PRENDERE DISTANZA DA SÉ DICENDO LA VERITÀ

5340624604_a09f148f15_b

CARLO CROSATO

Ho trascorso l’estate tornando sui miei passi e ristudiando gli ultimi due corsi tenuti da Michel Foucault al Collège de France prima di morire. Si tratta di due corsi pubblicati con il titolo Il governo di sé e degli altri, in cui il filosofo francese si impegna in una ricostruzione storico-filosofica del concetto di parresia.

All’inizio dell’ultimo corso, del 1984, Foucault propone una distinzione fra “strutture epistemologiche” e “forme aleturgiche”, per ricapitolare il percorso fin lì tracciato attraverso quella che lui chiama la storia della verità. Le strutture epistemologiche sono ciò che, a ben vedere, l’ha tenuto occupato fin dagli anni Sessanta, alla ricerca delle condizioni, prima discorsive e poi relazionali, che producono, circondano, legittimano ogni soggetto, ogni oggetto, ogni concetto, ogni strategia. Dobbiamo immaginare che questi elementi, che siamo soliti immaginare originari e unitari, in realtà siano compositi, prodotti da un insieme eterogeneo di vettori i quali, intrecciandosi, danno vita a dei nodi: questi nodi, dovuti all’intrico di discorsi, di relazioni, di istituzioni, di norme, sono funzioni derivate storicamente collocate. Un soggetto non è il sovrano trascendentale del linguaggio o delle proprie azioni, bensì il risultato di un insieme disperso di funzioni predisposte da discorsi già fatti, da relazioni già intessute, da istituzioni già costituite, da norme già stabilite, ecc. E così anche per ogni positività storica, sia essa un oggetto, un concetto, una strategia: punti di emergenza di una trama la cui complessità è anche motivo della sua precarietà, dell’urgenza di rafforzare ora il determinato aspetto, ora l’altro. Queste strutture epistemologiche, con la loro normatività, sono ciò che ci fa essere ciò che siamo, che ci assegnano una funzione, un posto, che fanno sì che un discorso sia vero e uno falso, che un’azione sia lecita e l’altra no. A tali strutture Foucault ha dedicato gran parte degli studi degli anni Sessanta e Settanta, notando come in età moderna tali strutture orizzontali, conservative, normative, prevalgano rispetto alle forme di emancipazione che Foucault chiama “aleturgiche”.

Queste ultime sarebbero movimenti verticali mediante i quali il soggetto può prendere distanza da sé, dalle strutture epistemologiche che lo costituiscono e gli prescrivono una certa funzione: la forma aleturgica permette al soggetto di trattenere quella “spiritualità” che invece il pensiero moderno annichilisce privilegiando la vuota funzionalità del soggetto cartesiano. Il soggetto intraprende un corpo a corpo trasformativo con la verità, tale per cui la verità, lungi dall’essergli concessa con pieno titolo in virtù di un semplice atto di conoscenza, fondato e legittimato dal suo possedere una determinata struttura di soggetto, diviene un evento da far scaturire, da conquistare. Questo corpo a corpo permette al soggetto di elevarsi verticalmente sulle strutture epistemologiche che lo producono, riuscendo così a osservarle a distanza, osservarne lo spessore storico, contingente, criticabile, dire la verità su di esse laddove esse invece tendono a essere accettate pacificamente come universali, naturali, necessarie. Per rinvenire tali forme aleturgiche, cioè tali brillamenti in cui la verità si manifesta grazie a un soggetto che intraprende un percorso di coraggiosa trasformazione di sé, Foucault deve risalire fino all’epoca premoderna: negli anni Ottanta, durante i suoi ultimi corsi presso il Collège de France, Foucault interroga l’etica antica e tardo-antica alla ricerca di qualche cosa che, invece, il pensiero moderno ha pressoché neutralizzato. Già a metà degli anni Settanta, a ben vedere, Foucault pensava di aver ritrovato queste movenze emancipative nelle rivolte in Tunisia e poi nella rivoluzione khomeinista, rimanendo però smentito dalla tendenza autodialettizzante che fa precipitare l’agonismo in nuove strutture normative rigide.

Per individuare una relazione con la verità capace di revocare in questione la verità in primo luogo attraverso un lavoro del soggetto su se stesso e su ciò che lo rende tale, Foucault risale alle “forme aleturgiche” antiche, definendole come il tipo di atto mediante cui il soggetto, dicendo la verità, si manifesta, si rappresenta a se stesso ed è riconosciuto dagli altri come un soggetto che dice la verità. Non si tratta più della verità cui il soggetto è indotto all’interno di precise condizioni formali: si tratta ora della verità del soggetto, nel senso soggettivo del genitivo, la verità mediante cui egli si manifesta, esplicita il proprio rapporto con il regime discorsivo e relazionale che l’ha prodotto in tal modo.

Si capisce come la forma aleturgica sia un movimento che sottrae il soggetto al suo statuto e alla sua condizione attuale, che la problematizza con un movimento di differenziazione etica rispetto agli assetti che lo costituiscono, che rende evidenti le strutture epistemologiche che ne regolano la circolazione, manifestando la loro contingenza e la loro criticabilità. La verità che viene detta in questa forma apre nel soggetto e nel rapporto con sé uno iato, una presa di distanza nell’adesione altrimenti immediata con il regime di veridizione che lo costituisce.

Una di queste forme aleturgiche è la parresia, per definire la quale, nel corso del 1983, Il governo di sé e degli altri, Foucault sfrutta come termine di paragone gli enunciati performativi, rispetto ai quali essa sarebbe la figura speculare. Pur presupponendo entrambi un contesto fortemente istituzionalizzato, dotato di strutture epistemologiche che attribuiscono gli statuti richiesti ai soggetti in gioco, l’enunciato performativo è seguito da un effetto conosciuto, regolato in anticipo, codificato, che esso e i soggetti che lo circondano sono chiamati a rispettare per produrre la specifica performatività; la parresia è invece una irruzione, capace di determinare l’apertura della situazione e di rendere possibili effetti imprevisti, anche rischiosi per i coinvolti. Se in prossimità dell’enunciato performativo l’enunciazione di qualcosa provoca e suscita un evento del tutto determinato proprio in funzione del codice generale e del campo istituzionale, il dire parresiastico è dirompente, espone al rischio, produce eventualità non determinata.

È soprattutto lo statuto del soggetto a distinguere le due realtà discorsive. La natura istituzionalizzata o convenzionalmente riconosciuta che legittima la performatività degli enunciati espropria l’enunciante della propria singolarità, riducendolo a mero luogotenente di una specifica funzione discorsiva. La forza dell’enunciato performativo risiede negli enunciati che precedentemente hanno costruito, consolidato e legittimato la specifica funzione. L’enunciato performativo implica la designazione di uno spazio enunciativo vuoto e transitivo, indipendente dai soggetti chiamati a occuparlo, purché tutta una serie di condizioni normative sia rispettata. La performatività di un enunciato è dunque attribuita dalla circostanzialità, non invece dall’istanza etica rappresentata da una singolarità soggettiva in grado di ergersi di fronte alla pretesa omologante del discorso. L’irriducibile singolarità del soggetto capace di resistere alla violenza della verità e dei regimi che essa predispone è ciò che, invece, caratterizza la parresia come itinerario di soggettivazione etico-politica. Il soggetto si vincola alla propria parola producendo effetti inaspettati, rischiosi, fino al costo della vita: è così che la singolarità etica – mai istanza individualistica, solipsistica o narcisistica, ma sempre prodotto di un lavoro su sé mediato dalla relazione con altri – irrompe tendendo, fino allo strappo, le trame veridizionali che normano la circolazione di discorsi e pratiche.

La parresia viene indagata, in questi ultimi anni di ricerca e di vita di Foucault, nelle varie declinazioni che essa ha assunto nell’antichità greca, sotto diversi regimi politici. È evidente, tuttavia, che la forma più radicale di parresia è quella incarnata dalla “vera vita” del cinico antico. Memore della coscienza socratica, capace di immergersi nelle trame del potere e poi ritrarsene, la vita cinica, spogliandosi da ogni convenzione, da ogni più elementare norma di convivenza sociale, persegue l’intento di rilevare i paradossi, le contraddizioni, la natura convenzionale che caratterizzano le relazioni di potere vigenti, provocando effetti di straniamento e trasformazione e, cioè, senza mai rinserrarsi in un solipsistico interesse privato.

La parresia cinica, lungi dal ridursi a mera irruzione discorsiva, ma discostandosi anche dall’impresa socratica di rendere la propria vita coerente con il proprio discorso, si fa coraggiosa coincidenza di logos e bios, o, meglio, rende la vita l’unica manifestazione della verità che si ha da offrire. La vita è estrema e scandalosa manifestazione della verità che il parresiasta fa irrompere nella pacifica e ordinata realtà sociale, facendo giocare alla realtà un gioco differente rispetto a quello che essa vuol far giocare a noi: con le parole di Diogene, “cambiare il valore alla moneta”.

Quello cinico è il coraggio di rendersi incoerenti rispetto agli assetti illocutori e perlocutori esistenti, per mostrarne performativamente tutta la debolezza e la contraddittorietà, per far emergere la natura intimamente conflittuale dei principi su cui essi si fondano, e per tendere le relazioni e costringerle a render conto di sé. La persona si lega alla verità che esprime nella sua insostituibile individualità, contro la funzionalizzazione del soggetto come mero “posto” intercambiabile, e contro l’esteriorizzazione – di matrice cristiana e scientifica – del problema della vita vera.

La parrhesia è al contempo un atto di desoggettivazione, di presa di distanza da sé, e di irriducibile soggettivazione etico-politica proprio in quanto, mediante essa, ci si sottrae dalla funzione soggettivante-assoggettante imposta dall’ordine esistente, e si mette in gioco la propria stessa vita nella sua insostituibile concretezza, al di là dei regimi di veridizione accettati. Il soggetto fa della propria vita manifestazione della propria parola, attraversando obliquamente l’ordine disposizionale vigente senza farsene catturare, senza funzionalizzarsi a esso, ma anzi facendone emergere lo spessore, la contingenza, la storicità della volontà di potenza che lo puntella, e perciò la criticabilità. Facendo irrompere una verità sempre parziale, il parresiasta revoca in dubbio le gerarchie dei valori mostrandone l’ineludibile contingenza; e mostrando di preferire il successo della lotta alla propria sopravvivenza, egli incita i suoi interlocutori a una analoga cura di sé.

Confrontandomi con queste riflessioni foucaultiane e con le figure che presentano, mi sono chiesto a più riprese cosa esse comunicassero a noi, lettori contemporanei. Una simile condotta etica sarebbe possibile oggi? Quali ostacoli incontrerebbe un siffatto parresiasta. In primo luogo, si presentano i rischi che già Foucault, lettore dei testi antichi, in particolare di Platone, rileva. I rischi speculari della retorica demagogica e di quello che oggi viene detto populismo intendendo con questa parola una tecnica abbacinante che esonera le masse dal pensiero attraverso l’instillazione di parole-chiave facili da assorbire e funzionali all’appropriazione del potere di un’élite. È la cattiva parresia, da cui ci si può mettere al riparo solo grazie a una ben intesa e profonda cura di sé, ossia a un lavoro atto a prepararci al confronto franco, vero, responsabile con ciò che si ha da dire, per non scadere nel mero solleticamento delle emozioni della massa.

Due problemi rimangono tuttavia irrisolti nella riflessione foucaultiana, e concorrono a delineare un quadro della pratica del dir-vero tutt’altro che pacifico. In primo luogo, la pratica della parresia risulta oggi recessiva rispetto a un’altra pratica di libertà dominante nel rapporto con la sfera politica e nel contenimento dell’esercizio del potere: la libertà come tutela del soggetto d’interesse nell’ambito del liberalismo. Se, nell’antichità, il parresiasta filosofico ha saputo assumere una adeguata distanza critica nella crisi della democrazia e della polis e nell’imporsi della monarchia e dell’impero, in epoca moderna la presa di distanza rispetto al potere e l’impegno di contenerne le prerogative sono assunti dal soggetto liberale, nella pretesa del rispetto delle libertà private. Diviene dunque difficile rivitalizzare un discorso etico sulle virtù personali e civiche in un contesto in cui il polo veritativo esclusivo è rappresentato dall’economia politica e dal mercato, e rimane pressoché indifferente al discorso giuridico, politico, civico. Il rischio è quello di condannarsi alla marginalità, a una battaglia con sole perdite e all’irrilevanza.

Seconda questione irrisolta da Foucault è l’invadenza della mediatizzazione della comunicazione, assai intrecciata con l’evoluzione neoliberale del soggetto d’interesse in individuo-impresa e responsabile di un uso retorico, demagogico, irresponsabile, della pratica del dire. Lo scenario è segnato dalla presenza di meccanismi informazionali e comunicativi basati su algoritmi che lavorano a conferma, generando bolle in cui ogni nostro parere, ogni nostro interesse, ogni nostra iniziativa sembrano magicamente incontrare concordia e condivisione: la prova che la filosofia oggi potrebbe proporre, forzando uno scontro con la realtà e un rapporto umile e impegnato con essa, rimane frustrata dalla percezione diffusa che ciò che si pensa e ciò che si crede sia materiale già sufficientemente maturo per farsi discorso pubblico; ogni impegno a universalizzare la propria prospettiva è così sostituito dall’imposizione della propria visione forte di numerose conferme.

La sfera politica, in senso lato, è colonizzata da un discorso strategico largamente assimilabile alle tattiche di marketing: un agire comunicativo non più impegnato nel discernimento del vero e del falso, essendo più simile alla retorica persuasione tanto del vero quanto del falso, una tecnica che agisce in relazione a individui che ne vengono attratti a prescindere dalla loro disponibilità al confronto e alla collaborazione. La pratica parresiastica è facilmente neutralizzata dall’intensità e dall’ampiezza raggiunte dalla mediatizzazione della comunicazione; una mediatizzazione in grado di annichilire qualunque discorso, privandolo della differenziazione etica attraverso la sua banalizzazione, la sua commercializzazione o soffocandolo nella parossistica e illimitata produzione di discorsi e informazioni funzionali al governo neoliberale degli uomini. Così che a emergere rischia di non essere il soggetto di un lento e profondo lavorio etico, di un impegno comunicativo, del coraggio nella testimonianza, bensì soggetti di interesse, i cui messaggi, fossero anche apparentemente progressivi, sono funzionali al mercato del capitale umano in cui, ultima deriva, a essere in vendita è perfino la stessa immagine biografica (personal branding) dell’individuo che pretende di “influenzare” l’opinione delle masse.

C’è infine un ultimo aspetto problematico. L’esito cinico proposto da Foucault si pone in opposizione rispetto alle funzioni che il campo politico assegna. Viene allora da chiedersi quale impatto possa avere nei destini proprio e collettivo l’irruzione incoerente e provocatoria di quegli individui a cui il potere non assegna alcuna funzione, coinvolti solo in quanto soggetti in ombra, la cui sorte è oggetto di completa indifferenza. È di nuovo il tema della rilevanza dell’azione individuale in un gioco fra volontà di potenza; una rilevanza distribuita in maniera disomogenea entro le trame tracciate dal potere sovrano, fino a giungere all’irrilevanza assoluta di chi può parlare solo per dire il proprio silenzio.

A riuscire a incaricarsi del rischio massimo dell’irruzione dello scandalo sono davvero pochi. E, così, quand’anche si osservino personalità impegnate nella trasgressione – politica, etica, estetica – dei codici normativi precostituiti, ci si accorge che esse fanno parte di quella ristretta cerchia di persone che, nei casi in cui tale gioco fosse davvero intrapreso per la forza della verità e non per mero esibizionismo, non hanno nulla da perdere, non rischiano nulla, essendo anzi la trasgressione qualche cosa che da esse ci si aspetta, che fa parte della loro figura pubblica: una trasgressività che magari riesce a risvegliare qualche coscienza, a tendere le trame prescrittive, ma che, così intesa, rimane monopolio di pochi garantiti, che cioè possono permettersi, senza perdita alcuna, di irrompere nella sfera pubblica con una esibizione scandalosa. Per i più, invece, il rischio è quello di un’azione incoerente che si condanna all’insignificanza e sacrifica una vita in una battaglia che le configurazioni di potere hanno già relegato all’indifferenza.

Michel Foucault” by kong niffe is licensed under CC BY-NC 2.0.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: