ERETICO, CORSARO, LUTERANO

MARCELLO MONALDI

Pier-Paolo-Pasolini-Lecce

Chi si è definito tale (corsaro, eretico, luterano) non è Martin Luther o Lutero, il capofila dei riformatori cinquecenteschi della chiesa cattolica romana, bensì Pier Paolo Pasolini, che a dire il vero si è definito così per via indiretta, cioè attraverso le opere, o meglio attraverso i titoli di certe sue opere (in ordine di apparizione: Empirismo eretico (1972), Scritti corsari (1975), Lettere luterane (1976)).

Parlare di opere può essere tendenzioso quando c’è di mezzo Lutero: certamente Pasolini considerava corsara, eretica, luterana anche la sua fede. Ma che dire di Lutero stesso? Certamente, anche Lutero è stato definito “eretico” così come non ha mancato di apostrofare allo stesso modo i suoi avversari; non credo invece che lo si possa qualificare come “luterano” (Cristo era forse cristiano?) né lui stesso avrebbe considerato la sua riforma come “luterana”, dal momento che la reformatio ecclesiae in senso salvifico non poteva essere ai suoi occhi opera dell’uomo, di nessun uomo, neanche del Papa se mai avesse deciso di promuoverla, ma solo opera di Dio. L’uomo può al massimo rimuovere il malcostume ma una reformatio è anche e soprattutto l’agostiniana renovatio in melius, l’assimilarsi dell’uomo a Dio. La cosiddetta riforma di Lutero, nell’autocomprensione di chi sembra esserne l’autore esclusivo, non poteva dunque essere teologicamente e storicamente sua. Infine, non so se, tra i tanti epiteti a lui rivolti dalle autorità ecclesiastiche romane e cattoliche, sia mai stato usato anche quello di “corsaro”. Bisognerebbe approfondire. Dunque, corsaro, eretico, luterano è per ora solo Pasolini. Almeno per sua esplicita attribuzione.

Vorrei concentrarmi in particolare sul suo luteranesimo, anche se gli altri due termini possono senz’altro servire a chiarire cosa egli intenda con “luterano”. Ma prima di parlare di Pasolini cattolico-luterano vorrei parlare brevemente dello stesso Lutero, passando dalle parti di un filosofo che si riconosce indubbiamente nel luteranesimo e che gli ha attribuito un significato centrale nella storia universale: Hegel.

In una lunga nota di accompagnamento al paragrafo 552 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche (1830), Hegel contrappone la maniera cattolica e la maniera protestante (luterana) di considerare l’ostia consacrata rispetto al gesto della comunione, in cui essa viene effettivamente consumata dal fedele. Lutero non ha soltanto ridotto il numero dei sacramenti da sette a due ma ha anche ridefinito la natura dei due sacramenti residui (battesimo e comunione); Hegel ritiene, in particolare, che la revisione luterana dell’atto eucaristico abbia liberato il suo effettivo contenuto teologico dalla forma esteriore che esso continua ad avere nel cattolicesimo (definito anche “religione cattolica”, come a segnalarne la distanza dalla vera religione cristiana, cioè protestante). In cosa consisterebbe questa esteriorità? Molti di noi l’hanno visto fare tante volte durante la Messa e molti continuano a vederlo fare: a un certo punto della liturgia cattolica, l’ostia viene consacrata dal sacerdote con una formula che riprende le parole di Cristo durante l’ultima cena (“Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi”) e viene poi adorata dal sacerdote stesso con una genuflessione, quindi elevata al cielo perché anche il popolo dei fedeli possa vederla e adorarla.

È vero che la liturgia della Messa è mutata dai tempi di Hegel ma non in questo punto essenziale, che costituisce anche l’oggetto del contendere: l’adorazione dell’ostia che precede la comunione dei fedeli. Osserva dunque Hegel che, nel rito cattolico, tra la consacrazione e l’eucarestia Dio è sì presente nell’ostia, fattasi ormai il corpo di Cristo, ma non per questo l’ostia in quanto tale perde il suo carattere di cosa materiale. Ne deriva che se l’ostia consacrata resta una cosa, che si può toccare con mano e che viene mostrata come tale ai fedeli per essere adorata, questa idea di consacrazione non può rendere giustizia fino in fondo a Dio stesso, che è spirito: Dio è infatti presente in una particola che si è transustanziata nel corpo di Cristo ma questa particola viene adorata anche nella sua veste di cosa, poiché viene appunto mostrata all’occhio fisico dei fedeli.

Altro accade, stando a Hegel, nel Servizio Divino dei luterani: l’ostia si consacra, diventando il corpo di Cristo, nel momento stesso della sua consumazione. Ciò starebbe a indicare che nel protestantesimo il significato spirituale della comunione viene preservato da ogni residuo materiale: l’uomo entra in comunione con Dio in quanto spirito, la sua presenza è puramente spirituale, perché mangiare il corpo di Cristo significa dissolvere la materialità dell’ostia in un atto di assimilazione e di fusione soggettiva, e soprattutto perché la consacrazione dell’ostia non è un atto separato dalla sua consumazione. Consacrare significa ipso facto dissolvere il finito nell’infinità dello spirito: consacrazione e comunione coincidono.

Attraverso questa forma di presenza di Dio nell’ostia, agli occhi di Hegel si rende del tutto trasparente anche il senso della presenza di Dio nel mondo: Dio vive nella devozione e nella comunione della sua comunità, non al di fuori, non conserva cioè alcuna forma di trascendenza e di separazione, a cui la soggettività non possa direttamente accedere. Ma la comunità dei fedeli sta nel mondo ed è anche la base dell’ethos su cui si fonda lo Stato. Dunque, lo Stato non è l’antagonista secolare della religione, poiché questa non è posta fuori dal saeculum. Anche la vera religione sta nel saeculum: la secolarizzazione, per così dire, si dà alla fonte.

Per Hegel, le conseguenze del diverso modo di intendere la comunione che separano cattolici e protestanti sarebbero incalcolabili e allo stesso tempo diventerebbero la plastica testimonianza di un diverso modo di intendere il rapporto tra Dio e mondo, pur condividendo, cattolici e protestanti, gli stessi testi sacri. Per i cattolici, in definitiva, Dio non può che essere consegnato a un’autorità (religiosa), perché il fatto che Dio resti una cosa (l’ostia consacrata e adorata) prima del momento della comunione sta a indicare, secondo Hegel, che nel cattolicesimo Dio conserva un residuo opaco, non trasparente, non risolto nello spirito della comunità, un forma di esteriorità rispetto all’essenza stessa dello spirito, a causa della quale esteriorità quest’ultimo non può valere fino in fondo come il giudice e l’arbitro di se stesso ma viene sempre rimesso a qualcosa d’altro, che per forza di cose deve essere mediato da qualcun altro: il sacerdote, come rappresentante dell’autorità ecclesiastica e come diretto interlocutore di Dio.

Il senso spirituale del testo sacro e la sua condivisione eucaristica non sarebbero così del tutto manifesti alla libertà dello spirito. Ma questo produrrebbe un residuo di illibertà anche nel rapporto con lo Stato, perché anche in esso la comunità dei fedeli non si potrebbe riconoscere fino in fondo. La coscienza religiosa comunica con quella etica e politica, non sono due entità separate. Se la prima non è libera, non lo è nemmeno la seconda. La trascendenza residua di Dio nell’ostia consacrata non è dunque per Hegel fonte di libertà, non è il corrispettivo dell’indisponibilità del soggetto rispetto all’autorità religiosa o politica, è invece il segno di una sottomissione a entrambe. La sottomissione consiste infatti nell’impossibilità di un riconoscimento pieno. La libertà come fuga dal mondo o come separazione tra regno di Dio e regno dell’uomo non è la forma della vera libertà ma lacerazione, conflitto e sottomissione a qualcosa di esterno. Davvero libero è chi può trovare all’esterno ciò che egli vive e pensa dentro di sé. Stando così le cose, il cattolicesimo è un fondamento malcerto anche per l’eticità dello Stato, perché non rispetta il senso profondo della libertà; e negare la libertà significa sempre esporsi all’esigenza insopprimibile di affermarla.

Questo il luterano Hegel. La trascendenza e l’escatologia, attraverso la porta d’accesso dello Stato, vengono assorbite e portate a compimento dalla storia, dal suo senso razionale e teleologico. Fino a che punto è ortodossa questa appropriazione della teologia luterana e fino a che punto, Hegel non meno di Lutero, rendono giustizia alle premesse teologiche dell’eucarestia cattolica? Domande troppo grandi, almeno qui e non solo qui: e fin qui, d’altronde, abbiamo ascoltato solo la voce di Hegel. La lettura filosofica del luteranesimo da lui offerta non è certo l’unica possibile; basti pensare alle posizioni, per molti versi opposte alle sue, sostenute da Kierkegaard. Ma già il solo il rapporto di Lutero con Federico il Saggio, suo protettore, e con l’autorità politica in generale, nonché l’abolizione della differenza tra stato laicale e clericale, per non dire della condanna della guerra dei contadini (1525) pronunciata da Lutero danno subito la misura dell’immediata rilevanza storico-politica, oltre che strettamente spirituale o confessionale, della “sua” riforma. Hegel ne ha colto soprattutto questo aspetto e del resto egli intende la storia nel suo complesso come storia dello spirito (inteso certamente alla luce di un pensiero speculativo).

Lo stesso termine reformatio è venuto storicizzandosi: già a partire dal ‘700, la riforma non veniva più intesa soltanto come un intervento puntuale e salvifico da parte di Dio nella storia umana, per ripristinare l’originaria dottrina delle fede ma cominciava a essere vista, anzitutto in ambito pietista e poi nel quadro dell’Illuminismo, come il primo episodio di un rinnovamento più ampio, da estendere oltre la sfera strettamente religiosa. L’orizzonte temporale di Lutero era pur sempre costituito dall’imminente fine del mondo e dall’instaurazione del regno di Dio; le epoche successive hanno invece inserito la riforma protestante in un processo di cambiamento che, partendo dalla religione, si sarebbe esteso alle rivoluzioni politiche e sociali della modernità. Il successivo travaso della reformatio religiosa nell’idea di riforma politica e nel cosiddetto riformismo è anch’esso figlio di questa storia.

Dunque, l’assimilazione dell’eresia luterana al processo di civilizzazione della modernità appare innegabile. Il suo contributo all’idea di progresso altrettanto certo, al di là della matrice medievale della formazione culturale di Lutero e delle sue stesse intenzioni riformatrici. Di questo processo della modernità fa certamente parte anche lo sganciamento dalla teologia della storia, compresa quella luterana, e l’elaborazione di una filosofia della storia, in cui la religione conserva sì un ruolo ma assieme ad altre grandezze culturali e secolari: al problema della teodicea o giustificazione di Dio si viene sostituendo quello della giustificazione della fede nel progresso, visto che la storia si costituisce come la storia solo in ragione di un senso unitario che sembra guidarla, per l’appunto il progresso. La teodicea si storicizza. Odo Marquard ha peraltro visto in questa storicizzazione non il superamento del modello causidico e tribunalizio che ispira la teodicea ma solo il cambiamento del suo obiettivo: la domanda polemica prima rivolta a Dio (“perché c’è il male del mondo nonostante la tua onnipotenza?”) verrebbe ora rivolta all’uomo, o meglio a certe categorie di uomini da parte di altri uomini (“chi tra noi sono i responsabili dei mali del mondo?”).

Se Dio non siede più nel banco degli imputati, ecco che dobbiamo vedercela tra di noi: ed ecco allora che si va incontro alla tragica conseguenza di dover scovare sempre nuove ragioni presuntamente razionali per eliminare i presunti responsabili di turno. La filosofia della storia, credendo nel progresso umano, civile e politico, credendo soprattutto nell’esistenza di una e una sola storia, universalmente intesa, deve individuare tutti quelli che ostacolano l’avanzamento di questo fronte unico e unitario, perché vengano eliminati. Esempi tipici di questo schema di pensiero sono le visioni totalitarie e monocratiche della politica e del progresso, non quelle in cui il potere viene diviso e ripartito in maniera bilanciata, sulla scia di Montesquieu. Ma anche il totalitarismo è più cha mai lo stigma della modernità, secondo Marquard. Quanto a Lutero, c’entra ancora qualcosa con tutto questo?

Per Pasolini sembra di sì. Tutto sta a vedere come. Pasolini ha scagliato le sue accuse, denunce, provocazioni alla classe dirigente del nostro paese non come un filosofo della storia ma certamente come un poeta, regista, saggista, come una voce isolata che ha deciso di incarnare in maniera disperata, totale, vitalistica la contrapposizione tra un mondo in via di estinzione, quello dell’Italia arcaica, preindustriale, contadina, sottoproletaria, e il mondo trionfante della civiltà dei consumi, bollata come disumana, sradicata, alienata, falsamente tollerante, fascista. Al centro di questa contrapposizione storica, in cui il primo mondo viene fagocitato dal secondo nel giro di una quindicina d’anni, che sono poi gli ultimi della vita di Pasolini, ucciso nel novembre del 1975, al centro di questo trapasso epocale vuole collocarsi la sua testimonianza d’amore per la tradizione popolare e premoderna dell’Italia minore, rurale, emarginata, borgatara, povera, resistente nei secoli ai progetti del potere.

Questa Italia mitica e ancestrale Pasolini vede sedotta e deturpata nella sua innocenza e nella sua ferocia antica da un potere che è riuscito finalmente ad assimilarla, rendendola appunto simile alla piccola e meno piccola borghesia, su cui egli fa ricadere la peggiore di tutte le condanne possibili, quella dell’obbedienza, dell’ipocrisia, del conformismo e della supina acquiescienza al potere storico. Dunque, a un certo punto, la “meglio gioventù” uscita dalla seconda guerra mondiale, la gioventù comunista e lo strato primordiale della società italiana si avviano a scomparire, insieme, privando Pasolini di ogni riferimento d’amore. Come a voler continuare a denunciare tutto questo, come se avesse davvero senso denunciare con rabbia tutto questo, egli lascia alla fine tra le sue carte una raccolta di scritti, in parte già pubblicati in parte no, e un titolo: Lettere luterane. Usciranno postumi questi scritti, nell’anno successivo alla sua morte (1976).

La denuncia non è rivolta direttamente alla storia ma alla classe dirigente italiana che non ha saputo attenuarne l’impatto violento e che, per questo, già solo per questo, andrebbe processata nelle pubbliche piazze. Qui tornano buone le osservazioni di Marquard, anche se Pasolini non guarda alla storia dal pulpito del progresso, almeno non del tutto. Ma qui sta anche il suo paradosso. Il sottotitolo delle Lettere luterane recita: Lo sviluppo come falso progresso, ma parlare di falso progresso non basta davvero a nascondere l’antimodernismo di Pasolini, la sua difficoltà ad accettare il superamento dell’antico e la scomparsa delle tradizioni che il progresso come tale porta fatalmente con sé. Al di là della corruzione democristiana, al di là della violenza fascista e clericale, incalzata e messa sotto accusa senza requie, vi è anzitutto in Pasolini il sostanziale rifiuto del boom economico, la percezione di uno smarrimento generazionale, giovanile, il sospetto che diventa certezza circa la capacità rivoluzionaria del Potere, capace di farla lui la rivoluzione al posto delle classi subalterne e capace, soprattutto, di anestetizzarle una volta per tutte con una rivoluzione tollerante, senza più dogmi, peccati, interdetti. Ma proprio per questo, viene da dire, il progresso è anche fatale, imprevedibile, non così facilmente riconducibile a qualcuno: e proprio per questo non è così facile separare quello cosiddetto “vero” da quello cosiddetto “falso”.

Tutto ciò, nondimeno, viene denunciato da Pasolini in una maniera che gli appare luterana. La storia messa all’indice da una sorta di riformatore religioso, la storia condannata, come se potesse essere guidata saggiamente, come se essa stessa avesse una sua saggezza, che sarebbe colpevole nascondere, deviare, disattendere, portando lo sviluppo sempre più in là, troppo in là, a danno del progresso civile, culturale, politico. Il tradimento del progresso. Il Dopo-storia, la necessità di tornare all’origine. Pasolini ne parla in una poesia bellissima del 1962, Un solo rudere, che a un certo punto recita così: Io sono una forza del passato, / solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi / dove sono vissuti i fratelli. Ma cosa è successo nelle nazioni protestanti, luterane, puritane, come ad esempio gli Stati Uniti, che di quel consumismo sono i primi esportatori? In nazioni non conculcate dal clerico-fascismo, in nazioni più civili della nostra, in cui il progresso si è disteso in maniera meno traumatica e più consapevole? Ha davvero senso credere che il luteranesimo avrebbe potuto fare meglio del cattolicesimo rispetto alla perdita di contatto con l’antico, con i “borghi abbandonati sugli Appennini”, rispetto alla “mutazione antropologica” introdotta dal consumismo? Un funerale dignitoso e non lo scempio della fossa comune: forse questo effettivamente sì, questo avrebbe potuto farlo, alleviando il lutto di molti. Ma sarebbe bastato a Pasolini?

Lutero, l’eretico che contesta il cattolicesimo romano. Certamente anche Pasolini lo fa, ad esempio scrivendo un lungo epigramma su Pio XII (A un Papa, 1958) ma arriva anche ad accusare la chiesa di essere lo spietato cuore dello Stato (La religione del mio tempo, 1957-59). Che è anche l’aspetto più hegelo-luterano di tutta la faccenda, non necessariamente per la questione della spietatezza. Ma è appunto luterano a rovescio, per così dire, rispetto all’uso che di Lutero si vorrebbe fare: la Chiesa comunica con lo Stato nella filosofia dello spirito hegeliana che traduce Lutero e in Lutero stesso. In ogni modo, accusare la chiesa romana non basta per essere luterani. Basta però per rivelare, se mai ce ne fosse bisogno, la matrice religiosa, profeticamente religiosa di tutta la diagnostica di Pasolini, rabdomante geniale. Uno spartito illuminista, fondato sull’idea di progresso, in questo sì erede del luteranesimo e del suo destino di progressivo inveramento nella dimensione etico-politica, viene suonato da Pasolini con uno strumento premoderno, in cui riecheggiano sonorità ancestrali, come quelle di uno zufolo contadino, che non si possono confondere con i corali di Bach.

La mitizzazione dell’innocenza storica, del mondo preistorico delle comunità che sembrano senza tempo, dei riti che le tengono assieme, della povertà che ne cementa la vita, questo mito, a metà tra il “buon selvaggio”, la condizione edenica e la violenza rituale, sembra essere la fiamma luterana di Pasolini: in realtà, nel cuore della riforma che Lutero ascrive a Dio è inciso il crittogramma storico dell’individualismo occidentale, della sua parabola rivoluzionaria e del suo paradossale, attuale scioglimento nella massa dei consumatori senza volto, che si accompagna peraltro alla sua massima celebrazione narcisistica. Non si è trattato (solo) di un errore o di una colpa dei democristiani o dell’eccessiva prudenza dei comunisti. Anch’io l’ho pensato a lungo.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA LETTERATURA RELIGIONE Senza categoria STORIA DELLE IDEE TEOLOGIA

Lascia un commento