo gli eventi che abbiamo vissuto con inserti mnestici improbabili.

Questo è anche un problema molto notevole per quanto riguarda le testimonianze processuali. È chiaro infatti che non è sufficiente che il testimone sia imparziale affinché sia anche affidabile. La sua testimonianza può essere influenzata da numerosi fattori, ad esempio da quello che ha letto sulla stampa a proposito della fattispecie per la quale deve rendere testimonianza. Queste letture possono installare nella sua mente dei falsi ricordi. E quando il teste viene ritenuto affidabile questo accade attraverso quello che si chiama il libero convincimento del giudice.

La memoria è un processo di ricostruzione che è pesantemente influenzato dalle nostre aspettative e dalle nostre esperienze passate. Non sono affatto infrequenti i casi di amanti che conservano della medesima vacanza dei ricordi completamente diversi. La memoria si presta a innesti e a manipolazioni, manifestando non tanto la sua parentela con la dimensione onirica dei sogni, quanto con la nostra diffusa incapacità a vedere le cose come si manifestano. Naturalmente anche il modo in cui le cose si manifestano è rilevante perché noi le vediamo correttamente, altrimenti tutti riuscirebbero a vedere la performance spassosa del gorilla in mezzo ai giocatori.

Siamo talvolta ciechi alla realtà e siamo spesso ciechi alla nostra memoria: è quindi errato continuare a ritenerla una sorta di apparato di registrazione del passato. Palesemente la memoria non è solo questo. È piuttosto una delle principali modalità attraverso le quali noi cerchiamo di stare in contatto con il mondo e di costruire e affermare la nostra personalità e la nostra identità personale. Ecco allora il testimone che inavvertitamente modifica il proprio racconto mnestico per compiacere chi lo sta interrogando a un importante processo. Oppure il testimone che ha modificato la propria esperienza in base a qualcosa che è accaduto prima del reato al quale gli è capitato di assistere, ad esempio l’identificazione fallace di una persona alla quale si sovrappone il volto del componente di una squadra avversaria alla partita settimanale di calcetto.

La memoria è piena di scorie, sembrerebbe di dover dire, ma questo deve metterci nella condizione disperata di concludere che la nostra presa sulla realtà è del tutto inefficace? Questa conclusione è eccessivamente radicale. Se così fosse non saremmo in grado di muoverci nel nostro ambiente e non saremmo in grado di apprendere dall’esperienza passata, come pure accade. Del resto, persone che riteniamo sconnesse dalla realtà sono spesso proprio quelle che presentano disturbi della memoria, come sempre più spesso accade nelle nostre società ricche dove l’aspettativa di vita si è innalzata in maniera spettacolare a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Molti anziani, pur in presenza di un buon assetto cognitivo, manifestano disturbi nella cosiddetta memoria rievocativa, il ripescare informazioni dal proprio passato, le quali magari non sono strettamente associate alla propria autobiografia: il nome di un compagno di scuola, quell’amante di una sola sera, la collocazione di un edificio visitato in una gita in un’altra città, le cose che si sono fatte il giorno prima. Naturalmente, anche chi fra di noi non soffre di disturbi della memoria ha talvolta difficoltà al ripescaggio delle informazioni, ma è esperienza comune che queste difficoltà aumentano con l’avanzare dell’età e gli inevitabili declini. Poi, certo, ci sono le perdite massicce delle proprie capacità mnestiche che preludono a declini drammatici e a una sconnessione sempre più avanzata del soggetto dal mondo, che fatica a riconoscere come suo.

Attraverso la memoria costruiamo la nostra vita. Locke pensava che la nostra identità personale, ossia che cosa significa essere gli individui che siamo, sia un prodotto della memoria. Certamente se non è un prodotto diretto della memoria (e non lo è, perché assieme della memoria ci sono le esperienze nel mondo reale e la nostra immaginazione nel mondo della mente), senza la memoria non potrebbe sussistere. La memoria è un prodotto del mondo, allo stesso mondo delle esperienze reali che vi viviamo e sulle quali abbiamo una scarsa presa, ma questo vale a dimostrare che la nostra mente non è una tabula rasa, sulla quale, come su un foglio di cera riscaldato, si imprimono gli eventi che accadono fuori di noi.

Questo intreccio tra mente e esperienza è dimostrato dalla nostra memoria, che è sempre selettiva e la selezione avviene attraverso la griglia di quanto per noi è significativo. Questa idea generale penso dia un sostegno di non poco conto a quelle teorie della coscienza (un evento di tale importanza che è perfino difficile dire quanto sia importante) che non sono riduzioniste, ossia che non identificano il cervello con la mente. Il filosofo Alva Noë, scrive nel suo libro Perché non siamo il nostro cervello: “In ogni caso, i cervelli non pensano; non possiedono una mente: sono gli animali che ne possiedono una.”, proprio perché pensa che senza ambiente non ci sarebbe alcuna mente, ma affinché ci sia la mente ci deve essere certamente un sostrato biologico che permetta di compiere certe operazioni e non consenta altre (siamo ciechi a certe frequenze di luce, sordi a certe frequenze sonore). Siamo organismi che selezionano continuamente, insomma. Questi sono processi che si svolgono senza che nemmeno noi ci facciamo caso, perché molti di questi accadono al di sotto della soglia della coscienza, come dimostra in maniera clamorosa l’esperimento del gorilla invisibile.

Ci sono, tuttavia, altre selezioni possibili della memoria, ossia le selezioni intenzionali, che solitamente operano a livello sociale e hanno sempre una dimensione politica. Così avviene per i numerosi episodi di cancel culture, quel movimento che vuole rimuovere i segni di episodi scomodi del passato. L’idea di fondo di questo movimento radicale è alimentata da un pregiudizio presentista, come si dice, secondo il quale il nostro presente è intrinsecamente superiore al passato. Questo è vero per quanto riguarda ad esempio la tecnica, i progressi della medicina e il conseguente innalzamento dell’aspettativa media di vita, e per molte altre cose in parecchi paesi (in molti altri la situazione non è sinceramente esaltante), ma è universalmente vero? Io non lo credo e non perché non sia molto felice di vivere nel mio presente (che per me rimane l’epoca migliore che avrebbe potuto toccarmi in sorte), ma perché non credo che noi siamo posti sul binario di un miglioramento continuo che riguardi anche le nostre strutture mentali, i nostri comportamenti morali, la nostra capacità di spogliarci dei nostri pregiudizi. Anche per questo è insensata la richiesta che è stata sottoscritta da oltre un migliaio di studenti di cancellare il nome di Hume dalla torre dell’università di Edimburgo, perché Hume in una lettera del marzo 1766, recentemente scoperta, aveva consigliato il suo mecenate Lord Hertford a investire nel commercio di schiavi a Grenada. Da sempre, per altro, è noto che Hume pensava che i bianchi fossero superiori a altre popolazioni. Lo si sa perché una nota di un saggio titolato Sui caratteri nazionali, dice proprio questo. Hume, tuttavia, oltre a essere una delle figure principali dell’Illuminismo europeo e della sua corrente moderata, è stato anche un critico della schiavitù in almeno alcune sue forme (quelle praticate nell’antica Roma).

Dobbiamo rilevare le contraddizioni di Hume, non c’è dubbio, ma fare finta che non sia esistito, cancellare la presenza di questo pensatore gigantesco è la strada giusta? Mi pare sia piuttosto mettere la testa sotto la sabbia, perché qualcosa di un passato che continuiamo a vedere come prossimo a noi non ci sta bene. Potrebbe non passare molto tempo prima che a Kant, che condannava vigorosamente la masturbazione, perché degrada la dignità del soggetto morale, venga riservato lo stesso trattamento. E poi ci sarebbero tutti quelli che condannavano l’omosessualità. Freud ad esempio pensava che si trattasse di una forma di perversione e che l’unico sesso sano fosse quello tra partner eterosessuali.

Per non parlare dei Greci la maggior parte dei quali abbondava in pregiudizi, proprio come noi. Non sarebbe forse il caso di togliere Aristotele dai programmi di studio dei corsi di filosofia? In fin dei conti, è stato lui a dire più di duemila anni fa che gli schiavi sono strumenti animati (e per questo sono superiori ad altri strumenti). L’idea è che una figura eminente del passato debba essere per sempre inchiodata alle sue opinioni sbagliate, perché queste inevitabilmente hanno infettato tutto il resto della sua produzione intellettuale. Non sarà così difficile trovare qualche professore decostruzionista che si incaricherà del compito tracciando qualche artificiosa analogia tra questa sfortuna enunciazione di Aristotele e la difesa del principio di non contraddizione nella Metafisica.

Perché poi dovremmo pretendere che le figure rilevanti della nostra tradizione intellettuale siano come noi, che abbiamo sempre le idee giuste, che siamo inclusivi e tolleranti? Lo siamo poi davvero, quando non ci chiediamo mai la provenienza del nostro benessere e non ci interroghiamo mai sul perché la maggior parte dei prodotti che compriamo costino così poco?

La gipsoteca dell’Università di Cambridge raccoglie centinaia di riproduzioni in gesso di opere dell’antichità classica greca e romana. Un gruppo di studenti ha chiesto la proibizione della loro esibizione pubblica (a mia conoscenza non ne ha invocato ancora la distruzione, ma forse solo perché ci avevano già pensato i talebani in Afghanistan con le due statue del Buddha di Bamiyan) perché secondo loro veicolerebbero l’idea della superiorità della cultura occidentale bianca, maschilista, patriarcale, razzista e infine capitalista. I curatori della gipsoteca si sono affrettati a mettere dei cartelli esplicativi per avvertire eventuali ipersensibili visitatori in vena di censure che il bianco del gesso non implica una superiorità dell’uomo bianco.

Ma è solo l’uomo bianco a essere per sempre responsabile di tutti questi osceni crimini? Non è forse esistita una fiorente attività commerciale di tratta degli schiavi in Africa che aveva per protagonisti i musulmani? Le popolazioni africane sono poi così innocenti e immuni dal razzismo? Bisognerebbe come minimo chiederlo ai Tutsu massacrati dagli Hutu in Ruanda, un genocidio di impressionanti dimensioni? Per compiere crimini orribili occorre essere bianchi? Coltivare questo pregiudizio non è forse una forma di razzismo? È chiaro che nessuna cultura sul nostro pianeta è stata mai innocente. Le culture possono essere inclusive sino a un certo punto, altrimenti si dissolvono. Claude Lévi-Strauss scriveva che “La diversità fra le società umane […] risulta in buona parte dal desiderio, presente in ogni cultura, di opporsi alle altre culture che la circondano, di distinguersene, insomma di essere sé stessa; le varie culture non si ignorano, all’occasione si scambiano prestiti, ma, per non dissolversi, hanno bisogno che sotto altri rapporti sussista fra loro una certa impermeabilità. […] Non è affatto riprovevole porre un modo di vivere e di pensare al di sopra di tutti gli altri, e provare scarsa attrazione per determinati individui il cui modo di vivere, di per sé rispettabile, si allontana troppo da quello a cui si è tradizionalmente legati. […] La conservazione di sé presuppone ormai la distanza, ovvero una certa forma di sordità.”

La xenofilia non è dovere e soprattutto non è un dovere della memoria. Esiste un diritto alla conservazione del proprio patrimonio culturale. Allo stesso tempo non esiste affatto un dovere all’esaltazione delle proprie tradizioni, che sono esse stesse manipolazioni della memoria storica. Quale strumento dobbiamo mettere in campo per sottrarci sia al pericolo del tribalismo alimentato dalle false memorie storiche sia dall’inclusivismo che è un compito impossibile e legittima l’Altro, quale che sia, concedendogli l’utilizzo della sua memoria mentre la nostra viene occultata e rimossa? Penso che l’unico strumento sia l’indagine costante del passato, che deve avere un obiettivo ideale: tutto deve essere detto, tutto deve sopravvivere in qualche apparato di registrazione. È un obiettivo ideale, naturalmente, ma perché la ricostruzione della memoria storica non dovrebbe costituire il nostro scopo? Le difficoltà sono numerose e alcune forse insormontabili (come fai a ricostruire un archivio perduto per sempre?). Inoltre, bisogna tener conto che la ricerca sul passato è talvolta fonte di lotta politica. Il passato e la sua ricostruzione sono i nostri specchi. Ma l’alternativa quale potrebbe essere, se non gorilla invisibili che ci scorrono davanti agli occhi mentre noi siamo incapaci di vederli?

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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