LA BONTÀ DEL CIBO, LA VITA BUONA

SIMONE POLLO

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Per noi esseri umani il cibo è un piacere ed è un pezzo della nostra cultura. Mai come oggi nelle nostre società economicamente progredite l’alimentazione è molto più che una necessità vitale. Programmi televisivi,  libri, giornali, ristoranti e negozi contribuiscono a costruire un mercato e una vera e propria industria culturale del cibo, declinandosi intorno alle due polarità della riscoperta della tradizione e della innovazione. Per la nostra società il cibo è oggi un bene sul quale si è aperta una ricerca continua di miglioramento e di qualità. Quanto poi questa ricerca corrisponda effettivamente alle promesse è una questione aperta, ma che non è il caso di affrontare in questa sede. Quello che intendo sottolineare qui è quanto oggi il cibo sia oggetto di interesse e discussione e come su tale fenomeno si possano (e forse si debbano) operare analisi e riflessioni.

Fra queste analisi se ne potrebbero certo condurre alcune molto generali, come quelle che ad esempio mettano a confronto l’interesse e la ricerca sul cibo della nostra società con la condizione di drammatico sottosviluppo e povertà che affligge ancora grande parte della popolazione mondiale. Si tratta senza dubbio di un tema di primissima importanza (anzi forse dovrebbe essere la considerazione più rilevante e urgente da fare in materia, così come per ogni altro aspetto che caratterizza lo sviluppo delle nostre abitudini di vita e le loro differenze con quelle del resto della popolazione mondiale). Non è tuttavia questo il tipo di riflessione che intendo condurre qui. In questa sede mi voglio occupare di una questione che, per così dire, si può considerare “interna” a queste nuove pratiche di attenzione verso il cibo. Se, infatti, quella riflessione circa l’equità di una tale diversità di abitudini fra esseri umani può condurre a dubitare della sua legittimità in toto, il tipo di discussione che intendo condurre dà queste pratiche in qualche modo per acquisite e tenta di ragionare appunto al loro interno. In particolare, vorrei dire qualche parola su una specifica tendenza che caratterizza questa contemporanea attenzione per l’alimentazione, ovvero  quella del vegetarianesimo/veganesimo.

La scelta di adottare stili alimentari che escludano in parte o del tutto prodotti di origine animale non è certo una novità. Come noto, in Occidente, la pratica del vegetarianesimo affonda le sue radici nell’antichità classica e ad esso sono legati nomi come quelli di Pitagora e Plutarco. La novità della presenza di questi stili alimentari fra le abitudini della nostra società è legata all’ampiezza della loro diffusione, alle ragioni della loro adozione e ai modi del dibattito pubblico che si svolge intorno ad essa. In particolare vorrei soffermarmi su un aspetto della discussione pubblica che circonda questo genere di scelte alimentari, ovvero quel tipo di obiezione che rimprovera a chi adotta questo genere di condotta di mortificarsi e di non sapere godere dei piaceri della vita (di cui il cibo sarebbe parte essenziale). Chiunque, ad esempio, abbia seguito in un qualsiasi talk-show una discussione sul tema del vegetarianesimo ha sicuramente familiarità con questo argomento, che prima o poi viene avanzato da uno degli ospiti a favore dell’onnivorismo contro il difensore di turno della scelta vegana/vegetariana (in genere piuttosto folcloristico e privo di grandi capacità argomentative). È davvero così? L’adozione di un alimentazione vegana/vegetariana è una mortificazione (magari necessaria, ma pur sempre mortificazione)?

Prima di provare a discutere questa domanda vorrei precisare cosa intendo per vegetarianesimo, il termine che d’ora in poi adotterò per riferirmi a un’ampia gamma di scelte alimentari. Con tale parola, infatti, mi riferisco qui non solo alla sua definizione usuale, ovvero a quella condotta alimentare che esclude carne e pesce, ammettendo tuttavia prodotti di origine animale come latte, uova e loro derivati. Qui con questo termine intendo ogni stile alimentare che esclude del tutto o in parte prodotti di origine animale, in uno spettro che va dal veganesimo (ovvero l’esclusione di qualsiasi prodotto alimentare di derivazione animale) fino a forme di semi-vegetarianesimo che includono anche carne o pesce in determinate circostanze (qualora, ad esempio, siano stati allevati in certi modi rispettosi del benessere animale). Inoltre, con la definizione di vegetarianesimo che adotto qui intendo quei casi in cui le condotte alimentari che ricadono in quello spettro sono seguite per ragioni morali (ad esempio per non causare sofferenze agli animali), escludendo quindi le ragioni religiose o meramente salutistiche.

Come detto, nel discorso pubblico e nella conversazione di senso comune chi adotta questo genere di scelte alimentari si trova spesso ad affrontare l’obiezione secondo cui un tale stile di vita sarebbe mortificante e priverebbe chi lo adotta di grandi piaceri della vita. A prima vista non sembrerebbe in errore chi descrive queste condotte come rinunce, e nello specifico rinunce a piaceri. Chi adotta una condotta vegetariana quasi sicuramente non pratica questo stile alimentare dalla nascita, ma è stato cresciuto come onnivoro e a un certo punto della propria vita ha deciso di cambiare le proprie abitudini alimentari (anche se probabilmente in futuro crescerà il numero degli esseri umani allevati sin dalla nascita come vegetariani). È assai probabile quindi che fino a un certo punto della propria vita i vegetariani abbiano provato piacere a mangiare, ad esempio, l’arrosto preparato nel giorno di festa da un caro parente. Ed è anche probabile che smettere di mangiare quel piatto durante il pranzo delle domenica non sia stato propriamente semplice, non solo per le perplessità dei propri cari dubbiosi di una decisione così bizzarra, ma anche per la necessità di trattenersi dal mangiare un piatto delizioso che fino alla settimana prima si era gustato con piacere.

Buona parte dei vegetariani arriverà probabilmente al punto di non considerare più piacevoli e attraenti piatti che contrastano con la propria scelta morale e alimentare, ma sicuramente questo non avviene immediatamente (e in alcuni casi non accade mai). L’obiezione di senso comune appare a prima vista fondata, quindi: il vegetariano si priva di gratificazioni. A questo punto, la replica standard del vegetariano consiste solitamente nell’avanzare le proprie ragioni morali contro i piaceri della carne (espressione valida in ogni suo possibile senso). La giustificazione del proprio atteggiamento, cioè, è ricondotta a ragioni morali che soverchiano il semplice piacere del cibo, proprio in quanto morale. Ad esempio, se un animale viene riconosciuto come dotato di status morale, ucciderlo per usarne le carni come cibo è un omicidio e pertanto nessun piacere da alimenti derivati da un tale azione è sufficiente a giustificarlo.

Sicuramente i vegetariani e gli scettici circa le loro ragioni divergono su queste ragioni morali. Nel salotto televisivo in cui si discute del tema il vegetariano vede nell’animale un soggetto di diritti e il famoso chef no. È indubbio che al cuore della divergenza ci sono argomenti morali e il riconoscimento da dare agli animali non umani che finiscono sulle tavole degli esseri umani. Attorno a questa divergenza, tuttavia, si muove un discorso sul tipo di vita che conduce chi adotta una scelta vegetariana e chi la critica. Una delle ragioni della povertà del discorso pubblico sul vegetarianesimo e, in genere, sulle questioni etiche delle nostre scelte alimentari è data anche dalla difficoltà di mettere a tema tali scelte all’interno di un più ampio discorso sullo stile di vita. Tale messa a tema può passare solo da un ripensamento del significato del cibo all’interno della discussione sulla moralità del vegetarianesimo. I sostenitori dell’idea che il vegetarianesimo sia una scelta rinunciataria colgono infatti un punto importante e che è spesso trascurato dalle analisi etiche sul vegetarianesimo. Non è infrequente, infatti, percepire negli argomenti filosofici sul vegetarianesimo una sorta di sottovalutazione dell’importanza del cibo nelle vite umane. Il fatto che – a ragione secondo chi scrive – sarebbe opportuno ripensare l’uso alimentare degli animali per le loro sofferenze non implica che le nostre tradizioni e abitudini alimentari non siano importanti e abbiano un ruolo ben diverso dall’essere “solo cibo”.

Adottare un’alimentazione vegetariana non significa mortificarsi per ragioni morali superiori e rinunciare a importanti piaceri della vita, ma significa riflettere criticamente su una importante sfera di esperienza della propria vita e ripensarla. Scegliere un’alimentazione vegetariana (in qualsiasi modo essa sia declinata) non è quindi una mortificazione in vista di un bene più alto e importante., ma la trasformazione di un’area di esperienza centrale per la nostra vita. Considerato il radicamento delle abitudini alimentari nelle nostre vite e il loro significato possiamo guardare alla riflessione su di esse e al loro cambiamento come a una forma di trasformazione del carattere. Se immaginiamo la vita vissuta dagli animali che potrebbero giungere sulle nostre tavole (e le sofferenze che le hanno costellate) possiamo giungere a pensare che un certo tipo di alimenti non possono più fare parte di ciò che riteniamo un piacere della vita. Questo non implica ovviamente giungere a trovarli immediatamente sgradevoli o perdere qualsiasi desiderio nei loro confronti. Significa pensare che qualcosa che prima era parte di ciò che rendeva la nostra vita buona da un certo punto in poi non può più essere visto come tale. Trasformare la propria condotta alimentare è un modo per autodeterminare il proprio carattere e stabilire una distanza rispetto ad abitudini consolidate e ricevute.

Non è un caso che nella lunga storia del vegetarianesimo questa condotta alimentare sia stata spesso uno dei tratti distintivi degli appartenenti a gruppi “radicali” in contrasto con le idee, politiche e morali, dominanti nella società in cui vivevano. Cambiare la propria alimentazione come conseguenza di una attenzione morale agli animali è un modo di affermare cosa è meglio nella propria vita e quale tipo di persona si vuole essere. In questo senso, quindi, non si tratta di una forma di mortificazione, ma di una riflessione sui piaceri e i beni che si ritengono importanti per condurre una vita buona e di una loro riorganizzazione.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA SOCIOLOGIA STORIA DELLE IDEE

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