GIUSEPPE GANGALE A 500 ANNI DALLA RIFORMA

FRANCESCOMARIA TEDESCO

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Quella di Martin Lutero che, il martello ancora in mano, indica la sua Disputatio pro declaratione virtutis indulgentiarum affissa sul portale della Schlosskirche di Wittenberg è l’immagine che riprende la testimonianza di Melantone su uno dei gesti più rivoluzionari della storia dell’umanità. A dipingerla, in un ciclo di raffigurazioni della vita di Lutero, il pittore belga Wilhelm Ferdinand Pauwels, il quale, riprendendo quella tradizione iconografica, celebrò così il Riformatore proprio nel castello medievale di Wartburg, in Turingia, dove Lutero aveva tradotto in tedesco il Nuovo Testamento.

È a quell’affissione che si fa risalire l’inizio della Riforma protestante, di cui proprio il 31 ottobre del 2017 ricorre il cinquecentenario. In realtà, Melantone arriverà sul luogo dei fatti solo un anno dopo, essendo egli nel 1517 ancora studente a Tubinga, e ne scriverà quasi trent’anni dopo, nel 1546, poco dopo la morte di Lutero. In altri termini, come chiarisce Giancarlo Pani sulla Civiltà cattolica (3993, IV, 2016) in un articolo dal titolo L’affissione delle 95 tesi di Lutero: storia o leggenda?, quel momento icastico della storia umana non avvenne mai, ma fu il risultato della mitopoiesi che riguarda la figura di Lutero. Una tesi non nuova: l’aveva già formulata negli anni Sessanta lo storico Erwin Iserloh, sostenendo peraltro che quel gesto sarebbe stato in contraddizione con le intenzioni di Lutero (senza considerare che sarebbe stato piuttosto ironico affiggere delle tesi in latino, per uno che avrebbe portato le persone a un accesso diretto alle Scritture attraverso la traduzione in tedesco). Scrive Pani che pur essendo un documento duro, “Le Tesi non sono una protesta o una sfida all’autorità ecclesiastica, ma rivelano un problema di coscienza, posto da un docente di teologia, che chiede al proprio vescovo una chiarificazione, innanzitutto per se stesso e poi per il bene della Chiesa. Affiggerle in pubblico avrebbe messo in dubbio la sincerità di una persona che si pone onestamente e con responsabilità un problema pastorale importante e cerca aiuto per risolverlo”. Lutero e l’autorità: un tema annosissimo che non si ha né lo spazio né la forza di affrontare. Ciò che colpisce, in questa ricostruzione agiografica di un uomo che squassò la storia, è una certa tendenza a interpretare la Riforma nei termini proprio di una rottura radicale nei confronti del potere, soprattutto del potere politico. Adriano Prosperi, che peraltro ha di recente dedicato una biografia proprio a Lutero (Lutero. Gli anni della fede e della libertà, Mondadori, Milano 2017), aveva scritto che gli eretici del ‘500 erano stati i precursori dell’Illuminismo (A. Prosperi, Gli eretici del ‘500 padri dell’Illuminismo, in Id., Cause perse. Un diario civile, Einaudi, Torino 2010, pp. 266-268). Certo, gli eretici, ma come chiarisce l’autore stesso in quel recente volume, Lutero non si era mai considerato un eretico, bensì un riformatore. Difficile tracciare le differenze tra gli eretici e il protestantesimo, ma quello che in generale si può dire per la figura di Lutero (così come per quella di Calvino), è che la Riforma non intese mai mettere radicalmente in questione il fondamento del potere politico e il dovere di obbedienza verso il sovrano. Non è un caso se Etienne de La Boétie fu un ‘lampo sinistro’ della filosofia politica occidentale che subito si spense. Quel ‘lampo sinistro’, assieme a monarcomachi, ugonotti, riformati in genere, costituirà il nocciolo di una dottrina che, agli albori della modernità (politica e non), metterà severamente in questione l’assunto dell’accentramento amministrativo tipico della sovranità assoluta. Ma l’intento non sarà democratico né proto-democratico, non sarà rivoluzionario né proto-rivoluzionario, non sarà individualista né proto-individualista: eppure queste idee germineranno anche prendendo spunto da quegli autori e da quelle dottrine. Tuttavia, già nei sinodi di Chanforan e Prali del 1532 e 1533 “condizione ineliminabile per il riconoscimento e l’accoglienza tra le chiese riformate viene posto l’abbandono delle secolari diffidenze verso il giuramento e l’autorità secolare” (P. Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, il Mulino, Bologna 1992, p. 380). Il giuramento di obbedienza al sovrano secolare. Scrive Théodore de Bèze nel celeberrimo libello Du droit des magistrats sur leurs subiets che “il n’est licite à aucun particulier d’opposer force à la force tu Tyra de son authorité priuee […] ne pouuant l’obligation qui a esté contractee par consentement commun & public, estre rompue, & mise à neant, à l’appetit d’vn particulier”.

Dunque occorre almeno distinguere tra i movimenti ereticali e la Riforma. Dal Medioevo infatti il rifiuto del giuramento (inteso come rifiuto non tanto e non solo religioso, ma anche rifiuto del potere secolare) era caratteristica precipua dei movimenti ereticali: “la definizione di ‘eresia della disobbedienza’ non si riferisce soltanto alla prima fase catara o albigese ma a tutto il proliferare ereticale dei secoli del tardo Medioevo: valdesi, bizzocchi, beghini, begardi, umiliati, fraticelli e spirituali di vario tipo: ancora alla fine del Trecento principio fondamentale della prassi inquisitoriale nei Paesi Bassi è che chi rifiuta il giuramento è per questo stesso fatto eretico […]. Il rifiuto della violenza del potere e del giuramento costituisce in qualche modo il minimo comune denominatore di tutte le eresie […]. Nella società giurata di questi secoli anzi il rifiuto del giuramento non è più soltanto eresia ma vera e propria eversione dell’ordine stabilito” (Prodi, Il sacramento cit., p. 347-348, corsivo mio). Ma se il potere politico schiacciò questi movimenti, al contrario trovò supporto ideologico proprio nella Riforma. E non è un caso se si deve proprio a Giacomo I l’istituzione di un nuovo ‘Oath of allegiance’ per i sudditi delle corone unite di Scozia e Inghilterra. Ma basta dare un’occhiata agli Scritti politici (a cura di M. Firpo, Utet, Torino 1949) per comprendere come Lutero non avesse alcuna intenzione di riprendere la contestazione al potere sovrano propria dei movimenti ereticali.

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Rispetto al contesto sommariamente tratteggiato, colpiscono le opere di un autore italiano, protestante, come Giuseppe Gangale. Originario di Cirò (attualmente in provincia di Crotone, Calabria), Gangale fu un glottologo e filosofo italiano di origini arbëreshe. Nato sul finire dell’Ottocento, compì gli studi liceali nel collegio Italo-Albanese di San Demetrio Corone, nota comunità arbëreshe, per poi proseguire a Firenze, dove si laureò in filosofia nel 1921 con una tesi su Pascal. Si dedicò da subito alla storia delle religioni. Come ricorda Alberto Cavaglion, è da segnalare che tra i maestri e poi collaboratori di Gangale vi fu quel Vittorio Macchioro, ebreo triestino poi convertitosi al cattolicesimo per approdare infine alla sensibilità protestante, che fu suocero e maestro di Ernesto de Martino: “Sicché è lecito concludere che la Calabria come «terra del rimorso» e il grande amore per le leggende folkloriche avessero in de Martino come in Gangale la stessa origine nella lezione di un comune maestro oggi forse troppo dimenticato” (A. Cavaglion, Giuseppe Gangale e la cultura italiana negli anni Venti, in G. Gangale, Revival, Sellerio, Palermo 1991, p. 114). Secondo Gangale “L’idealismo aperse al Macchioro la via a concepire cattolicismo e protestantismo […] come termini di una dialettica di esteriorità e interiorità: che, però, doveva essere trascesa in un nuovo cristianesimo […], il quale avrebbe dovuto consistere in una liberazione – della religione come esperienza, della fede in Gesù come immediatezza e ottimismo, attivismo: «Teoria della religione come esperienza» – dalla teologia paolina” ( Gangale, Revival cit., p. 67). Come non ricordare che un tema tipico della Controriforma era stato il contrasto tra l’‘essere’ e l’‘apparire’? Come non menzionare il fatto che libri come Il Principe, assieme al Libro del cortegiano di Castiglione e al Galateo di Giovanni della Casa, vengono ritenuti testi che – nel clima culturale che preannunciava e avrebbe seguito il Concilio di Trento e la Controriforma – intendevano teorizzare la priorità dell’apparire virtuosi sull’esserlo? E che così perfino Machiavelli diventava, agli occhi dei drammaturghi inglesi dell’epoca, un papista?

Tornato a Cirò, Gangale ebbe una crisi spirituale che durò fino al ’22. Dopo un suo articolo su “Conscientia”, rivista nata in quell’anno e che Gangale avrebbe diretto a partire dal ’24, fu chiamato a Roma per lavorarvi. Il sottotitolo della rivista parlava chiaro: “diretta a tutti coloro che ritengono l’avvenire dell’Italia strettamente connesso con la sua rinascita spirituale” (corsivo mio). Nell’anno in cui divenne direttore chiese di essere battezzato ed entrò a far parte della comunità battista di  Roma. “Conscientia” cominciò a subire gli attacchi fascisti, i sequestri, le minacce e infine la sospensione, avvenuta nel ’27. Gangale non cedette al fascismo, fondò la casa editrice Doxa, che pubblicò Simmel, Kierkegaard, Troeltsch, nonché Lutero, con traduttori d’eccezione: Banfi, Antoni, Miegge. Emigrò in Svizzera, in Germania, in Danimarca. In queste sue peregrinazioni si intensificarono i suoi studi di filologia, che negli ultimi anni di vita (morì nel 1978) avrebbero portato alla fondazione di un centro di studi greco-albanese.

Nelle poche righe dedicate alla biografia di Gangale, sono risuonate alcune parole: liberazione, attivismo, rinascita. Nel ’29 Gangale aveva pubblicato un libretto, Revival, ovvero proprio ‘risveglio’. Una parola chiave nel lessico evangelico, la parola del réveil valdese. Ma del ’25 è il suo La rivoluzione protestante, un titolo che rimanda a un tema annoso nella cultura italiana: la mancata Riforma religiosa come occasione persa sul piano civile, morale, politico, da un paese in cui il cattolicesimo è stato visto anche, da chi quel a quel rigorismo protestante in qualche modo aderiva, come una tabe. Un tema, questo della mancata Riforma, caro a Gramsci, che però era lungi dal demandare alla religione il miglioramento delle sorti del paese, ma anche a Piero Gobetti. Che di Gangale fu amico e collaboratore, dando vita con la sua Rivoluzione Liberale (e con il Guido Dorso della Rivoluzione meridionale) a un trittico ‘rivoluzionario’. Dei contatti di Gangale con Gobetti rimangono tracce negli archivi di quest’ultimo: due lettere e venti cartoline (la prima datata 11 febbraio ’24). Ma i contributi di Gobetti per “Conscientia” partono già dal ’23 e vanno avanti fino a quando il nome dell’intellettuale torinese non viene colpito dalla censura fascista, nel ’26. Molti furono in contributi di Gobetti sul tema della mancata Riforma, un tema che gli divenne caro proprio a seguito dell’incontro con Gangale, laddove egli fino a quel momento era stato, nei confronti del protestantesimo e della sua rilevanza per i temi da lui affrontati, liquidatorio: “L’interesse nacque presumibilmente proprio in seguito all’incontro con Gangale, il primo «protestante in carne ed ossa»” (espressione di Giorgio Spini: G. Rota, Giuseppe Gangale. Filosofia e protestantesimo, Claudiana, Torino 2003, p. 57) con cui Gobetti ebbe a che fare. La Rivoluzione protestante fu stampata nei ‘Quaderni della Rivoluzione Liberale’. Le divergenze certo non mancarono, tra i due ‘rivoluzionari’. Se Gobetti dal canto suo guardava con interesse al protestantesimo, e se Gangale riteneva il torinese un interlocutore privilegiato ancorché laico (ché per Gobetti il ‘fatto politico’ sopravanzava ormai quello spirituale; al contrario per Gangale), quest’ultimo rimproverava al primo una certa attenzione esclusiva alle masse operaie del Nord e un disinteressamento per i diseredati di quel Sud dal quale Gangale proveniva. A questo tema Gangale aveva impresso un indirizzo spirituale: i contadini del Sud erano ancora sotto il giogo della parocchia, laddove il Nord aveva in qualche modo esperito una certa qual ‘Riforma’ (a ‘scartamento ridotto’, diceva il calabrese). Ora, Gangale non riteneva certo di imporre all’Italia una Riforma protestante con quattrocento anni di ritardo, ma faceva appello a quel protestantesimo che era transitato, nei secoli, nelle opere di autori come Hegel, Marx e Sorel: esso si inverava in questi autori (mentre superficiali appaiono i riferimenti al Weber dell’Etica protestante). Certo al centro del discorso di Gangale rimaneva per l’appunto la coscienza, unico vero motore di ogni rivoluzione. Eppure la politica non è sottovalutata né può essere ritenuta momento del tutto secondario. Gangale si chiede retoricamente se “non fu l’indifferenza verso il mondo che trasformò il cristianesimo in cattolicesimo?” (Gangale, Revival cit., p. 62). E dunque se revival doveva esserci, doveva trattarsi di un anti-revival che si allontanasse da quei risvegli protestanti come evasioni nella ‘rocca dell’intuizione’, nella fede, nell’esperienza intima (ivi, p. 12). E così, mentre in Inghilterra progrediva l’industria e avveniva un’altra Rivoluzione, quella industriale, la tensione e la meccanizzazione di vita nella classi operaie creavano nuove forme di risveglio nelle classi subalterne: “ogni possibilità di riformare il mondo par spenta, ogni predicazione di evangeli di libertà e di giustizia, vana: i «santi», i «poveri nello spirito» che non sperano più nel mondo «condannato», dopo la settimana di lavoro e di tributo al mondo, s’adunano, la domenica, a consolarsi nell’ascoltare la Parola annunziante la Venuta del Signore” (Ivi, p. 20). Dunque “Conscientia” si poneva in mezzo a queste contraddizioni, e cercava la via per risolvere “il travaglio secolare tra razionalismo miscredente e misticismo insipiente” (Ivi, p. 86), una domanda a cui Gangale non rispose, cercando una soluzione anche in un marxismo letto alla luce del protestantesimo in cui all’attivismo di un Marx che completa Hegel si associasse un Verbo che proteggesse dalle derive della mera prassi. Marx andava interpretato come l’alfiere della società di liberi ed eguali ed erede degli anabattisti di Münster (“In questo senso, Gangale non mancherà di riportare all’anabattismo l’origine dei concetti marxiani di «proprietà» e di «lavoro»”: Rota, Giuseppe Gangale cit., p. 75); e d’altro canto, l’intento era di liberare Marx dalle letture riduzioniste ed economiciste.

Quella domanda inevasa, da allora in poi – per usare le parole del calabrese – si pone come “la Sfinge che il protestantismo non potrà oltrepassare senza risponderle” (Ivi, p. 87).

 

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