RIFORMA: CONSIDERAZIONI TRA FENOMENOLOGIA E SEMANTICA

GIUSEPPE BATTELLI

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 Parlando di riforma, in questi mesi di ricorrenza penta-centenaria è difficile sfuggire alla forza attrattiva dell’esposizione a Wittenberg delle 95 tesi di Martin Lutero. Troppo rilevante è stato lo spessore assunto progressivamente dall’atto compiutosi, per quello che è dato sapere e come la tradizione evangelica ha in ogni caso consacrato, il 31 ottobre 1517. E universale è il riconoscimento del carattere fondativo legittimamente attribuitogli nella memoria storica e nell’orizzonte simbolico del mondo della Riforma; e attraverso di essa, in una molteplicità d’implicazioni, il contributo al definirsi di taluni caratteri se non esclusivi perlomeno distinguenti la modernità occidentale.

     Proprio il delinearsi complessivo della fenomenologia protestante, tuttavia, ha finito con il dare parvenza di oggettivo e pressoché obbligato nesso tra quelle vicende cinquecentesche e il termine/concetto di “riforma”. Quasi ci si trovasse di fronte alla sinonimia riforma-Riforma o viceversa. Il che, naturalmente, si configura come una palese semplificazione.

     Semplificazione che da un lato arricchisce e nutre di profondità storica un’idea, trasformandola anche in oggetto di mito religioso non meno che politico, date le note conseguenze che ne scaturirono negli equilibri territoriali e di potere dell’Europa germanica; dall’altro, nel suo incarnarla in maniera specifica, ne delimita la valenza e le ulteriori pur esistenti e consistenti declinazioni. Storiche come di pensiero.

     E non ci si riferisce qui solo alla rivendicata, per taluni autonoma e dunque non reattiva riforma religiosa maturata sempre nel contesto cinquecentesco, ma in ambito cattolico. Questione antica, da cui il dibattito su Contro-riforma o viceversa Riforma cattolica, seppur destinata più di altre a non trovare una soluzione condivisa. Quanto a un uso ben più dilatato e versiforme e in certa misura inflazionato del concetto stesso di “riforma”.

     In questo proliferare, per sua natura in apparenza confuso ma forse più semplicemente babilonico, un aspetto pare indiscusso o quantomeno non conteso: che si tratti comunque di motus. Dunque, di negazione dello status (…quo ante, storicamente parlando, ma anche più latamente in sede teoretica).

     Chiarito forse questo, si è nondimeno al solo punto di partenza. In quale direzione infatti ci si muove? Verso il futuro o verso il passato? Potrebbe sembrare una non-questione, ma sarebbe una percezione da non assecondare con troppa risolutezza: dato che è proprio la proliferazione e variazione d’uso a dare sostanza al problema.

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     Nel discorso politico, ad es., l’idea stessa di “riforma” risulta legata in modo intrinseco a quella di sviluppo, di movimento in avanti. In sostanza: legata alla promessa/intenzione di un cambiamento/miglioramento. Certo, aleggia talvolta l’astuzia politica, la captatio benevolentiae di breve prospettiva affidata alla retorica del “nuovo è meglio”. Ma al netto di questo, e del correlato basso cabotaggio pre-elettorale, c’è in quella promessa qualcosa di più sostanziale, di più “lungi-mirante” per così dire. Sussiste sullo sfondo, implicitamente e dunque senza l’aspettativa della riscossione a breve del consenso, la visione/progetto di un divenire che vorrebbe migliorare le condizioni del passato; o talora, se dal principio generale si passa all’esempio concreto, adattare all’evoluzione socio-economica le condizioni di esercizio dei diritti politici, come nell’Inghilterra della prima industrializzazione e dei reform acts elettorali ottocenteschi.

     La riforma può poi maturare in condizioni spazio-temporali specifiche, quale frutto cioè di un processo e di una volontà politica in atto come nel contesto inglese appena evocato, o essere altrimenti connessa all’attività ordinaria di organismi, collegi, istituzioni, che come nel caso del basso Medioevo europeo operavano a tal fine in realtà comunali e repubblicane. E ancora può essere “di struttura” (sociale, economica, come spesso rilevabile nella concezione socialista di carattere, appunto, “riformista” e non rivoluzionario) o di specifico e più circoscritto settore (in genere patrimonio del progressismo moderato). Ma rimane comunque racchiusa nella dinamica valoriale passato-futuro, dunque in una chiara prospettiva di carattere evolutivo.

     L’evocazione di una riforma, di processi innovativi e simili, implica tuttavia necessariamente una prospettiva rivolta al futuro? Se si guarda alla realizzazione concreta, all’attuazione del previsto/auspicato processo, ovviamente sì: dato che gli interventi correttivi possono solo svolgersi in un presente successivo al passato che si intende modificare/emendare. Se si guarda invece al modello di riferimento, la questione non è scontata. Il modello di riferimento, infatti, può trovarsi, e anzi frequentemente è, nel passato.

     Nel discorso politico ciò è difficile che accada, perché solo richiamandosi a rappresentazioni utopistiche o in certa misura distopiche ciò avrebbe un senso. Viceversa è proprio quello che accade a vari dei maggiori fenomeni di riforma maturati all’interno della religione cristiana, soprattutto nella sua componente europea-occidentale.

     La stessa Riforma per antonomasia implica una denuncia della deformazione che il cattolicesimo romano, e in primis il papato, hanno via via sviluppato rispetto al modello originario, nel quadro del quale Lutero colse poi in relazione al pensiero specifico di Paolo di Tarso i fondamenti teologici della fede riformata. Ma già ben prima del divenire della Riforma, le istanze di riforma attraversanti la cristianità  occidentale durante il tardo Medioevo europeo guardavano alla Ecclesiae primitivae forma (Francesco e altri). Anche se si trattò di istanze che, ad eccezione della grande riforma dall’alto che prende il nome da Gregorio VII, non ebbero successo duraturo, aprendo così la strada sul lungo periodo alla Riforma.

     E per venire ai processi di riforma delineatisi nel corso del XX secolo anche in ambito cattolico, processi controversi (Y.Congar, Vraie et fausse réforme de l’église…), condannati e infine maturati nel corso di pontificati di svolta – seppure diversamente incisivi – come quelli di Giovanni XXIII e di Paolo VI e nel concilio ecumenico Vaticano II, troviamo uno sguardo collettivo rivolto a lontane epoche fondative e comunque a stagioni del passato: il recupero della patristica e delle fonti liturgiche dei primi secoli, contro il tridentinismo della riforma cattolica cinque-seicentesca e contro la neo-scolastica della riforma filosofico-teologica ottocentesca e il medievalismo che vi fece da sfondo e che fornì il paradigma storico-ideale. Tanto da parlare, per quel recupero, di un vero e proprio ressourcement.

     In sostanza: si può affermare con cognizione di causa che quello spirito di “riforma” si autoconcepiva e si traduceva in effetti nei termini di  una “ri-forma”. Nel senso del ripristino di una “forma” originaria, paradigmatica e successivamente corrotta (così lo vide, tra gli altri e ben al di fuori di ogni appartenenza confessionale, lo stesso A. Gramsci). Riforma dunque, in questa accezione, da intendersi non come conquista di traguardi sociali, economici, politici, tracciati da insiemi di pensiero (ideologie) emersi come analisi/risposta a processi del divenire storico ritenuti inopportuni, vessatori, da interrompere/ rivoluzionare. Ma riforma come “ritorno a monte” della corruttela morale, teologica, istituzionale, che aveva deformato il modello originario, fondativo e paradigmatico. Un processo/tendenza, ma è questione qui solo da accennare, che naturalmente metteva radicitus in crisi l’idea-forza della Tradizione.

     Originario, si diceva sopra, ma in quali termini? Innanzitutto in termini assoluti e rispetto all’intero cammino storico dell’esperienza cristiana, come nei casi maggiori sopra richiamati. Ma nondimeno originario, talora, anche in termini più relativi e circoscritti: come nella fattispecie degli Osservanti all’interno del costituirsi duecentesco e del successivo svilupparsi dell’Ordine francescano. Laddove il carattere paradigmatico era com’è noto rappresentato dalla scelta di povertà del fondatore. Qui come là, in ogni caso, una riforma “a ritroso”. Una ri-forma appunto: come ricerca di un ritorno alle proprie radici e non come evoluzione verso un futuro in divenire.

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      Certo, ricorrere al verbo “rivoluzionare” riflettendo sul concetto di riforma non è privo di una qualche ambiguità e apparente incongruenza. Storicamente, infatti, riforma e rivoluzione hanno spesso rappresentato la duplice, e antagonistica, prospettiva dei movimenti politici votati al cambiamento. Ma, come si sa, secondo strategie interne/evolutive o esterne/distruttive rispetto al sistema da modificare. Giustificando, dai diversi punti di vista, prese di posizione spesso sfocianti in veri e propri giudizi di ordine ideologico: come nel caso delle considerazioni di B. Croce relative al fatto che “il socialismo […] abbandonato il rivoluzionalismo marxistico, si veniva facendo riformatore e con ciò sostanzialmente liberale”. O ammettendo l’uso strategico delle riforme in chiave antirivoluzionaria, come spesso accadde nel corso dell’Ottocento e come esplicitamente riconosceva C. Pisacane, col dire che si era ritenuto “che l’unico modo di impedire le rivoluzioni fosse il concedere ai popoli le riforme cui avevano diritto”.

     E talvolta si è assistito, è ben noto, a fenomeni che nascono con i caratteri e le intenzioni della “riforma” e poi diventano, nel precipitare di eventi, protagonisti, obiettivi, “rivoluzione”. L’esempio di più facile memoria è naturalmente l’iniziale fase monarchico-costituzionale che, pur susseguente allo stesso emblematico 14 luglio 1789, aprì e segnò per non pochi mesi la Rivoluzione francese. Cui si può forse aggiungere il 1917 russo, con la duplice e ben differenziata fase rivoluzionaria.

     È semmai di un qualche ulteriore interesse richiamare l’alternarsi, e il più o meno proprio o improprio incrocio, che talora si è dato nel richiamo ai due concetti. Talvolta per confermarne l’antagonismo, talaltra per attestarne il nesso. Così nella rappresentazione del pensiero ultramontano del primo Ottocento (da de Maistre a de Bonald al giovane Lamennais) possiamo trovare evocata la Riforma quale fenomeno iniziale di una genealogia di “errori” che avrebbe portato alla Rivoluzione, con l’ipostatizzazione del nesso tra riforma religiosa e sconvolgimento sociale e politico. Mentre per G. Mazzini “i nostri riformatori religiosi, non gl’imitatori di Lutero, ma quei che tentavano una via di riforma tutta italiana, furono, da Arnaldo [da Brescia] a Savonarola, rivoluzionari politici”. Un Mazzini, peraltro, che rivendicherà per sé la fisionomia di “riformatore sociale” e non “agitatore politico”.

     Ma tutto questo se ci si aggira con semplicità, e qualche imprudenza, nei contesti semantici e concettuali dell’universo politico o invece religioso. Mondi che le stesse implicazioni di “riforma” inducono a considerare tra loro assai più vicini di quanto non verrebbe da immaginare, soprattutto in epoche e contesti culturali che ancora tempo fa si sarebbero potuti definire di consolidata secolarizzazione, ma che oggi appaiono incapaci di esprimere con dignità anche solo l’idea di una società effettivamente e consapevolmente secolarizzata.

     Altrove, invece, e in ambiti ben lontani l’uno dall’altro come ad esempio l’evoluzione dei sistemi produttivi e il mondo dell’arte, l’idea medesima di riforma è di fatto ignota: e tutto è ricondotto a rivoluzione! Alla “riforma” rimangono piuttosto altri terreni: in apparenza meno appassionanti, ancorché non meno impervi e forieri di drastici per non dire in-commendevoli cambiamenti. Da quello della trasformazione dei sistemi scolastici e universitari, a quello ben più serio e socialmente incisivo dell’evoluzione costituzionale o degli ordinamenti giudiziari.

     E, infine, perché no: il terreno della dimensione interiore.

 

ENDOXA - BIMESTRALE POLITICA Senza categoria STORIA DELLE IDEE TEOLOGIA

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